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Tag: cina

Cosm8lina – ep. 1- Quando l’imperialismo diventa spaziale

La nuova corsa allo spazio made in USA è plasmata da due elementi fondamentali: da un lato aziende private che non sono mai state così lontane dall’essere un “affare privato”, dall’altro la rinnovata esigenza di difendere con la forza il dominio imperiale anche oltre i confini della Terra. Al capo opposto della storia, Russia e Cina sembrano avere una visione diversa, che punta a coinvolgere i Paesi emergenti nella prossima corsa alla Luna, ma che nella più classica delle proiezioni viene definita come una corsa contro il tempo per accaparrarsi tutte le risorse lunari e costruire un monopolio extratmosferico. Cosm8lina nasce per cercare di fare un po’ di chiarezza su questi temi: non è raro imbattersi in grandi titoli che beatificano la space economy, le costellazioni satellitari e le prossime missioni sulla Luna, ma come da tradizione ci si guarda bene dal porsi delle domande. Quali sono le reali ambizioni dei capitalisti stellari? Quali sono i programmi di colonizzazione della Luna da parte delle superpotenze della Terra? Dobbiamo davvero preoccuparci di Elon Musk? L’Italia e l’Europa in generale avranno un ruolo in tutto questo? In questo ciclo di puntate, cercheremo di rispondere a queste ed altre domande.

Lo scorso 22 febbraio, il lander Odysseus ha toccato il suolo lunare ed ha incominciato a trasmettere dati e immagini verso la Terra; è un evento epocale non soltanto perché Odysseus è il primo oggetto made in USA a tornare sulla Luna dai tempi delle missioni Apollo, ma anche perché è il primo veicolo interamente finanziato, progettato e costruito da un gruppo privato ad arrivare con successo sul nostro satellite. È stato costruito dall’azienda texana Intuitive Machines nell’ambito del programma Nova-C, sviluppato su mandato della NASA; la missione di Odysseus, in particolare, si chiama IM-1 e rientra nel Commercial Lunar Payload Services (CLPS), un complesso programma di appalti tramite il quale la NASA prevede di affidare ai privati, da qui al 2028, le operazioni di trasporto di merci e la costruzione dei mezzi che opereranno sulla Luna. L’allunaggio di Odysseus è un evento storico, che apre una pagina nuova e apparentemente ricca di opportunità, ma potenzialmente molto problematica: quello a cui abbiamo assistito a febbraio è stato il primo passo dell’industria privata verso una possibile colonizzazione del dominio lunare e, cioè, un evento destinato a cambiare per sempre il rapporto millenario che lega tutti gli esseri umani alla Luna. Ora, il ruolo dell’industria aerospaziale privata non è una grande novità, anzi: storicamente, aziende come Northrop Grumman, Lockheed Martin e Boeing hanno goduto di numerose commesse ed appalti governativi e hanno in qualche modo fatto la storia della NASA, incluse le missioni Apollo; a partire dal XXI secolo, però, con la cancellazione del programma Constellation, che avrebbe riportato gli astronauti sulla Luna entro il 2020 e, soprattutto, con la fondazione di SpaceX, il protagonismo del settore privato ha preso decisamente un altro passo. In meno di vent’anni l’azienda di Elon Musk è riuscita infatti a progettare e costruire in casa dei lanciatori riutilizzabili, in grado di abbattere i costi ed effettuare in autonomia le operazioni di lancio, ma oltre la retorica che vede Musk impegnato nel rendere l’umanità una specie interplanetaria nel futuro immaginato da ogni boomer col cybertruck, c’è un dettaglio che non dovrebbe sfuggirci: la vendita sul mercato di servizi di trasporto orbitale non è l’obiettivo finale del modello di business ideato da Musk; grazie ai servizi logistici di SpaceX e al numero record di satelliti della costellazione Starlink, infatti, Musk oggi può offrire servizi di internet satellitare, comunicazione e, in prospettiva, raccolta e storage di dati che i suoi concorrenti a malapena possono permettersi di progettare. E non ci sono soltanto i programmi di Elon Musk: l’azienda Blue Origin di Jeff Bezos, per esempio, sta pianificando di allocare enormi data center nelle orbite prossime alla Terra e di fornire servizi di cloud computing spaziale, con i server che potranno assorbire direttamente dal Sole l’enorme quantità di energia necessaria al loro funzionamento e dissipare nel vuoto degli spazi cosmici il calore prodotto.
La colonizzazione senza limiti delle orbite basse e della superficie lunare da parte di grandi corporation private apre diversi scenari inquietanti e ci espone al rischio concreto che si vengano a creare dei monopoli industriali potenzialmente inattaccabili. La nuova corsa allo spazio poi, almeno per come è intesa dai suoi attori principali, ha anche un impatto ambientale devastante: l’appropriazione non regolamentata di risorse spaziali, infatti, può compromettere l’equilibrio ambientale della Luna e degli altri corpi celesti; e c’è anche la possibilità di deturpare irreversibilmente l’aspetto del nostro satellite. Tornando sul nostro pianeta invece, l’elevato numero di lanci, in assenza di una legislazione appropriata, determina la contaminazione degli strati più alti dell’atmosfera terrestre con una nuova ed ulteriore alterazione dello strato protettivo di ozono, un fenomeno che probabilmente è già in atto in questo preciso momento. E ci sono anche altri problemi: la presenza di un gran numero di satelliti in orbita, per esempio, fa aumentare enormemente la presenza di luci indesiderate nel cielo e ciò costituisce un serio limite per le osservazioni astronomiche; questo enorme affollamento delle orbite, insieme all’alta densità dei detriti che sfrecciano sulle nostre teste, può inoltre provocare collisioni ed incidenti, con gravi rischi per i satelliti e le persone in orbita, ma anche per quelle che stanno quaggiù sulla Terra: proprio lo scorso 8 marzo, un oggetto cilindrico ha perforato il tetto e attraversato due piani di un’abitazione a Naples, in Florida. Poco dopo, la NASA ha confermato che si trattava di una parte di un carico di batterie esauste che era stato rilasciato dalla Stazione Spaziale Internazionale nel 2021. Circa un mese più tardi, nella provincia di Saskatchewan, in Canada, la famiglia Sawchuk ha trovato nel suo campo dei frammenti di fibra di carbonio e alluminio, bruciati in più parti, provenienti dalla capsula Crew Dragon di SpaceX; il frammento più grande pesava poco più di 45 kg: “Speriamo che non accada di nuovo e che nessuno si faccia male”, ha dichiarato Barry Sawchuk, il proprietario del terreno.
Negli ultimi anni, il comparto produttivo e finanziario della space economy ha raggiunto e superato i 400 miliardi di dollari ed è in forte crescita, anche perché l’occupazione delle orbite basse e l’eventuale sfruttamento delle risorse lunari non sono al momento soggette a nessun tipo di controllo; siamo quindi all’alba di una vera e propria corsa all’oro in cui i paesi più attrezzati – gli Stati Uniti fra tutti, forti della loro posizione dominante – resistono ad ogni proposta di regolamentazione; e, ciononostante, l’unico trattato in vigore, l’Outer Space Treaty risalente al 1967, prevede che l’esplorazione e l’uso dello spazio extratmosferico debbano essere condotti “a beneficio e nell’interesse dell’intera umanità”. L’interpretazione prevalente dell’Outer Space Treaty, riaffermata, estesa e maggiormente esplicitata nel successivo Moon Treaty del 1979, include lo spazio esterno e, di conseguenza, anche la Luna, in una categoria già individuata dai giuristi romani: quella dei res communes omnium, cioè quei beni naturali non escludibili e non soggetti alla proprietà di Stati o individui, poiché condivisi da tutti o dalla maggior parte dei membri di una determinata comunità. Questa interpretazione è stata fortemente contestata dall’amministrazione Trump, che il 6 aprile 2020 ha emanato un ordine esecutivo che ha del clamoroso: “Le esplorazioni di successo a lungo termine e le scoperte scientifiche della Luna, di Marte e di altri corpi celesti richiederanno la collaborazione con entità commerciali per recuperare e utilizzare risorse” si legge nel documento; però, prosegue l’ordine di Trump, “la mancanza di certezze riguardo ai diritti di sfruttamento delle risorse spaziali da parte di soggetti privati […] ha scoraggiato alcune imprese a partecipare al programma spaziale”. Perciò si ribadisce il diritto americano all’utilizzo delle risorse spaziali e lunari anche al di fuori dell’interpretazione di altri Stati o della comunità internazionale: come si legge nel documento, infatti, “Lo spazio esterno è un dominio legalmente e fisicamente unico dell’attività umana e gli Stati Uniti non lo considerano un bene comune”. E non è tutto: storicamente, infatti, la nascita e l’imposizione di nuovi mercati vanno di pari passo con l’instaurazione della forza militare necessaria a difenderli; le funzionalità di comunicazione e posizionamento, rese possibili dalla tecnologia satellitare, sono ormai talmente integrate nelle attività economiche e commerciali terrestri e in quelle strategiche e militari che i nostri affari terreni ne sono ormai completamente dipendenti. Da qui l’esigenza di controllare e difendere le vecchie e nuove infrastrutture spaziali: per esempio, nel 2019 la NATO ha dichiarato lo Spazio un “dominio operativo” e, sempre nel 2019, è ufficialmente nata la US Space Force, il ramo delle forze armate statunitensi dedicato all’astronautica militare. Tradotto: nello spazio si può fare la guerra. Il conflitto russo – ucraino ha poi introdotto un altro elemento di novità assoluta: l’esercito ucraino ha infatti ampiamente utilizzato i servizi di Starlink per coordinare le proprie azioni militari; da qui in avanti, quindi, le attività commerciali di aziende private come Starlink possono acquistare una valenza militare e geopolitica, col rischio che sarà sempre più difficile riuscire a distinguere in maniera netta questi due domini. Le implicazioni di tutto questo sono spaventose, perciò non possiamo sottovalutare quello che succede oltre l’atmosfera.
Durante Fest8lina abbiamo dedicato uno dei nostri panel al tema delle “Guerre Spaziali” e, visto l’interesse del pubblico presente, abbiamo deciso di dare vita a Cosm8lina, un ciclo di interviste, approfondimenti e altre interazioni con il pubblico in cui tratteremo i temi della space economy, della militarizzazione dello spazio extratmosferico e, in generale, delle aspirazioni del nascente capitalismo stellare. In un primo appuntamento ne discuteremo con l’Ing. Marcello Spagnulo, consigliere scientifico di Limes ed esperto al tavolo tecnico del Comitato Interministeriale per le politiche spaziali e aerospaziali: parleremo degli sviluppi più recenti – come il volo inaugurale del lanciatore europeo Ariane 6, che ricalca a perfezione la condizione di estrema debolezza strategica e l’impasse geopolitica dell’Europa di oggi -, ma parleremo anche del DDL Spazio, un pacchetto di provvedimenti recentemente approvato dal governo italiano che traccia una direzione di marcia pericolosamente atlantista e quindi, secondo noi, decisamente discutibile. Se poi avete delle domande o se ci sono dei temi che vi interessano particolarmente, scrivetecelo nei commenti e vedremo di fare il possibile. Lo spazio è fatto per sembrarci distante, ma è meno lontano di quanto possiamo immaginare: era così venticinque anni fa, quando il modulo russo Zarja e il modulo Unity della NASA s’incontrarono in orbita per dare vita a un grande laboratorio scientifico simbolo di pace, e lo è a maggior ragione oggi, perché le decisioni che i nostri governi prenderanno nei prossimi anni in materia di spazio avranno un impatto diretto sulla vita di ognuno di noi. E c’è un altro problema, ovviamente: la nascita dell’Imperialismo Spaziale è accompagnata da un’informazione quasi sempre fatta di fanboy e accaniti sostenitori di un progresso, che sembra ambire ad essere spettacolare e salvifico, ma che raramente si fa carico di indagare le motivazioni reali e sulle conseguenze del suo sviluppo.
Quello che inizia qualche centinaio di chilometri sopra le nostre teste non è più il regno silenzioso della notte stellata: secondo qualcuno (…) lo spazio è l’ultima frontiera della controrivoluzione neoliberale. Insomma: c’è già chi pregusta l’ennesima gigantesca rapina ai danni dell’umanità e nessuno sembra farci caso; anche per questo serve un media indipendente che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk.

Marcello Spagnulo. Geopolitica dell’Esplorazione Spaziale (Rubettino, 2019)
Marcello Spagnulo. Capitalismo Stellare (Rubettino, 2023)
Patrizia Caraveo, Clelia Iacomino. Europe in the global Space Economy (Springer, 2023)
Potential Ozone Depletion From Satellite Demise During Atmospheric Reentry in the Era of Mega- Constellations. Geophysical Research Letters. 11 June 2024

L’intera Africa è in Cina: cosa sta succedendo a Pechino?

video a cura di Davide Martinotti

Questa settimana l’intero continente africano è in Cina, dove i delegati e i presidenti di oltre 50 paesi africani si sono dati appuntamento, a Pechino, in occasione del Forum per la Cooperazione Cina – Africa. È il più grande appuntamento diplomatico che la Cina ospiterà quest’anno, considerando che a partecipare c’è, oltre che l’intera Africa, anche il segretario generale delle Nazioni Unite e il presidente della Commissione dell’Unione africana. Di tutto questo non troverete traccia sui nostri giornali, evidentemente ancora convinti che la Cina sia isolata. Ma cosa sta accadendo a Pechino? Ne parliamo in questo video!

Il Messico rompe con gli USA, l’India guarda a est, l’Africa va in massa a Pechino: l’impero è accerchiato

28 agosto, Reuters: Il Messico congela i rapporti con le ambasciate statunitensi e canadesi; 29 agosto, New York Times: L’Honduras afferma che metterà fine al trattato di estradizione con gli Stati Uniti; 2 settembre, Washington Post: La crescente dipendenza dell’India dalla Cina rappresenta una sfida per la strategia commerciale degli Stati Uniti. “Negli ultimi anni” spiega l’articolo “le imprese americane che cercano di ridurre la loro dipendenza dalla Cina hanno guardato sempre più all’India come nuovo hub manifatturiero e come copertura contro potenziali interruzioni nelle catene di approvvigionamento cinesi causate dalle crescenti tensioni geopolitiche. Ma man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, la stessa economia indiana paradossalmente è diventata in realtà sempre più dipendente dalle importazioni cinesi”. 3 settembre, Foreign Affairs: L’America sta perdendo il Sud-est asiatico. Gli alleati degli Stati Uniti nella regione si stanno rivolgendo sempre di più alla Cina; giorno dopo giorno, in ogni angolo del pianeta, l’impero USA non fa che perdere continuamente pezzi, che cominciano a guardare altrove. Di nuovo 3 settembre, Bloomberg: La Cina mantiene la leadership nella corsa per l’influenza sui giovani africani; “Secondo un recente sondaggio” riporta l’articolo “l’82% dei giovani africani considera positiva l’influenza di Pechino sul continente”. 4 settembre, The Hindu: La Turchia, membro della NATO, ha chiesto di aderire al blocco dei BRICS, ed è solo l’inizio. Ieri a Pechino ha avuto inizio quello che Il Sole 24 Ore definisce “il più grande evento diplomatico dai tempi dello scoppio della pandemia”: è il nono FOCAC, il forum per la cooperazione tra Cina ed Africa, che vede la presenza di almeno 50 fra capi di Stato e di governo di tutta l’Africa determinati a mettere le basi per la costruzione di “un futuro condiviso”. Ma prima di compiere questo viaggio dentro alle millemila ragioni per cui – a parte i per lettori de La Repubblichina e di Internazionale – in tutto il mondo, alle vaccate del sogno americano, si sta sostituendo la costruzione concreta di un nuovo ordine multipolare, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di sconfiggerle davvero quelle vaccate (nonostante la dittatura distopica degli algoritmi) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Victoria Nuland a organizzare un colpo di Stato, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare davvero a costruire un vero e proprio media che, invece che alle interferenze delle ambasciate USA in mezzo pianeta, dia voce all’autodeterminazione del 99%.

FOCAC 2024

Nuova convergenza nell’Indo-Pacifico: così a giugno il segretario alla difesa statunitense Lloyd Austin ha deciso di intitolare il suo intervento all’annuale summit di Shangri-La, in quel di Singapore. E quando, il mese dopo, all’Aspen Security Forum è intervenuto il segretario di Stato americano Antony Blinken, c’ha tenuto a sottolineare come non aveva mai assistito a “un momento in cui ci sia stata una maggiore convergenza tra gli Stati Uniti e i nostri partner europei e asiatici in termini di approccio alla Russia, ma anche in termini di approccio alla Cina”; “Ma la verità” è costretto ad ammettere Foreign Affairs “è che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in parti importanti dell’Asia”. A testimoniarlo, l’annuale ricerca dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute, che è finanziato dal governo di Singapore e, quindi, non è esattamente un pezzo della propaganda putiniana e filo-cinese: anche a questo giro, hanno intervistato duemila persone provenienti dal mondo accademico, del business, delle organizzazioni non governative e pure quelle governative sparse tra tutti i paesi dell’ASEAN; l’anno scorso il 61% degli intervistati aveva dichiarato che nel caso l’ASEAN, a un certo punto, fosse costretto a decidere se schierarsi con gli USA o la Cina, avrebbe dovuto optare per gli USA – e solo il 39% aveva scelto la Cina. Sono passati appena 12 mesi e il mondo s’è rovesciato: la Cina ha sorpassato gli USA (50,5 a 49,5); “Gli Stati Uniti” sottolinea Foreign Affairs “hanno perso sostegno in modo più drammatico nei paesi a maggioranza musulmana. Il 75% degli intervistati malesi, il 73% degli indonesiani e il 70% dei bruneiani hanno affermato che preferirebbero l’allineamento con la Cina rispetto agli Stati Uniti”. A quanto pare, il fatto di aver continuato a fornire armi come se non ci fosse un domani per sterminare i bambini palestinesi non è stato preso proprio benissimo – e anche l’idea di omaggiare con 15 mila standing ovation il commander in chief del primo genocidio in diretta streaming; d’altronde, sono contraddizioni che chi è costretto a tenere in piedi un impero in declino è costretto ad affrontare.
Ma essere costretti a far cadere definitivamente la maschera che dissimulava la natura violenta e razzista dell’imperialismo USA non è il solo fattore a pesare: “I media occidentali” sottolinea infatti ancora Foreign Affairs, forzano spesso la mano e “riportano notizie catastrofiche sulle trappole del debito associate alla Belt and Road Initiative cinese”, ma in realtà, nel sudest asiatico “l’iniziativa generalmente è accolta favorevolmente” e si ritiene “offra notevoli opportunità di sviluppo e di crescita”. E non solo nel sudest asiatico: anche in Africa – soprattutto in Africa – la propaganda suprematista ha investito tutte le sue energie per far passare la Belt and Road come lo spregiudicato veicolo di un nuovo colonialismo cinese, ovviamente ben più feroce di quello imposto sul continente da secoli dall’uomo bianco (che avrà i suoi difetti, ma alla fine è comunque civilizzato e lettore di Kant); l’idea che la Cina si sia comprata l’Africa viene ripetuta ovunque continuamente e non passa giorno senza che mi arrivi qualche messaggio da qualche analfoliberale che mi chiede conto della ferocia del colonialismo cinese in Africa. Peccato, però, sia una gigantesca puttanata: nonostante gli investimenti giganteschi degli ultimi 10 anni, infatti, Stato e aziende private cinesi controllano ad oggi meno dell’8% della produzione mineraria del continente, meno della metà degli anglo-americani; e a partire dal 2016 gli investimenti cinesi diretti in Africa sono enormemente diminuiti. Quello che è vero, piuttosto, è che la Cina è il principale acquirente di materie prime dall’Africa. Che strano, eh? Gli USA per produrre future e derivati importano meno materie prime di quelle che la Cina s’accatta per costruire le apparecchiature elettroniche, le pale eoliche e le auto elettriche che produce per tutto il resto del mondo: veramente inspiegabile!
L’altro aspetto che è sicuramente vero è che la Cina, prima degli altri, si è concentrata sui minerali indispensabili per la rivoluzione verde e quella digitale e, quindi, si è garantita una posizione di quasi monopolio nella Copperbelt – la regione tra l’Africa centrale e l’Africa orientale che occupa uno spazio diviso tra lo Zambia centrale e l’estrema parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo – conosciuta per la ricchezza dei suoi giacimenti di rame e di cobalto (e un po’ anche di litio). Adesso però, giustamente, i paesi coinvolti cominciano a chiedere quello che alle vecchie potenze coloniali non è mai stato concesso chiedere e, cioè, che invece che saccheggiare le ricchezze del territorio, dando in cambio al massimo qualche infrastruttura, si cominci a investire a casa loro per fare anche almeno un pezzo di trasformazione industriale e creare così non solo un po’ di lavoro più o meno dignitoso, ma anche un po’ di competenze tecniche. Ai fronte a queste richieste, quando hai a che fare col mondo liberale e democratico in cambio – di solito – ti puoi aspettare un bel colpo di Stato o una bella rivoluzione colorata accolta con entusiasmo dai media progressisti occidentali. A quanto pare, invece, con la Cina se ne può discutere; è quello che, ad esempio, ha fatto l’Indonesia con l’industria del nickel: prima esportava il nickel grezzo, che comprava la Cina, ma il grosso dei soldi andava in tasca alle multinazionali occidentali e alle oligarchie di svendipatria locali conniventi. Poi l’Indonesia ha deciso che il nichel andava raffinato lì e, come ricorda Asia Times, “Questo piano è stato sostenuto da investimenti cinesi”.
Ora la Cina sta facendo una cosa simile in Zimbabwe, dove ha aperto un impianto di lavorazione del litio da 300 milioni di dollari. Intendiamoci: è una goccia nell’oceano, ma va anche detto che per raccogliere altre gocce ci sono ostacoli oggettivi; in primo luogo manca una produzione di energia adeguata. La buona notizia è che ci potrebbe essere una soluzione made in China: mentre la propaganda suprematista occidentale accusa la Cina di pratiche commerciali scorrette perché è arrivata a produrre l’80% dei pannelli solari del mondo, quello che non dicono è che questi giganteschi investimenti cinesi hanno consentito di abbattere drasticamente il costo dei pannelli stessi, che ora sono alla portata delle tasche africane e potrebbero permettere finalmente di fargli produrre in casa l’energia elettrica di cui hanno bisogno per cominciare a industrializzarsi sul serio, per poi magari cominciare a farsi in casa anche i pannelli grazie a investimenti e know how cinese (e, a quanto pare, i giovani africani – al contrario dei giornalisti impegnati a fare whitesplaining per conto delle oligarchie imperiali – lo sanno). Ed ecco così che tra le loro fila, mentre la popolarità degli USA è scesa di 8 punti dal 2020, quella cinese non ha fatto che aumentare. Fortunatamente, conclude incredibilmente Foreign Affairs riferendosi – in particolare – al sudest asiatico (ma è un discorso che può essere facilmente ampliato), “Molti paesi non sono democrazie liberali e i loro governi non necessariamente attuano politiche estere che riflettono l’opinione pubblica”; insomma: anche se generalmente siamo visti male, possiamo sempre ricorrere a qualche ricatto e a un po’ di corruzione della classe dirigente per imporre con la violenza le magnifiche sorti e progressive che l’adesione acritica all’ordine neoliberale garantisce, anche se le persone comuni non sono in grado di capirle. Se non fosse che, conclude amaramente l’articolo, ormai “anche le democrazie illiberali sentono spesso l’esigenza di rispondere alle opinioni dei cittadini”; sapesse, contessa, non esistono più le care vecchie dittature di una volta…
Visto che non si può più fare troppo affidamento sui cari vecchi regimi militari instaurati col sostegno di qualche operazione sotto copertura, gli USA allora hanno tentato la strada delle promesse economiche: all’India, ad esempio, le hanno promesso che sarebbe diventata la prossima Cina, ma senza quella gigantesca rottura di coglioni che consiste nell’avere un Partito Comunista al potere, ma a quanto pare non gli è andata esattamente benissimo; invece di diventare un’alternativa alla Cina, l’India è diventata una sua terzista (un po’ come l’Italia con la Germania). Una vera manna: uno, perché ti permette di mantenere la competitività mano a mano che i salari all’interno aumentano; due, perché rende il paese terzista totalmente dipendente senza aver bisogno di minacciarlo militarmente o con qualche dossieraggio in stile Jeffrey Epstein. “Man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, l’economia indiana è diventata sempre più dipendente dalle importazioni cinesi” ricorda il Post: “Le importazioni dell’India dalla Cina” continua “sono cresciute due volte più velocemente di quelle complessive e ora costituiscono quasi un terzo delle importazioni indiane in settori che vanno dall’elettronica alle energie rinnovabili passando per prodotti farmaceutici”; quasi due terzi delle importazioni indiane di componenti elettronici – dai circuiti stampati alle batterie – infatti, oggi provengono dalla Cina, che ha visto i volumi dell’export triplicarsi nell’arco di appena 5 anni. E almeno quella è un’industria che prima in India manco c’era; il grave è che la dipendenza nei confronti della Cina è aumentata anche nei settori dove prima c’era un’industria autoctona, ad esempio nel settore farmaceutico. l’India è da sempre un grande esportatore di prodotti farmaceutici anche verso il Nord globale, a partire proprio dagli USA; ma, come sottolinea di nuovo il Post, “Mentre prima l’industria nazionale produceva in casa gran parte dei propri ingredienti, ora fa sempre più affidamento sulla Cina per buona parte dei suoi input farmaceutici più importanti, come ad esempio il paracetamolo. Dal 2007 al 2022, la quota della Cina nelle importazioni indiane di prodotti chimici e farmaceutici è cresciuta di oltre il 50% e, solo negli ultimi cinque anni, le importazioni indiane dalla Cina di ingredienti farmaceutici e altri prodotti farmaceutici intermedi sono aumentate di oltre la metà”. Idem per il tessile, che è un altro fiore all’occhiello dell’export indiano, ma dove “l’India ha aumentato le importazioni di filati e tessuti dalla Cina”; e anche l’automotive, che era “considerata una storia di successo sia per le vendite nazionali che per quelle all’estero”, ma dove sono aumentate a dismisura “le importazioni di parti e accessori di veicoli dalla Cina”. E anche laddove l’India ha cercato di sviluppare una produzione autoctona di beni intermedi e di componentistica – ammette desolato il Post – è comunque “rimasta dipendente dalla Cina per le competenze”, tant’è che nonostante lo chauvinismo dell’era Modi e la crescente sinofobia, “I rappresentanti dell’industria indiana hanno fatto pressioni sul governo affinché allenti le restrizioni sui visti per i tecnici cinesi”; e recentemente il principale consigliere economico del governo indiano, Anantha Nageswaran, ha proposto anche di allentare le restrizioni sugli investimenti cinesi.
Insomma: non ci sono più le dittature e i colpi di Stato di una volta – e anche il potere economico diciamo che ha perso qualche colpo, che da un lato è una bella notizia, dall’altro è anche terrificante perché, ovviamente, l’unica carta che rimane da giocarsi è la guerra vera. Ma per sapere se quella alla fine può essere la soluzione, forse prima gli conviene farsi una chiacchierata con il compagno Dmytro Kuleba, il ministro degli esteri ucraino che ieri è stato cacciato, insieme ad altri 6 colleghi, per un mega rimpasto di governo che così, a occhio, non credo significhi che sul campo le cose siano andando esattamente come sperato. L’unico posto in cui le cose continuano ad andare come sperato è nei titoli dei giornalacci e dei media finanziati dalle oligarchie dell’impero in declino; sarebbe arrivato il momento di creare un’alternativa e dare finalmente voce al 99%. Aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

La Cina a un punto di svolta: crisi o avanzamento?

video a cura di Davide Martinotti

In passato, la Cina si è affidata ad un modello guidato dagli investimenti e guidato dall’edilizia abitativa. Questo modello negli ultimi anni è entrato in crisi: il settore industriale tradizionale è saturato, portando molti investimenti ad essere di fatto improduttivi; le esportazioni devono oggi affrontare le sfide del panorama internazionale e l’interruzione di catene commerciali e di valore; la speculazione sul mercato immobiliare ha portato alla bolla immobiliare e a problemi di indebitamento dei governi locali, di disuguaglianza di reddito e svalutazione dei i patrimoni delle famiglie cinesi. Come risolvere questi problemi? In questo video parliamo delle riforme emerse dal terzo plenum di luglio!

La guerra tecnologica è un flop: perché gli USA sono costretti a tornare a mediare con Pechino

La guerra tecnologica che gli USA hanno ingaggiato contro la Cina si sta rivelando un flop ancora più grande delle sanzioni e la guerra per procura contro la Russia, ben oltre ogni più pessimistica previsione: secondo un recente rapporto della Banca Federale di New York, se “i controlli sulle esportazioni per negare alla Cina l’accesso alle tecnologie strategiche” effettivamente ha comportato una fuga dai rapporti con la Cina delle aziende USA, allo stesso tempo però non si è verificato nessun fenomeno consistente di “reshoring o di friend shoring”; il risultato quindi, in soldoni, è stato molto banalmente che “I fornitori americani interessati hanno registrato in media 857 milioni di perdite in termini di capitalizzazione, con perdite totali di tutti i fornitori di 130 miliardi di dollari”. Oltre che alla capitalizzazione, le perdite sono sensibili anche in termini “di ricavi, redditività” oltre che “un calo significativo dell’occupazione” e non è che succede perché investono meno, eh? Anzi: gli investimenti corrono (tanto il grosso viene rimborsato come credito fiscale con soldi pubblici), solo che, con sempre meno rapporti con la Cina e nessuno che è in grado di sostituirla, i soldi investiti rendono decisamente meno. Insomma: per far dispetto alla moglie gli statunitensi si stanno allegramente martellando gli zebedei e la moglie, intanto, ha trovato nuove fonti di piacere; mentre le aziende USA, infatti, perdono un sacco di quattrini “Le aziende non statunitensi che attualmente forniscono beni alle aziende cinesi prese di mira dalle sanzioni sperimentano un aumento dei ricavi e della redditività consistenti” e la stragrande maggioranza di queste aziende non statunitensi sono – ovviamente – proprio cinesi. Insomma: un successone, come dimostra in maniera plateale il caso Huawei; Huawei è tornata a ruggire” titolava venerdì Il Giornanale. “Due anni fa era a un passo dal fallimento” ricorda l’articolo; “Ora il fatturato vola grazie agli smartphone che divorano le vendite cinesi di Apple e l’utile balza a 7 miliardi di euro”. E Huawei è solo la punta dell’iceberg: come scrive Asia Nikkei, ad esempio, “Per il produttore cinese di cavi sottomarini Wuhan FiberHome International Technologies, essere banditi dal governo degli Stati Uniti non è nulla di cui preoccuparsi. In effetti, è stato positivo per gli affari”; per reagire alle sanzioni infatti, sottolinea ancora l’articolo, “Pechino ha iniziato a impegnarsi per diventare autosufficiente nella tecnologia dei cavi sottomarini, aumentando così a dismisura gli ordini nei confronti di produttori nazionali come FiberHome”.

Xi Jinping

Ciononostante, gli USA non sembrano avere strategie alternative e continuano a rilanciare con la stessa moneta; il problema è che, come ampiamente prevedibile, la guerra per procura in Ucraina è un disastro ed è in buona parte un disastro perché le sanzioni contro la Russia non funzionano; e le sanzioni contro la Russia non funzionano perché, in qualche misura, il mondo è già multipolare e – a parte gli alleati vassalli più stretti – di quello che decidono a Washington ormai in buona parte del mondo, molto banalmente, non gliene frega una seganiente, ben oltre quanto si immaginassero tutti i media mainstream. Dopo 2 anni di fallimento totale delle sanzioni, infatti, a inizio 2024, quando gli USA hanno introdotto nuove sanzioni che – sulla carta – dovrebbero essere molto più restrittive, per settimane sui giornaloni di quelli studiati (come abbiamo riportato decine di volte su Ottolina Tv) non si faceva che annunciare l’inevitabile prossima resa delle aziende cinesi, che non avevano nessuna intenzione di mettere a repentaglio il loro business per salvare il culo ai russi; purtroppo per loro però, esattamente come nei due anni precedenti, questa profezia s’è rivelata totalmente infondata e i rapporti commerciali tra Russia e Cina sono continuati a crescere, e oggi vengono effettuati per il 90% direttamente in rubli o yuan. Ecco allora che gli USA ricorrono a una strategia innovativa e vincente: altre sanzioni; recentemente gli USA hanno allungato la blacklist delle aziende appestate di oltre 400 nuovi nomi e i cinesi, dopo i russi, fanno ovviamente la parte del leone. Un bel po’ di aziende – a partire dai produttori californiani di macchinari per la produzione di chip come Applied Materials e LAM – si sono leggerissimamente risentite: “Chiediamo di sospendere ulteriori controlli unilaterali sulle esportazioni fino a quando non si sarà adeguatamente provato che tali controlli non danneggeranno la competitività degli Stati Uniti nei semiconduttori avanzati e nelle apparecchiature per la produzione di semiconduttori” hanno mandato a dire a Rimbambiden tramite i parlamentari democratici californiani. E il crollo dei volumi d’affari in quello che era, fino a poco tempo fa, in assoluto il principale mercato per tutti questi produttori è solo una parte del problema; l’altra è che, a un certo punto, la Cina ha cominciato a reagire e ha risposto a controlli e limitazioni con altri controlli e limitazioni. E siccome, tutto sommato, l’economia USA dipende da quella cinese molto di più di quanto quella cinese dipenda da quella USA, questo tiro alla fune potrebbe rivelarsi essere una strategia non esattamente vincente. In principio era stato il turno del gallio e del germanio e, cioè, due materie prime fondamentali proprio per l’industria dei semiconduttori; a luglio del 2023 la Cina aveva introdotto alcune restrizioni e i prezzi erano esplosi, arrecando un danno considerevole proprio ai produttori USA e dei suoi alleati. A ottobre di quest’anno la Cina poi è tornata a rilasciare un po’ di licenze per l’esportazione, ma i prezzi sono rimasti elevati : come ricorda sempre Asia Nikkei “Martedì scorso il prezzo di riferimento per il gallio destinato ai mercati occidentali era di 525 $ al chilogrammo, in aumento dell’86% rispetto alla fine di giugno 2023” ; il punto è che i produttori stanno facendo scorte perché hanno capito che la Cina ha il potere di governare il mercato come più l’aggrada e temono che – con gli USA che continuano come degli automi a ricorrere alle sanzioni nonostante gli effetti nefasti – la reazione cinese più prima che poi è destinata a rifarsi sentire.
Per provare a calmare un po’ le acque, dopo 8 anni di assenza l’altra settimana un consigliere per la sicurezza nazionale USA è tornato a Pechino; durante gli incontri che Jake Sullivan ha tenuto col ministro degli esteri Wang Yi prima e con Xi Jinping poi, ovviamente la guerra delle sanzioni ha ricoperto un ruolo di primo piano. La formuletta di Sullivan è sempre la solita: le nostre sanzioni hanno come unico obiettivo quello di evitare che nostra tecnologia favorisca il rafforzamento militare di altri; non abbiamo intenzione di colpire l’economia cinese, ma solo di garantire la sicurezza USA. La risposta cinese è chiara: come scrive il Global Times infatti, “Non è un segreto che anche il germanio e il gallio possono essere utilizzati per componenti di uso militare” e quindi, se continuate a farci la guerra tecnologica con la scusa della sicurezza nazionale, abbiamo già la giustificazione pronta per reagire come si deve. Il problema di fondo è che, come sottolineava qualche mese fa un rapporto dell’azienda di software per la difesa Govini, gli USA si riempiono la bocca di decoupling e derisking, ma poi sono totalmente dipendenti dalle forniture cinesi anche per l’industria militare stessa: “Innanzitutto”, riassumeva Forbes commentando l’articolo, “oltre il 40% dei semiconduttori che sostengono i sistemi d’arma del Dipartimento della Difesa e le infrastrutture associate provengono ora dalla Cina. In secondo luogo, dal 2005 al 2020, il numero di fornitori cinesi nella catena di fornitura dell’industria della difesa statunitense è quadruplicato. E in terzo luogo, tra il 2014 e il 2022, la dipendenza americana dall’elettronica cinese è aumentata del 600%”. La guerra degli USA alla Cina, necessariamente, si fonda sulla proiezione nel mare: secondo Govini, per fare un esempio, le portaerei della classe Ford hanno a bordo oltre 6000 componenti cinesi. Ci siamo scervellati per mesi su come le portaerei fossero ormai vulnerabili di fronte all’arsenale di missili ipersonico cinese; in realtà, per affondarle non avrebbe bisogno di sparare nemmeno mezzo colpo: per poter sfruttare al meglio il suo incontrastato potere sul mercato delle terre rare (che sono un po’ il petrolio cinese), a fine giugno la Cina ha emanato una nuova legge che rafforza il monopolio dello Stato. “Nessuna organizzazione o individuo può invadere o distruggere le risorse di terre rare” recita il testo; la gestione delle risorse di terre rare “dovrà attuare le linee, i principi, le politiche, le decisioni e gli accordi del Partito [Comunista cinese] e dello Stato … e seguire i principi della pianificazione generale, garantendo sicurezza, innovazione scientifica e tecnologica e sviluppo verde” conclude. Mentre per ora su gallio e germanio (dei quali la Cina controlla oltre il 90% della produzione) Pechino ha deciso di allentare un attimo i cordoni, nelle ultime settimane a far parlare di se è stato l’antimonio, un minerale utilizzato principalmente come ritardante di fiamma nei veicoli e nell’elettronica: nonostante, in questo caso, la Cina controlli un po’ meno del 50% del mercato globale, l’annuncio delle restrizioni ha fatto lievitare il prezzo del 5% in 24 ore, portandolo a 25 mila dollari a tonnellata – e cioè più del doppio del prezzo registrato ancora a dicembre. Ovviamente, per tutti questi materiali, gli USA e anche gli alleati vassalli da un po’ di tempo a questa parte stanno cercando affannosamente di recuperare il tempo perduto, ma potrebbe essere più complicato del previsto: “Nuove catene di approvvigionamento minerario” scrive sempre Forbes “non sono solo una questione di aumento dell’estrazione mineraria; richiedono un intero ecosistema di sistemi di raffinazione, lavorazione e produzione, tutti costosi e che richiedono molti anni per essere costruiti”.
E le terre rare non sono l’unica materia prima che rischia di farci perdere la competizione con la Cina: l’allarme più grosso, infatti, potrebbe riguardare la conoscenza: a lanciarlo è, dalle pagine di Foreign Affairs, Amy Zegart, professoressa a Stanford e voce autorevole dell’Hoover Institution diretto da Condoleeza Rice; “Il potere non è più quello di una volta” riflette, e “i Paesi traggono sempre più potere dalle risorse immateriali”, ma “Secondo il Program for International Student Assessment, che valuta i quindicenni di tutto il mondo, nel 2022 gli Stati Uniti si classificavano al 34° posto in termini di competenza media in matematica, dietro a Slovenia e Vietnam”. “Più di un terzo degli studenti statunitensi” continua “ha ottenuto punteggi inferiori al livello di competenza matematica di base, il che significa che non possono confrontare le distanze tra due percorsi o convertire i prezzi in valute diverse”; d’altronde, essendo il paese che per primo – insieme al Regno Unito – ha abbracciato le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista, c’era da aspettarselo. Fino ad oggi, comunque, gli USA hanno rimediato a questa lacuna strutturale (che, per essere invertita, richiederebbe di trasformare profondamente l’intera società statunitense) con il drenaggio dei cervelli: significa che i Paesi civili del mondo investono una marea di risorse per la formazione di base dei loro cittadini e poi i pezzi migliori se li prendono gratis gli USA grazie ai colossi della formazione universitaria privata; ecco così che, nel 2022, solo il 32% dei dottorati in informatica erano cittadini USA. “Il primato degli Stati Uniti nell’attrarre talenti da tutto il mondo” sottolinea la Zegart “è un vantaggio enorme. Quasi il 45% di tutte le aziende Fortune 500 nel 2020, tra cui Alphabet, SpaceX e il gigante dei chip NVIDIA, sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione. E circa il 40% degli americani premiati con il premio Nobel in campo scientifico dal 2000 sono nati all’estero”. Insomma: un’altra forma di neocolonialismo bell’e buona che, però, comincia a scricchiolare; le politiche restrittive sull’immigrazione – che tanto peso hanno nel successo politico di Trump – stanno demolendo questo meccanismo dall’interno e la concorrenza si comincia a sentire. Nel 2022, per la prima volta, a conquistare il gradino più alto della classifica della produzione scientifica è stata la Cina; a penalizzare gli USA è anche il fatto che sì, in termini assoluti si continua a investire più che altrove in ricerca e sviluppo, ma il grosso di quell’investimento è in mano ai privati che, invece che fare ricerca di base e quindi porre i fondamenti per le grandi innovazioni del futuro, si limitano a ricercare quello che gli può fare aumentare i profitti nel trimestre successivo o – ancora meglio – l’andamento in borsa. Ecco, così, che i finanziamenti federali complessivi per la ricerca (in percentuale del PIL) negli USA sono diminuiti dal picco dell’1,9% nel 1964 ad appena lo 0,7% nel 2020, mentre in Cina superano l’1,3%.
Insomma: dalla loro guerra tecnologica contro la Cina gli USA, ad oggi, non sembrano aver ottenuto neanche lontanamente i risultati sperati e in futuro potrebbe andare molto, ma molto peggio (e forse non siamo i soli ad essercene accorti): tra gli schiaffi in Ucraina e i pessimi risultati della guerra tecnologica contro la Cina, che questa prima fase della grande guerra contro il resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare sia stata un fallimento è ormai opinione piuttosto diffusa anche tra gli strati profondi del potere statunitense; d’altronde, il benservito a Biden deriva anche da qua. Se non si può ancora parlare di una vera e propria ritirata strategica, perlomeno di un piccolo arretramento per provare a riorganizzare le fila sicuramente sì; e la sfida tra la Harris e Trump fondamentalmente è una sfida per decidere come debba avvenire questa riorganizzazione e a quali interessi specifici debba rispondere. Ovviamente però, dal momento che siamo in campagna elettorale, distinguere la fuffa dalle cose concrete è tutt’altro che semplice: come è ben noto, Trump si sta giocando la carta dell’isolazionismo, come se l’isolazionismo fosse un’opzione realistica per un impero globale che dipende per almeno due terzi della sua ricchezza dal saccheggio sistematico del resto del pianeta. La retorica di Trump è piuttosto chiara: meno inutili guerre guerreggiate e più guerra economica alla Cina; durante la sua prima amministrazione, la media dei dazi sui prodotti cinesi passò dal 3% al 19%, un aumento che comportò una bolletta per le tasche degli statunitensi pari allo 0,3% del PIL e fu comunque sufficiente a fare imbufalire parecchi settori dell’economia americana – a partire dagli agricoltori. Ora la proposta di Trump è aumentare quella soglia dal 19 al 50%, che comporterebbe una nuova bolletta che il Peterson Institute quantifica attorno al 2% del PIL; probabile che non tutti la vedano proprio di buonissimo occhio. I democratici, allora, hanno risposto con la nomina a candidato per la vicepresidenza di Timothy Walz: dal 2019 è il governatore del Minnesota, che è uno degli Stati USA dove la lobby degli agricoltori che si sono opposti alla politica dei dazi di Trump è più forte; Walz è un profondo conoscitore della Cina, dove si è recato la bellezza di 30 volte. E’ anche un critico feroce della Cina per tutto quello che riguarda la retorica sui diritti umani, ma sul versante dei rapporti commerciali ha la reputazione, appunto, di essere decisamente più pragmatico: è quello che si augura ad esempio, su Project Syndicate, Stephen Roach, l’ex presidente di Morgan Stanley Asia noto tra l’altro per un importante testo del 2014 dal titolo La co-dipendenza di America e Cina dove, appunto, perorava la causa di una governance economica più condivisa tra le due grandi potenze. Potrebbe essere Kamala Harris la prossima Richard Nixon? è il titolo dell’articolo: il riferimento, ovviamente, è alla grande svolta di Nixon del 1972 che aprì la strada a un nuovo ciclo di relazioni costruttive tra USA e Repubblica Popolare Cinese; “Nonostante Walz sia sempre stato un falco sulle questioni inerenti i diritti umani” sottolinea appunto Roach “ha anche sottolineato l’importanza di una relazione sostenibile tra Stati Uniti e Cina, sostenendo che il dialogo è essenziale e deve avvenire assolutamente. In altre parole” si augura Roach “porterebbe un pragmatismo che manca gravemente nella posizione sempre più sinofobica dell’America nei confronti della Cina”. Ovviamente il parallelo con Nixon è decisamente fuori luogo: allora la Cina rappresentava un’opportunità straordinaria per il grande capitale USA in cerca del posto dove delocalizzare la produzione per potersi dedicare a tempo pieno alla speculazione finanziaria e vincere a tavolino una lotta di classe che, con la complicità del disastro in Vietnam, stava diventando insostenibile.
Il punto qui, però, è che non c’è bisogno di essere democratici o dalla parte del 99%, che sono posizioni che – per definizione – chi guida la nazione leader dell’imperialismo non può abbracciare, sia che ricorra alla retorica demagogica – populista dell’alt right o che ricorra a quella globalista e dirittumanista della sinistra ZTL; visti i risultati disastrosi ottenuti con la strategia della guerra totale fino ad oggi, per fare qualche passo in avanti basterebbe qualcuno con un minimo di senso della realtà: che la realtà si stia cominciando a imporre anche nelle menti perverse di almeno un pezzo di classe dirigente occidentale? Ovviamente non è il caso di farci illusioni: la violenza indiscriminata è una caratteristica fondativa di ogni imperialismo – e quello distopico USA non fa certo eccezione. Le contraddizioni e i rapporti di forza, però, pesano e oggi non sono a favore di Washington; gli unici che non se ne accorgono sono i media mainstream e i pennivendoli che ci lavorano. Abbiamo bisogno di una vera alternativa; aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Global Southurday – Kursk e Pechino: il doppio fallimento dell’Occidente

Riparte la nuova stagione del Global Southurday con alcune novità. Oggi la nostra Clara Statello ha intervistato Giacomo Gabellini sul rapporto tra Cina e Stati Uniti, alla luce del recente incontro tra Jack Sullivan e Wang Yi e in previsione di un eventuale cambio di colore alla Casa Bianca. Riuscirà Biden a ricucire con Pechino e come cambierà la postura di Washington in caso di vittoria di Trump? Dall’altro lato gli sforzi diplomatici della Cina per la pace in Ucraina si infrangono con l’offensiva lanciata sul Kursk, che si sta progressivamente trasformando in un vicolo cieco per Kiev. Buona visione.

Lo spettro di Chernobyl a Kursk e il vicolo cieco della diplomazia – ft. Alberto Bradanini

Le iniziative della Cina e del primo ministro indiano Narendra Modi non riescono a smuovere la diplomazia per avviare il conflitto in Ucraina verso una conclusione. L’operazione su Kursk non solo imprime una recrudescenza della guerra, ma aumenta il rischio di incidente nucleare per la centrale di Kurchakova. Ad avvertire del pericolo di incidenti nucleari è il capo dell’AIEA dopo l’incendio nella centrale di Enerdogar, la più grande d’Europa. Lo spettro di Chernobyl torna a terrorizzare gli europei, dinnanzi all’impotenza dell’agenzia dell’ONU e dei leader occidentali. I nostri Clara e Alessandro hanno intervistato Alberto Bradanini per avere un’autorevole chiave di interpretazione degli eventi in corso e delle ultime mosse della diplomazia per porre fine al conflitto. 

#guerra #ucraina #nato #russia #cina #india #modi #usa #ue

Palestina nei BRICS – Come il Sud globale costruisce concretamente un mondo più democratico

Mentre il comandante in capo del mondo libero e democratico Genocide Joe approvava l’ennesimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari per permettere a Israele di continuare a sterminare pacificamente i bambini palestinesi, il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino optava per una strategia decisamente meno rispettosa dei diritti umani: invitava ufficialmente il Presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas a partecipare al prossimo summit dei BRICS che si terrà nella cittadina russa di Kazan il prossimo ottobre, un summit potenzialmente di portata storica: la Russia, infatti, che in quanto sporca e cattiva è giustamente sanzionata dai difensori del diritto internazionale e dei diritti umani a stelle e strisce, è forse in assoluto il Paese al mondo che sente con maggiore urgenza la necessità di emanciparsi dalla dittatura globale del dollaro e quindi, con ogni probabilità, approfitterà della sua presidenza di turno dei BRICS per provare in ogni modo ad accelerare il più possibile il complicatissimo ma rivoluzionario processo verso l’emancipazione dalla dittatura globale del dollaro, che rappresenta il vero pilastro fondamentale dell’imperialismo – e quindi di un sistema di relazioni internazionali ancora oggi intollerabilmente antidemocratico che ricorda molto da vicino il vecchio colonialismo. Insomma: anche a questo giro, mentre l’Occidente collettivo a guida USA si riempie la bocca di slogan vuoti su democrazia, diritto e progresso mentre commette ogni sorta di crimine possibile immaginabile, i Paesi del Sud globale – a partire proprio da quelli più sporchi e cattivi che tanto sdegno generano nei salotti buoni della sinistra progressista de noantri– al netto di tutte le contraddizioni lavorano concretamente giorno e notte alla costruzione di un mondo più pacifico e democratico. E voi, da che parte state?

Vladimir Putin

La contrapposizione non potrebbe essere più chiara ed evidente: di fronte al primo genocidio della storia in diretta streaming, il mondo si divide nettamente in buoni e cattivi, con i buoni che però accolgono tra innumerevoli standing ovation i carnefici e i cattivi, invece, che si schierano dalla parte della resistenza. L’ufficializzazione dell’invito da parte di Mosca all’autorità palestinese a partecipare al prossimo Summit dei BRICS, che si terrà in ottobre nella prestigiosa capitale del Tartastan, rischia di creare l’ennesimo irrisolvibile cortocircuito cognitivo nella mente delle anime belle della sinistra progressista occidentale; i benpensanti dell’Occidente collettivo, infatti, fino ad oggi hanno sempre cercato disperatamente di giustificare il sostegno incondizionato dei loro Paesi e delle loro forze politiche di riferimento allo sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi, trincerandosi dietro la formula dei due popoli, due Stati che, ancora oggi, viene indicata come l’unica soluzione possibile per soddisfare contemporaneamente due principi che ritengono (almeno a parole) inviolabili: il diritto di Israele a difendersi, da un lato, e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al rispetto dei diritti umani fondamentali. Purtroppo però – recita la formula giustificazionista più in voga – la costruzione dei due Stati è un processo incredibilmente complesso e, ovviamente, è reso ancora più complesso dagli opposti estremismi che la sinistra benpensante vuole sempre necessariamente vedere ovunque: c’è un regime di apartheid? No, macché: lo Stato democratico di Israele rispetta i diritti di tutti, solo che poi gli estremisti palestinesi ne approfittano per terrorizzare i giovani che vanno ai rave e ai pride e, dall’altra parte, alcuni estremisti israeliani, nell’esercitare il loro sacrosanto diritto all’autodifesa, si lasciano andare a qualche eccesso di troppo. E’ in corso un genocidio? Ma figurati! E’ solo che gli estremisti palestinesi usano la popolazione civile come scudi umani e, dall’altra parte, qualche estremista israeliano si fa un po’ troppo pochi scrupoli a massacrare una trentina di civili per colpire ogni presunto miliziano. Se già, invece di 30, fossero 25, ci si potrebbe stare.
D’altronde si sa, appunto: gli estremisti son da tutte le parti; l’importante però è che si continui ad affermare che l’obiettivo rimane quello di creare due Stati per due popoli anche se, nel frattempo, si continua ad armare e a sostenere economicamente una delle due parti in causa come se non ci fosse un domani. E continuare ad affermare che l’obiettivo è creare due Stati costa abbastanza poco; anzi, si può fare anche molto di più: si potrebbero anche proprio riconoscere davvero due Stati, tanto – alle condizioni attuali – anche se formalmente arrivi a riconoscerlo sul serio uno Stato palestinese, un vero Stato palestinese, in realtà non può esistere. Il punto è che affinché uno Stato possa esistere, non basta scriverlo su un foglio di carta: uno Stato esiste sul serio se e solo se ha gli strumenti concreti per esercitare una qualche forma di sovranità; non voglio dire esercitare piena sovranità in tutti gli ambiti di sua competenza perché, dopo 40 anni di globalizzazione neoliberista, questo significherebbe sostanzialmente dire che non possono esistere gli Stati tout court, ma almeno qualche forma sostanziale di sovranità sì. Ora, che forma di sovranità potrebbe mai esercitare uno Stato che si ritrovasse a governare la Palestina per come è stata ridotta? Il cibo dovrebbe comunque arrivare dall’esterno sotto forma di aiuti alimentari, l’acqua dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani, che negli anni si sono impossessati manu militari di ogni singola fonte di approvvigionamento; anche l’energia elettrica dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani e anche per la sicurezza una vera sovranità sarebbe palesemente impensabile, soprattutto in quello spezzatino privo di ogni continuità territoriale nel quale centinaia di insediamenti totalmente illegali da parte dei coloni sionisti hanno trasformato la Cisgiordania. Ciononostante, un pezzo consistente della politica dell’impero ritiene comunque troppo rischioso fare qualche passo avanti nel riconoscimento di uno Stato formalmente indipendente per i palestinesi e quindi, da decenni, lavora senza sosta per fare in modo che anche all’interno della Palestina stessa non vi siano le condizioni politiche minime necessarie per garantire in prospettiva una qualche forma di governo minimamente sostenibile.
Lo strumento è quello classico: divide et impera, dividere la popolazione tra fazioni politiche e riconoscerne una come interlocutore più o meno affidabile e l’altra come capro espiatorio di ogni male possibile immaginabile. La fazione individuata come interlocutore – che, nel caso specifico, è l’OLP di Mahmoud Abas – a questo punto viene sottoposta a un semplice ricatto: visto che sei totalmente dipendente da noi per qualsiasi cosa, per ricevere un po’ di elemosina devi soddisfare supinamente ogni nostra richiesta. Ovviamente, questa sottomissione totale ai voleri della forza occupante viene vista di cattivo occhio dal grosso della popolazione dal momento che, da che mondo è mondo, ai popoli – chissà poi perché – essere sottomessi alle occupazioni straniere gli sta leggerissimamente sui coglioni; questa cosa, ovviamente, non fa che alimentare la fazione di quelli che nel progetto di divide et impera dell’occupante sono finiti nel team cattivi. Allora nel contratto di ricatto stipulato col team buoni diventa sempre più grande la parte che prevede che gli interlocutori debbano consegnare agli occupanti la testa dei membri del team cattivi e così ovviamente, giustamente, il team buoni diventa sempre più minoritario e isolato all’interno della sua stessa popolazione, fino a che gli occupanti non hanno tutti gli elementi per sostenere (con qualche ragione) che la creazione dello Stato indipendente degli occupati non si può fare perché la fazione individuata come unico interlocutore possibile è troppo debole e non sarebbe in grado di governarlo. E per i progressisti da apericena e gli analfoliberali, a questo punto, il ragionamento non fa un piega: insomma, gli imperialisti e i coloni sono criminali, ma non sono mica scemi. Ora, l’invito da parte di quel perfido tiranno di Putin a partecipare al summit dei BRICS stravolge totalmente questo intero paradigma, soprattutto alla luce di quanto è stato fatto nei mesi precedenti nei confronti della Palestina in particolare proprio da Cina e Russia. L’ingresso dello Stato palestinese nel salotto buono del nuovo ordine multipolare, infatti, ha un obiettivo molto evidente: aiutare lo Stato palestinese a ottenere gli strumenti concreti che gli garantiscano in prospettiva di esercitare, almeno da alcuni punti di vista, proprio quella sovranità che la pantomima dell’imperialismo occidentale vuole negare alla radice; d’altronde, i BRICS e le altre istituzioni del nuovo ordine multipolare sono nate tendenzialmente proprio per questo.
L’imperialismo – e, in particolare, quello che definiamo spesso il superimperialismo (e cioè l’imperialismo nella forma specifica che ha assunto nell’era della globalizzazione neoliberista) – può essere definito come quel sistema mondo che aspira a minare alla radice la capacità di tutti gli Stati di esercitare la loro sovranità tranne che per lo Stato del centro imperiale (e, cioè, gli USA) e questa è esattamente la condizione che hanno accettato passivamente tutti gli Stati che oggi definiamo liberi e democratici: la cessione della loro sovranità alle oligarchie finanziarie e alla macchina bellica del centro imperiale. Per emanciparsi da questa condizione di sottomissione strutturale, però, a un certo punto i Paesi del Sud globale si sono cominciati a dotare di istituzioni multilaterali che, in mezzo a mille contraddizioni, potessero permettergli di provare a tornare a conquistare un po’ di sovranità; e di queste istituzioni multilaterali, i BRICS sono probabilmente la più importante in assoluto, soprattutto dal momento che è proprio in questa sede che si dovrebbe discutere il singolo aspetto che – probabilmente più di ogni altro – negli ultimi 40 anni ha limitato la sovranità dei singoli Stati, e cioè la dittatura del dollaro.
L’emancipazione dal dollaro come valuta di riserva globale è una sfida titanica: in 5 secoli di vita, il capitalismo globale ha sempre avuto una valuta di riserva di ultima istanza che veniva utilizzata per il grosso delle transazioni commerciali internazionali e questa valuta è sempre stata la valuta emessa dal Paese che, in quella fase storica, stava in cima alla gerarchia dei Paesi capitalistici: la potenza egemone, come è stato l’impero britannico per buona parte del XIX secolo e quello a stelle e strisce per buona parte del XX fino ad oggi. Il fatto è che al sistema, per come ha funzionato fino ad oggi, per gli scambi internazionali serve una moneta stabile e sicura, universalmente accettata da tutti e che possa circolare liberamente attraverso i confini (in particolare, attraverso i confini del Paese che la emette), ma permettere ai capitali di fluire liberamente attraverso i propri confini significa, in soldoni, rinunciare agli strumenti di controllo del flusso dei capitali che sono indispensabili per rendere efficaci le politiche economiche scelte dal governo e questo, a sua volta, significa solo due cose: o che rinunci anche tu ad esercitare una parte fondamentale della tua sovranità, oppure che di default la tua politica economica coincide perfettamente con gli interessi dei detentori del grosso di quei capitali che attraversano i tuoi confini; e questa condizione è soddisfatta solo ed esclusivamente dalla potenza egemone. Emanciparsi dalla dittatura del dollaro quindi, stando così le cose, significherebbe necessariamente trovare un degno sostituto e, quindi, anche riconoscere a un’altra potenza – che non potrebbe (per ovvie ragioni) che essere la Cina – lo status di nuova potenza egemone del capitalismo globale, ma a quel punto si sarebbe di nuovo punto e a capo perché i problemi che derivano dall’avere una superpotenza che gerarchicamente sta sopra a tutti gli altri, limitandone considerevolmente la sovranità, si ripresenterebbero più o meno uguali spiaccicati, solo con un altro nome. Fortunatamente, però, questo rischio non sembra tutto sommato molto realistico: la totale simbiosi che si è verificata nei precedenti imperi tra detentori del capitale e macchina statale, infatti, nella Repubblica Popolare cinese che – piaccia o non piaccia – continua ad essere uno Stato socialista (eccome), molto semplicemente non c’è, proprio manco lontanamente; e lo Stato cinese non ha nessunissima intenzione di rinunciare al controllo del flusso dei capitali che le garantisce di potersi dare obiettivi di politica economica che non coincidono con gli interessi particolari di chi detiene il capitale. Per superare la dittatura del dollaro, allora, l’unica possibilità è superare tout court l’idea stessa dell’esistenza di una valuta di riserva di ultima istanza, il che – in soldoni – equivale a dire che l’unica possibilità è superare l’imperialismo in quanto tale e, cioè, la forma specifica che si è data il capitalismo per tentare di superare le sue contraddizioni intrinseche pur di continuare a garantire il dominio dell’1% sul resto della popolazione; insomma: non esattamente un giochetto da ragazzi.
L’ultima volta che qualcuno c’aveva provato era il 1944, quando a Bretton Woods John Maynard Keynes aveva cercato di approfittare di un momento politico contingente particolarmente favorevole – dove le storture intrinseche dell’imperialismo, dopo l’ascesa del nazifascismo e due guerre mondiali, erano evidenti anche alle capre di montagna – per proporre un’architettura finanziaria globale rivoluzionaria che al posto di una valuta di riserva di ultima istanza, prevedeva l’istituzione di uno strumento monetario ad hoc chiamato Bancor che sarebbe dovuto servire per regolare le transazioni internazionali e che avrebbe dovuto permettere di intervenire per correggere le asimmetrie nelle bilance commerciali dei vari Paesi ed evitare così il riemergere delle tensioni strutturali che avevano portato al disastro dei decenni precedenti. I BRICS oggi, sostanzialmente, stanno lavorando proprio in quella direzione e, per quanto la gestazione sia troppo lunga e tortuosa per i tempi dettati dall’era dell’iper-informazione, stanno facendo importanti passi avanti: il primo step consiste nel favorire gli scambi bilaterali tra i diversi Paesi nelle valute locali e qui, a mostrare la strada, sono indubbiamente Cina e Russia. E il bello è che sono proprio gli USA stessi ad aver accelerato in maniera esponenziale il processo: come conseguenza della guerra per procura degli USA in Ucraina e della montagna di sanzioni anti-russe che l’hanno accompagnata sin dagli esordi, nel 2023 l’interscambio commerciale tra i due Paesi leader del nuovo ordine multipolare è cresciuto di circa il 25% e per il 90% è avvenuto in rubli e yuan. Anche una bella fetta dell’interscambio tra Russia e India ormai avviene nelle rispettive valute e nel 2024, per la prima volta, la maggioranza dei pagamenti internazionali che hanno coinvolto la Cina sono avvenuti in yuan invece che in dollari; e calcolando che la Cina è di gran lunga la prima potenza commerciale al mondo e l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del pianeta, non è proprio pochissimo. Anche il commercio internazionale del petrolio, che fino al 2022 avveniva in dollari per poco meno del 100%, nel 2023 è avvenuto per almeno un quarto del suo valore complessivo in valute locali. Ovviamente tutto questo è ben lontano da mettere in discussione il predominio del dollaro, soprattutto dal momento che le transazioni commerciali internazionali rappresentano soltanto una piccola frazione dei movimenti valutari globali che, ovviamente, per la stragrande maggioranza dei volumi hanno a che vedere con transazioni di carattere meramente finanziario, totalmente scollegate dall’economia reale; ciononostante, la fine della dittatura del dollaro potrebbe essere più vicina di quanto si possa pensare perché – come a ogni dittatura – per stare in piedi anche a quella del dollaro non basta essere semplicemente maggioranza: deve essere totalizzante, come dimostrano plasticamente i fallimenti che lo strumento delle sanzioni unilaterali sta accumulando uno dietro l’altro. Affinché le sanzioni funzionino, infatti, non è necessario che le alternative al dollaro siano chissà quante e chissà quanto diffuse: basta che ci siano delle alternative, anche marginali; ora quindi si tratta – mentre, da un lato, si continua ad allargare il ricorso all’utilizzo delle valute locali per le transazioni bilaterali – di cominciare a ragionare su un’architettura più complessiva (sulla falsariga di quella proposta da Keynes a Bretton Woods) che permetta di regolare le transazioni internazionali di tutti quei Paesi del Sud globale – ma non solo – che si sono stufati di pagare dazio all’egemonia USA.
Uno degli ostacoli principali fino ad oggi è stato rappresentato proprio dall’India, che se da un lato persegue una sua agenda nazionale incompatibile con il dominio incontrastato del superimperialismo finanziario USA, dall’altro teme di favorire troppo l’ascesa della Cina; ed ecco così che quando nel 2023, al summit di Johannesburg, il tema dell’utilizzo delle valute locali per l’interscambio tra i BRICS era stato posto sul tavolo, l’India si era dichiarata non favorevole, ma – a quanto pare – le cose sono cambiate. E’ quanto rivela la pagina economica di The Hindu in vista del vertice di Kazan: L’India potrebbe prendere in considerazione la proposta di utilizzare le valute nazionali titola, anche se a condizione però, continua il titolo, che non sia vincolante; “Nuova Delhi”, avrebbe dichiarato a The Hindu una fonte governativa di primo livello che avrebbe voluto però mantenere l’anonimato, “sta esaminando una risposta adeguata in base alla misura in cui trarrebbe beneficio economicamente e diplomaticamente dalle proposte senza aumentare le sue vulnerabilità nei confronti della Cina”. Il compromesso, avrebbe affermato la fonte anonima, consisterebbe nel fatto che “All’interno dei BRICS anche se sei d’accordo per il regolamento valutario, puoi comunque scegliere di non applicarlo con alcuni Paesi, mentre lo applichi con altri. Se l’India sceglie di non trattare con la Cina in yuan e rupie, va bene. Ma potrebbe riguardare altri Paesi, ad esempio il rublo o il rand”; “Il regolamento valutario all’interno del blocco BRICS” commenta l’articolo “darà ai membri la flessibilità di utilizzare una particolare valuta accumulata in un Paese per commerciare con un altro. Ad esempio, la Russia potrebbe spedire la rupia in eccedenza raccolta nei suoi conti in India e convertirla in pesos brasiliani per pagare il Brasile per alcune transazioni. Oppure in rand sudafricani per effettuare pagamenti in Sudafrica”.
Ovviamente, da qui alla creazione della famigerata valuta dei BRICS ce ne corre, ma l’idea sostanzialmente è che una volta rodato questo meccanismo si possa dare vita – appunto – a una valuta fittizia simile al Bancor di Keynes con la quale regolare l’interscambio commerciale e il cui valore è determinato da un paniere contenente tutte le valute dei Paesi coinvolti. Insomma: al di là della propaganda, i BRICS continuano a lavorare per restituire concretamente spazi di sovranità ai diversi Paesi e, invece della strategia del divide et impera, lavorano per la riconciliazione e il dialogo, anche sul fronte interno, anche se costa una fatica enorme e una pazienza certosina; già in marzo Putin aveva organizzato un importante incontro con le varie fazioni palestinesi – dall’OLP ad Hamas, passando per la Jihad Islamica Palestinese e il Fronte Popolare di Liberazione – nel tentativo di promuovere un governo di unità nazionale. Dopo aver ottenuto una dichiarazione congiunta, il dialogo era completamente naufragato a causa dell’ennesimo infame atto di tradimento da parte dell’OLP di Abu Mazen. Ma la storia si fa con quel che c’è, non quello che ci piacerebbe ci fosse, ed ecco così che grazie anche ai veri e propri deliri delle fazioni più dichiaratamente razziste e fascistoidi del governo israeliano – che sono riuscite a far passare alla Knesset una risoluzione che rifiuta categoricamente ogni ipotesi di Stato palestinese, minando così alla radice il ruolo dell’OLP di interlocutore e, quindi, costringendolo a venire a più miti consigli – a luglio a riprovarci è stata la Cina, che ha portato a casa la ratifica da parte di 14 fazioni palestinesi di un accordo che prevede l’istituzione “di un governo di unità nazionale che gestisca gli affari del popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania, supervisioni la ricostruzione e prepari le condizioni per le elezioni”.
Che strano mondo che è un mondo dove i buoni firmano i missili diretti contro i bambini e ci scrivono sopra Uccidili tutti e i cattivi sono l’unica speranza che i diseredati della terra hanno per un futuro un po’ più pacifico e democratico… Contro il mondo al contrario della propaganda di fine impero, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che dia voce agli interessi e ai diritti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

Scandalo Olimpiadi: è una don… No! La Senna è sporc… No! Gli USA barano? Sì!!!

Oggi a Ottolina Tv vogliamo parlarvi del vero scandalo olimpionico, quello che veramente i telegiornali e i grandi media non ce lo dicono e non lo fanno perché sarebbe veramente destabilizzante fin nei fondamenti della nostra società. Pensavate che la società occidentale – e quella USA nello specifico – fossero fondate sulla meritocrazia e la sana competizione? Sono tutte cazzate! Pare proprio che l’agenzia anti-doping USA abbia dato permessi ai propri atleti di gareggiare in condizioni non proprio ottimali riguardo al doping e questo, in finale, per vincere. Perché si sa: l’importante – con una mentalità simile – non è partecipare, ma vincere! Così i veri eroi delle Olimpiadi sembrano essere gli atleti cinesi sottoposti dalla propria compagnia a rigidi e ripetuti controlli anti-doping, mentre USA, Canada e Giappone nascondono la polvere sotto il tappeto. Buona visione!

Meloni a Pechino cerca di approfittare del caos negli USA e in Europa per rimediare i danni fatti

Come una D’Alema qualsiasi, appena salita al potere Giorgiona la Svendipatria, per accreditarsi al padrone di Washington, ha mantenuto la promessa fatta quando aveva chiesto il via libera al suo governo di non rinnovare il memorandum per l’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative. Dietro le quinte, comunque, alcuni funzionari che non sono completamente rimbambiti come i rappresentanti politici del partito unico della guerra e degli affari, hanno cercato di mantenere i rapporti con la più grande potenza economica del pianeta. Quel lavoro dietro le quinte sta alla base della lunga trasferta della Meloni a Pechino, durante la quale la Giorgiona ha provato a cospargersi un po’ di cenere sul capo per provare a rimediare il rimediabile. D’altronde, l’occasione è d’oro: la debolezza dell’asse franco-tedesco e l’impasse statunitense alla vigilia del voto delle presidenziali di novembre, potenzialmente permetterebbero all’Italia di ritagliarsi margini di manovra prima insperati. Saranno in grado i nostri analfosovranisti di approfittarne? Oppure si comporteranno come degli analfoliberali qualunque? Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco, cofondatore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e corrispondente da Shanghai per Il Domani.

Ricapitolone di Stefano Orsi: tutti i bluff degli USA

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano Stefano Orsi dopo una lunga pausa dalla festa di Ottolina Tv a Putignano, facendo il punto sulla guerra in Ucraina e sulla situazione internazionale (elezioni negli USA, tentativo di attentato a Trump e negoziati di pace cinesi). Emergono così tutti i bluff della NATO e degli Stati Uniti. Buona visione!

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Mentre gli USA coprono un genocidio, la Cina cerca la pace in Ucraina e Palestina – ft. Alberto Fazolo

Torna il consueto appuntamento del sabato con il nostro Alberto Fazolo per parlare dei fatti di attualità attorno al mondo. Si parte dalla politica diplomatica cinese: Pechino ha ottenuto brillanti risultati in Palestina e Ucraina, arrivando a replicare il successo del 2022 con l’incontro iraniano-saudita. Si prosegue con la politica interna ucraina e la morte di Iryna Farion; segue una riflessione sulla visita di Netanyahu al Congresso degli USA e la dura posizione di Kamala Harris sui fatti di Gaza. Buona visione!

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