Se nell’era della dittatura delle oligarchie finanziarie il genocidio diventa il “new normal”
Mentre guardate questo video, io e il buon vecchio Mario Ferdinandi – il leggendario editor di Ottolina Tv – dovremmo essere in procinto di atterrare a Samarcanda dove seguiremo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che però, da quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a Verona non si può fare più perché, come dice Matteo Papeete Salvini, boicottare Lucca Comics per il patrocinio dell’ambasciata di Israele è razzismo, mentre boicottare tutto quello che ricorda anche lontanamente la Russia è democrazia; e da allora viene organizzato un po’ in giro per il mondo. E nell’attesa di capire come riusciremo a tenervi compagnia anche da qui nei prossimi giorni, aiutandovi a gettare lo sguardo oltre i confini angusti della propaganda suprematista del nord globale in declino, volevo intanto condividere questo pensierino confortante; da un po’ di giorni a questa parte, infatti, di fronte alle immagini strazianti che arrivano da Gaza e all’incredibile escalation di violenza verbale a cui abbiamo assistito che, nell’arco di poche ore, ha sdoganato definitivamente idee come la punizione collettiva, la comparazione di intere popolazioni ad animali, la pulizia etnica e il genocidio, mi continuo a fare la stessa domanda: e se il genocidio fosse il new normal? Cioè, se nell’era del declino inesorabile del dominio globale dell’uomo bianco, in cui ci hanno catapultato 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di affermazione del dominio delle oligarchie finanziarie, lo sterminio indiscriminato di intere popolazioni diventasse il metodo più o meno standard per la risoluzione dei conflitti?
Ma perché un pensiero così tetro? Proviamo a mettere in fila un po’ di cose.
Il mondo è sempre più spaccato in due, con le ex potenze coloniali assoggettate a Washington da un lato e gli ex paesi colonizzati – oggi ribattezzati sud globale – dall’altro; questa contrapposizione viene spesso analizzata in termini meramente geopolitici, come se si trattasse di blocchi tutto sommato interscambiabili, con l’unica differenza – appunto – che uno è il vecchio egemone in relativo declino, e l’altro il pezzo di mondo subalterno in relativa ascesa. Non è una lettura completamente priva di fondamento e può aiutare a comprendere alcune dinamiche ma a nostro avviso, in realtà, rischia anche di confonderne molte altre. Per capire perché questa contrapposizione non sarebbe, in realtà, solo tra vecchi e nuovi aspiranti all’egemonia globale ma anche tra modelli economici e sociali diversi, conviene forse ricostruire brevemente la storia di come questa contrapposizione è venuta a definirsi, che poi, in soldoni, è la storia del capitalismo nella sua fase matura.
C’era un volta, infatti, un sistema chiamato capitalismo industriale: a imporlo come sistema economico egemone tra i paesi più sviluppati era stata una classe sociale che si era andata formando nel tempo e che, a differenza dell’aristocrazia che aveva dominato incontrastata per secoli, fondava il suo potere nella capacità di creare ricchezza. La chiamavano borghesia: una classe “sommamente rivoluzionaria” come affermavano enfaticamente già nel 1848 nel Manifesto del partito comunista Karl Marx e Friedrich Engels, i padri fondatori del socialismo scientifico. “Dov’è giunta al potere”, infatti, “ha distrutto i rapporti feudali”, ci ha mostrato “di che sia capace l’attività umana” e “ha compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche”. Per farlo, appunto, s’è dovuta sbarazzare con furia rivoluzionaria di tutti i vecchi parassiti che stavano in cima alla piramide della vecchia gerarchia sociale e che rappresentavano un ostacolo per lo sviluppo della società tutta. Questa nuova classe sociale dominante, non meno feroce delle precedenti, traeva ciò nonostante la sua forza dalla liberazione delle forze produttive; laddove la vecchia aristocrazia parassitaria non vedeva altro che l’opportunità per una nuova forma di rendita, l’élite più avanzata della borghesia rivoluzionaria vedeva la necessità di creare le precondizioni per lo sviluppo: infrastrutture, istruzione di massa e servizio sanitario universale. Se la vecchia aristocrazia parassitaria ostacolava lo sviluppo pur di rafforzare i rapporti gerarchici all’interno della società e intascare i frutti del sottosviluppo, la nuova borghesia industriosa e produttiva la società la rivoluzionava continuamente per permettere allo sviluppo di dispiegarsi con tutta la forza possibile immaginabile. Ovviamente non era un’opera di bene: il fine altro non era che estrarre quanto più valore possibile da una nuova società enormemente più ricca, produttiva e opulenta di qualsiasi altra forma di organizzazione sociale si fosse mai vista in passato e concentrarlo nelle mani di pochi. Nel farlo, però, la borghesia rivoluzionaria non solo gettava le fondamenta di una società in grado di creare una quantità di ricchezza incommensurabilmente superiore a quanto mai visto fino ad allora, ma in maniera naturale e ineluttabile generava anche una nuova classe sociale rivoluzionaria che avrebbe avuto, in qualche modo, il compito storico di portare a termine la grande rivoluzione avviata dalla borghesia, ereditandone la capacità di liberare le forze produttive ma portando questo stesso processo alle estreme conseguenze impedendo, una volta per tutte, la concentrazione della ricchezza – e quindi anche del potere politico – nelle mani di una nuova ristretta élite; questa classe altro non era che il proletariato della grande fabbrica, e la storia dei secoli successivi, almeno in Occidente, è stata appunto la storia del conflitto insanabile tra queste due classi. Un conflitto che, dopo i 30 anni d’oro del così detto compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato i paesi industrialmente avanzati del nord globale dopo la fine della seconda guerra mondiale, la borghesia aveva cominciato a percepire potesse definitivamente perdere.
Esattamente come previsto dai fondatori del socialismo scientifico, infatti, lo sviluppo industriale fondato sulla grande fabbrica aveva consegnato alla nuova classe dei lavoratori salariati tutti gli strumenti per tentare l’assalto al cielo; dentro la grande fabbrica i lavoratori condividevano le stesse condizioni materiali, le stesse contraddizioni e lo stesso sfruttamento. Erano una comunità umana dal destino condiviso e questo rendeva possibile, se non addirittura naturale, la creazione di organizzazioni di massa – dai sindacati ai partiti – in grado di accumulare una forza tale da contendere il monopolio del potere alla classe dominante. Contro queste organizzazioni, e contro l’ipotesi di vedere perlomeno ridimensionata – se non addirittura del tutto azzerata – la sua posizione di dominio, la borghesia ha tentato di ricorrere ai metodi più feroci: disinformazione, repressione, ricatti, stato d’emergenza e strategia della tensione. Ma i margini di manovra erano sempre più ristretti: il potere di quelle organizzazioni, nel tempo – infatti -, aveva abbondantemente influenzato il funzionamento e addirittura l’architettura stessa delle istituzioni e dello Stato che garantivano, anche se con non poche eccezioni, una quantità di diritti fondamentali tali da ridurre sensibilmente la capacità di reazione dei dominatori, fino a quando i rapporti di forza si erano spostati talmente tanto a favore del lavoro che il capitale non decise che, per sopravvivere, era arrivato il momento di rivoluzionare di nuovo tutto il sistema da cima a fondo.
E’ quella che noi definiamo la controrivoluzione neoliberista e che è, appunto, la rivoluzione condotta dall’alto per rimuovere i presupposti che avevano consegnato alle masse dei lavoratori un potere sufficiente per tentare di condurre il loro assalto al cielo. Un obiettivo mica da poco: com’era possibile, infatti, continuare a garantire la crescita della capacità di creare ricchezza – che solo la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e avanzate poteva permettere – impedendo allo stesso tempo che chi ci lavorava acquisisse sempre più potere politico? La risposta si chiama globalizzazione neoliberista; in sostanza, l’idea era che quelle grandi fabbriche, delle quali in nessun modo potevano fare a meno, e quella gran rottura di coglioni dei lavoratori, che ci stavano dentro, dovessero essere reinsediate fuori dai nostri confini nazionali. Prima, però, era necessario trovare il modo per essere sicuri che il controllo sarebbe rimasto saldamente in mano alle borghesie occidentali; d’altronde, l’era d’oro del colonialismo era finita e gli stati del sud del mondo formalmente erano ormai diventati tutti stati sovrani. Come si faceva ad essere sicuri che non avrebbero utilizzato la nuova potenza industriale creata grazie al sostegno dell’Occidente per rivoltarglisi contro e rivoluzionare le gerarchie di potere a livello internazionale?
La soluzione che trovarono si chiama finanziarizzazione: in soldoni, consiste in una rivoluzione totale dell’architettura finanziaria, tale da consentire una concentrazione tale di potere economico nelle mani di una ristretta oligarchia – foraggiata e protetta dalla forza militare dell’impero – da rendere tutto il resto del pianeta totalmente dipendente dalla loro capacità di allocare dove più gli conviene le risorse, ma non solo. La finanziarizzazione, infatti, consente la cooptazione delle classi dirigenti dei nuovi paesi dove il capitale occidentale ha permesso lo sviluppo industriale perché, in cambio della loro lealtà, gli permette di appropriarsi di una fetta consistente della ricchezza prodotta nei rispettivi paesi e di utilizzarla per continuare a fare soldi dai soldi nel grande casinò delle bolle speculative del centro dell’impero; quando sentite dire, ad esempio, che gli USA si aspettavano che contribuendo a trasformare la Cina nella fabbrica del mondo sarebbero poi riusciti a trasformarla in una democrazia liberale perfettamente integrata nell’ordine internazionale “fondato sulle regole”, si intende esattamente questo: grazie al dominio delle oligarchie finanziare occidentali e alla cooptazione delle oligarchie cinesi, si aspettavano che la Cina si trasformasse da stato sovrano a protettorato amministrato da fiduciari delle oligarchie stesse. Un piano geniale e ultra-sofisticato. Ovviamente un piano costosissimo, eh? Con l’inaugurazione dell’era del dominio delle oligarchie finanziarie si diceva definitivamente addio ai livelli di crescita che avevano caratterizzato la fase gloriosa dell’ascesa del capitalismo industriale: se negli anni ‘60 la crescita globale era stata in media superiore al 5%, nei decenni successivi si è assestata stabilmente sotto il 4 e, in buona parte, si è concentrata in Cina.
Ma, d’altronde, era un prezzo più che congruo da pagare affinché, come dice Warren Buffet, la guerra di classe – che ovviamente non si è mai fermata – molto semplicemente, invece che dal basso contro l’alto, cambiasse radicalmente segno: “E’ la mia di classe” ha affermato Buffet “che fa la guerra, la classe dei ricchi; e la sta vincendo”.
Forse si è fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo, e la storia di questi ultimi anni sembra dimostrarlo piuttosto chiaramente: il piano di dominio e di sottomissione degli stati sovrani del sud del mondo che il capitale occidentale ha aiutato a svilupparsi, infatti, potrebbe non essere andato esattamente come previsto. A partire, ovviamente, dalla Cina, dove quello che l’aperisinistra sconfittista e pariolina ha definito per anni turbo-capitalismo, in realtà si è dimostrato essere qualcosa di profondamente diverso da quanto descritto dalle loro analisi boldrine e dirittumaniste. Grazie al monopolio del potere esercitato dal partito comunista, infatti, la doppia manovra di subordinazione finanziaria e di cooptazione delle oligarchie è miseramente fallita; a controllare la finanza cinese, non senza contraddizioni, rimane saldamente lo Stato, e le oligarchie che l’Occidente voleva cooptare non hanno potere politico. Spesso, anzi, vengono prese proprio platealmente a pesci in faccia, come è successo a Jack Ma non appena ha cercato di impossessarsi di una fetta importante – appunto – del potere finanziario del paese con l’approdo in borsa di Ant Group, il braccio finanziario del suo impero. Un modello che, nel sud globale, da un po’ di tempo a questa parte ha cominciato a fare scuola: la Cina non ha soltanto contribuito a svelare a tutto il mondo il funzionamento concreto della trappola costruita dal nord globale, ma ha anche dimostrato che è possibile sottrarsi dal giogo del neocolonialismo e ha anche dimostrato concretamente come si fa.
E quindi siamo finalmente arrivati ai giorni nostri e all’idea del genocidio indiscriminato come ultimo strumento a disposizione delle oligarchie del nord globale per perpetrare un sistema di potere internazionale non solo profondamente ingiusto ma, quel che ancor più conta, platealmente antistorico. Ma perché questa idea tetra del genocidio come sfogo naturale di queste contraddizioni? Alcuni spunti in ordine sparso:
1– Se contro le organizzazioni politiche dei lavoratori del nord globale – quando ancora eravamo paesi industriali -, nonostante tutti i limiti imposti dalle istituzioni e da quelle che allora erano ancora regole democratiche, siamo ricorsi a stragi, attentati, sospensione dello stato di diritto e chi più ne ha più ne metta, pensiamo al livello di ferocia che si può raggiungere nell’ambito di un ordine internazionale in balia del puro arbitrio del più forte e che, tra l’altro, si nutre del razzismo e del suprematismo che impedisce di vedere nei popoli estranei alla tradizione occidentale veri e propri esseri umani.
2– Se la lotta di classe interna al nord globale non si è trasformata in una vera e propria carneficina è in buona parte perché, allora, il capitale – per rilanciare il suo dominio – ha trovato nella globalizzazione neoliberista e nella finanziarizzazione una scappatoia apparentemente meno cruenta. Oggi, invece, oltre al tentativo di ricorrere alla violenza pura, quali alternative rimarrebbero alle oligarchie occidentali per contrastare il loro declino?
3– La storia ci ha dimostrato, in maniera abbastanza inequivocabile, che le conseguenze nefaste sulla crescita economica di una lunga fase di conflitti e di stermini su larga scala non può essere considerata un deterrente efficace contro la necessità delle oligarchie di proteggere e riaffermare il loro dominio.
4– Come nel caso di Gaza dove, nonostante le fantasie delle anime belle che sperano in una fratellanza pre-politica tra la meglio gioventù dell’occupante e quella dell’occupato, l’intera popolazione sostiene la lotta di liberazione, e quindi è l’intera popolazione ad essere considerata – del tutto razionalmente – il nemico da abbattere; idem, nei paesi sovrani del sud globale, il nemico delle oligarchie finanziarie dell’occidente collettivo è l’intero popolo, che non si esprime attraverso organizzazioni politiche di massa ma attraverso lo Stato stesso che, proprio nell’affermare la sua sovranità, rappresenta l’interesse generale. E quindi, proprio come a Gaza, non è certo sufficiente colpire un pezzo di classe dirigente, come gli USA – ad esempio – hanno provato a fare in modo spesso fallimentare negli ultimi 20 anni tra Libia, Iraq e Siria; certo, possono aver guadagnato del tempo e possono aver ostacolato lo sviluppo dei nemici strategici, ad esempio complicando l’accesso alla risorse energetiche alla Cina. Ma, alla fine, l’esigenza storica di costruire uno stato sovrano per affermare gli interessi generali è sempre riemersa. La devastazione indiscriminata, tale da rendere impossibile il risorgere dello stato nazionale, è l’unica soluzione che garantisce gli interessi strategici sul medio – lungo termine.
Ed ecco che il genocidio diventa la nuova normalità: un tempo si diceva socialismo o barbarie. Da allora il capitale ha condotto una lotta di classe spietata, e l’ha vinta. E la prospettiva socialista è stata rinviata chissà per quanto. Ma il conflitto è come la materia: non si crea e non si distrugge. Cambia forma, e la storia non si arresta. Ed ecco che così, oggi, con la necessaria dose di realismo potremmo parlare piuttosto di multipolarismo o genocidio. Tu con quale team ti schieri?
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E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu