IL collasso dell’impero USA. Dal Niger a Baltimora fino all’ONU, cronaca di un disastro annunciato
Quella che sta volgendo al termine, per l’impero a stelle e strisce è stata una vera e propria settimana da incubo; anzi, due: la sfilza delle cattive notizie era iniziata due settimane fa, quando la giunta patriottica del Niger aveva deciso di alzare l’asticella della sua guerra anticoloniale e aveva annunciato, di punto in bianco, la sospensione della cooperazione militare con gli Stati Uniti, mettendo a rischio la sopravvivenza della più importante base USA dell’intero Sahel. Lunedì, poi, è stato il turno della storica risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che ha isolato completamente il regime genocida di Tel Aviv ed ha costretto gli USA a prendere le distanze dal suo più importante alleato in Medio Oriente; martedì, a Washington, erano ancora lì a cercare di capire come tenere insieme il sostegno incondizionato al genocidio e il fatto che tutto il resto del mondo di vedere sterminare i bambini palestinesi si sarebbe anche leggermente rotto i coglioni, che ecco un uno due che avrebbe messo al tappeto pure lo Sugar Ray Robinson dei tempi migliori: il primo colpo è arrivato, di nuovo, dall’Africa occidentale, dove il cocco delle potenze occidentali Macky Sall ha dovuto riconoscere la vittoria di Diomaye Faye, il leader anticolonialista che era in carcere da 11 mesi per un post su Facebook fino ad appena due settimane fa e che ora promette di rimettere in discussione le concessioni petrolifere che il suo predecessore aveva sostanzialmente regalato alle oligarchie occidentali. Il secondo, invece, è arrivato proprio da sotto casa, quando una gigantesca portacontainer è andata a sbattere contro il ponte più importante di Baltimora facendolo crollare interamente – come un castello di carte – in meno di 20 secondi, e per non vedere, in queste immagini, il simbolo stesso del declino della dittatura globale di Washington, ci vuole veramente parecchio impegno.
Prima di procedere oltre e raccontarvi nel dettaglio la settimana nera dell’imperialismo USA e dei suoi utili idioti, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro il dominio degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare le notifiche; a voi costa soltanto un centesimo di secondo del vostro tempo, a noi invece aiuta a crescere e a far arrivare anche fuori dalla nostra bolla qualche notizia che non sia proprio esattamente la fuffa propagandistica che gli rivogano continuamente i pennivendoli dei media mainstream.
Come ricorda il mitico Billmon dal suo blog Moon of Alabama “Senza alcuna sorpresa, lo stesso New York Times, che si è basato su testimoni menzogneri per affermare falsamente che Hamas aveva violentato donne israeliane, sta mentendo anche sulla risoluzione di cessate il fuoco per Gaza approvata ieri dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”; il riferimento è alla lunga serie di figure di merda che la testata di riferimento del finto progressismo imperialista e suprematista del giardino ordinato ha raccattato nel disperato tentativo di legittimare lo sterminio dei bambini palestinesi a Gaza: un primo esempio eclatante è l’ormai famigerato articolo dello scorso 28 dicembre dove i cronisti sionisti del Times mettevano in fila una serie di testimonianze, in gran parte anonime, su fantomatici casi di violenza sessuale durante l’operazione della resistenza palestinese Diluvio di al aqsa del 7 ottobre. Tra le testimonianze più importanti, quella di un sedicente paramedico di un commando israeliano che denunciava il ritrovamento del cadavere di due ragazze nel kibbutz di Be’eri che “riportavano segni evidenti di violenza sessuale”; peccato che, poco dopo, sia sfuggito alle maglie della propaganda un video girato esattamente in quel contesto da un soldato israeliano che mostrava i cadaveri delle donne e che, come è stato costretto ad ammettere lo stesso Times, “non avevano nessun segno evidente di abusi sessuali”.
D’altronde, non dovrebbe sorprendere: la principale fonte a cui il Times, come il grosso della propaganda dei sostenitori del genocidio, si è rivolto per le sue fake news sugli stupri della resistenza palestinese è la famigerata avvocatessa Cochav Elkayam-Levy, a capo di una fantomatica auto – nominata commissione civile creata in fretta e furia per indagare i crimini commessi da Hamas il 7 ottobre contro donne e bambini, una campagna mediatica in grande stile che l’ha portata, più volte, a sciorinare i risultati delle sue indagini in prime time sulla CNN e addirittura alla Casa Bianca; un attivismo infaticabile che le è valso anche il Premio Israele, la massima onorificenza possibile immaginabile da parte del governo sionista, il tutto rigorosamente basato su pura fuffa in modo così plateale da dover essere riconosciuto, poco dopo, dal governo israeliano stesso che, tramite un suo portavoce, ha dichiarato al principale quotidiano israeliano YNet che “le sue ricerche sono inaccurate” e rischiano di dare forza a chi sostiene “che diffondiamo fake news”. Il numero di bufale della Levy spacciate come notizie dalla propaganda occidentale sono innumerevoli, a partire da quella supersplatter del feto strappato dal ventre di una donna prima di violentarla; la cosa divertente è che la Levy, con questo giochino, ci si è fatta ricca: attraverso il suo Deborah Institute, infatti, ha raccolto milioni di dollari di finanziamento, a partire dall’ambasciatore USA in Giappone, l’ebreo Rahm Emanuel. Aveva deciso di donarli dopo aver visto una sua presentazione ad Harvard dove aveva mostrato le foto di corpi di donne uccise e stuprate, sosteneva, al Nova Electronico Music Festival; peccato che, come rivelò poi il sempre ottimo Max Blumenthal, fossero in realtà foto di guerrigliere curde morte in combattimento. Ora, dopo aver diffuso a piene mani questo genere di minchiate, figuratevi che problemi si possono fare quelli del Times a distorcere la realtà semplicemente, che è esattamente quello che hanno fatto descrivendo la storica risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che ha costretto gli USA, per la prima volta, a non porre il veto a una risoluzione contraria all’azione del governo genocida di Tel Aviv; la partita, infatti, si gioca essenzialmente tutta intorno a una questione: la richiesta di cessate il fuoco è o no vincolante?
Nel tentativo disperato degli USA di giustificare il plateale mancato rispetto del mandato del Consiglio da parte di Israele che, dopo la sentenza, ha continuato a bombardare più di prima e a cercare di sterminare i palestinesi di Gaza, oltre che con le bombe, anche con la fame bloccando gli aiuti dell’UNRWA, l’amministrazione Biden, ovviamente, ha subito sottolineato come la risoluzione fosse non vincolante e come avesse, come premessa, il rilascio degli ostaggi; e il Times, ovviamente, ha sposato senza se e senza ma questa linea distorcendo platealmente le parole: come sottolinea Billmon, infatti, secondo il Times “Il Consiglio di sicurezza avrebbe invitato al cessate il fuoco” usando scientemente il termine calling for e “Se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite invita qualcuno a fare qualcosa, ciò equivale giuridicamente a chiedere per favore. Non ha conseguenze reali”. Fortunatamente, però, l’ONU non ha invitato proprio nessuno: nella risoluzione, infatti, il termine usato è demand, richiedere, che è legalmente vincolante; idem con patate per l’eliminazione di “tutti gli ostacoli alla fornitura di assistenza umanitaria” che, secondo il Times, l’ONU avrebbe invocato e, invece, la risoluzione ha espressamente ordinato. Possono sembrare dettagli, ma non lo sono affatto; certo, è assolutamente vero che, mancando all’ONU strumenti diretti per far rispettare le sue risoluzioni, le conseguenze non possono essere immediate e non sono in grado di mettere immediatamente fine al massacro, ma questo non significa che questa risoluzione – e chiarire che si tratta di una risoluzione legalmente vincolante – non siano questioni di primaria importanza.
Il primo motivo l’ha chiarito il presidente colombiano Gustavo Petro in un breve tweet: “Se Israele non rispetta la risoluzione delle Nazioni Unite sul cessate il fuoco” annuncia Petro “romperemo le relazioni diplomatiche con Israele” e, se lo dice Petro, invece che perdere tempo e fiato per lamentarci che tanto non cambia niente, sarebbe il caso di mobilitarsi seriamente perché lo dicano anche i governi europei – a partire dal nostro – che, probabilmente, troverebbero paradossalmente anche meno ostacoli. Per capirlo, basta vedere i commenti sotto il tweet di Petro: “Fai lo sbruffone con Israele, che è in un altro continente, ma non dici niente sulla dittatura venezuelana che hai accanto e che non permette elezioni libere” tuona Republicano; “E con Maduro non romperai le relazioni per non aver permesso all’opposizione di andare alle elezioni?” rilancia abuelo embaraccado. “E sul Venezuela, niente da dire? Ipocrita” sentenzia Emmanuel Rincon: tutti profili da decine di migliaia di follower, il braccio armato della propaganda delle oligarchie svendipatria filoyankee colombiane che hanno governato il paese da sempre e che, ancora oggi, rappresentano un’opposizione estremamente potente e pericolosa al governo patriottico e sovranista dell’ex guerrigliero marxista leninista Gustavo Petro. Petro, però, da lunedì dalla sua ha – appunto – una nuova carta che, se la maggioranza della popolazione si mobilita con forza per sostenerla, può risultare decisiva: la sua posizione, infatti, dopo la risoluzione, è chiaramente l’unica legalmente difendibile; il resto è puro crimine internazionale.
Come faranno a difendersi i sostenitori a giorni alterni dell’ordine internazionale basato sulle regole? Come nel caso della sentenza della Corte Internazionale di giustizia, l’impero del doppio standard si trova di fronte a un bivio molto delicato: deve decidere se voltare le spalle all’avamposto dell’imperialismo nel Medio Oriente o se dichiarare, una volta per tutte, che il diritto internazionale non esiste e che valgono esclusivamente i rapporti di forza e gli interessi strategici dei wannabe padroni del mondo che siedono a Washington: in entrambi i casi, nella grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo, un esito non esattamente favorevolissimo, diciamo, e quando ci si trova di fronte a due opzioni entrambe devastanti, a fare la differenza potrebbe essere davvero, appunto, la mobilitazione popolare che, nel frattempo, è chiamata a combattere un’altra partita fondamentale.
Martedì scorso, infatti, gli USA sono stati travolti da un’altra sentenza storica: alle 10 e 30 della mattina, l’Alta Corte del Regno Unito ha annunciato ufficialmente che la decisione definitiva sull’estradizione di Julian Assange viene rimandata di tre settimane, durante le quali le autorità americane dovranno presentare garanzie sufficienti che, una volta trasferito negli USA, il fondatore di Wikileaks non verrà condannato alla pena capitale, non verrà discriminato nel processo sulla base della sua nazionalità non americana e, soprattutto, godrà della protezione del primo emendamento, che garantisce protezione costituzionale alla stampa. Che, intanto, significa una cosa molto semplice: gli USA saranno anche la patria della democrazia, ma di default questi diritti fondamentali non li garantiscono. Ovviamente, anche qua le reazioni non sono state di giubilo, perché la tagliola continua a pendere sulla testa di Assange e, nel frattempo, si farà altre 3 settimane di carcere dopo 9 anni di martirio; ciononostante, non era per niente scontata: “Temevamo l’estradizione” ha affermato Jeremy Corbyn, da sempre in prima fila in questa fondamentale battaglia di civiltà. “Credo che questo verdetto segni un cambiamento, e che sia dovuto anche alla persistenza delle campagne per la liberazione di Julian. La pressione serve” ha concluso Corbyn, “non possiamo mollare”.
Anche qui, ovviamente, c’è un nodo legale irrisolvibile che pone la corte britannica di fronte al solito bivio: scontentare il boss di Washington o dichiarare la fine dello stato di diritto. L’accusa, infatti, è stata piuttosto chiara: Assange, non essendo cittadino americano, non può invocare il rispetto del primo emendamento; da qui le due obiezioni fondamentali proposte dalla difesa e recepite dalla corte. Uno: Assange non può essere discriminato a causa della sua nazionalità e due (intimamente connesso, come ricorda Stefania Maurizi su Il Fatto): “L’estradizione è incompatibile con l’articolo 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, che protegge la libertà di stampa e di espressione”; essendo il nodo legale indistricabile, quindi, anche in questo caso la decisione in realtà sarà eminentemente politica, e la politica la influenzano anche le mobilitazioni di massa. Ed ecco perché, proprio come nel caso della risoluzione dell’ONU, come sottolinea Corbyn, adesso “non possiamo mollare”.
Come ripetiamo da un po’ di tempo a questa parte, l’era del disfattismo e della dittatura di TINA – il There is no alternative di thatcheriana memoria – è definitivamente tramontata: l’impero è in declino e la sua egemonia incontrastata, quella che aveva portato un’imbarazzante mezza calzetta come Francis Fukuyama a diventare una sorta di guru con la sua pagliacciata sulla fine della storia, è ormai il delirio di una piccola minoranza che, per quanto potente, è tutta rivolta al passato; e in questa lunga fase di declino, per i popoli si apre una nuova, gigantesca opportunità di tornare ad essere protagonisti del loro destino. Questi due casi sono due esempi eclatanti esattamente di questa nuova stagione dove l’esito di quello che succede dipenderà sempre di più dalla nostra capacità di tornare a fare sentire la nostra voce. Ovviamente, come molti di noi ripetono fino alla nausea da tipo 30 anni, abbiamo fatto di tutto per farci trovare completamente sguarniti e impreparati a questo appuntamento con la storia: 30 anni di fuffa liberal hanno ridotto le organizzazioni popolari in briciole e lo sforzo a cui siamo chiamati oggi per recuperare il tempo perso è a dir poco titanico; la buona notizia è che si può fare. E’ la lezione che ci arriva chiaramente dal Sud globale: le ultime settimane, per l’impero USA e i suoi vassalli, infatti, sono state un vero calvario.
La prima pessima notizia risale ormai a una decina di giorni fa: il 16 marzo, infatti, “Il Niger” riportava Al Jazeera “ha sospeso il suo accordo militare con gli Stati Uniti con effetto immediato, segnando così un duro colpo per gli interessi di Washington nella regione”; dopo il golpe patriottico del luglio scorso, la giunta nigerina aveva malamente cacciato i francesi, ma aveva tenuto aperto il dialogo con gli USA, tanto che alcuni analisti un po’ confusi erano arrivati addirittura a sostenere che i patrioti nigerini non fossero patrioti per niente e fossero dei pupazzi in mano a Washington impegnati a dargli man forte in una lotta tutta interna all’Occidente collettivo, una tesi che noi abbiamo sempre respinto con forza. Piuttosto – abbiamo affermato in svariate occasioni – in questo contesto gli USA sono stati meno ottusi del solito: hanno capito che l’ondata anticoloniale era inarrestabile e, invece di impelagarsi in un muro contro muro che li avrebbe portati a una sconfitta certa, hanno cercato una mediazione. Ecco, così, che invece di invocare sanzioni e interventi militari come i francesi, hanno riconosciuto il nuovo governo e sono scesi a patti; l’obiettivo era, ovviamente, quello di mantenere un presidio nel paese per evitare di consegnarlo completamente alla sfera di influenza militare russa e a quella economica cinese: il presidio in questione è la famosa base aerea 201, “il progetto di costruzione più costoso mai intrapreso dal governo degli Stati Uniti nel continente” sottolinea Al Jazeera; una base strategica perché, con la scusa della “guerra alle operazioni terroristiche”, continua Al Jazeera, in realtà è anche un elemento fondamentale della “proiezione di grande potenza contro Russia e Cina”. Purtroppo per gli USA, però, evidentemente il suprematismo lo puoi domare per un po’, ma non lo puoi sedare del tutto e, prima o poi, torna a galla; ed ecco così che in occasione della visita di una delegazione USA in Niger, gli inviati avrebbero deciso di tirare un po’ troppo la corda, fino a “minacciare un’azione contro il Niger se non avesse tagliato i legami con i due grandi avversari geopolitici” e i nigerini non l’hanno presa proprio benissimo, diciamo: “Il governo militare” ha dichiarato il portavoce della giunta Adbramane la sera stessa a reti unificate, “denuncia con forza la minaccia di ritorsione del capo della delegazione americana nei confronti del governo e del popolo nigerino”. “Il governo del Niger, tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo” ha concluso “revoca, con effetto immediato, l’accordo relativo allo status del personale militare degli Stati Uniti e dei dipendenti civili del Dipartimento della Difesa” e dichiara con forza che il patto di sicurezza in vigore dal 2012 “viola la costituzione del Niger”.
Ma una lezione ancora più grande di come, contro l’impero in declino, chi la dura, la vince è arrivata martedì dal Senegal, dove è stata annunciata ufficialmente la vittoria alle elezioni del giovane attivista anticolonialista Bassirou Diomaye Faye; appena due settimane fa, Diomaye Faye era ancora in carcere e il regime del cocco dell’Occidente Macky Sall aveva rinviato le elezioni di un anno: il regime filo – occidentale sembrava esser riuscito a sconfiggere le forze del cambiamento con la repressione. Poi, con grande sorpresa di tutti gli osservatori, di punto in bianco la Corte costituzionale – che Macky Sall e i suoi sponsor pensavano di avere in pugno – ha deciso di annullare il decreto che rinviava il ritorno alle urne; il regime, allora, provava l’ultima carta e fissava la data delle elezioni pochissimi giorni dopo, sperando che gli avversari non avessero il tempo minimo necessario per organizzare un po’ di campagna elettorale (soprattutto dal momento che nel frattempo, circa un anno prima, il loro partito era stato smantellato manu militari e dichiarato fuorilegge) e dal momento che Faye, in realtà, non fosse altro che un sostituto: il vero leader dell’opposizione, Ousmane Sonko, era stato infatti fatto fuori a suo tempo con una persecuzione giudiziaria senza capo né coda, dopo anni di violente repressioni di piazza che sono continuate fino a poco fa. Come oltre un migliaio di suoi compagni di lotte, anche Faye era stato tra le vittime di questa ondata di repressione inedita per il Senegal; era stato condannato a 11 mesi per un post su Facebook: “Alcuni magistrati, una minoranza infima” aveva scritto “si sono dati come missione di sgozzare, squartare e servire della carne fresca di oppositore al presidente Macky Sall, per fargli decidere in quale modo cucinarlo”. Una repressione poliziesca che non ha scoraggiato i nostri paladini della democrazia, che hanno continuato a coccolare Macky Sall che, giusto un mesetto fa, è stato accolto con tutti gli onori a Roma per la pagliacciata del summit sul Piano Mattei, ma le oligarchie dell’Occidente erano rimaste le uniche a sostenerlo: manco a dirlo, tra i cavalli di battaglia del Pastef, il partito di Sall, e Faye, c’è da sempre una feroce critica al ruolo del colonialismo e, in particolare, della Francia, con l’obiettivo dichiarato – al pari di Mali, Niger e Burkina Faso – di abbandonare il franco CFA (forse il principale di tutti gli strumenti di dominio neocoloniale ancora in essere) per creare una valuta locale adatta alle esigenze economiche del paese e alla sua tanto ambita indipendenza economica.
Ma quello che, oltre che i francesi, spaventa anche tutte le altre oligarchie dell’Occidente collettivo è la promessa di rimettere in discussione tutte le concessioni estrattive imposte dalle multinazionali occidentali al paese a condizioni al limite della rapina. Una partita particolarmente importante dal momento che, come ricorda Nigrizia, “Negli ultimi anni in Senegal sono stati scoperti vasti giacimenti offshore sia di petrolio che gas. Al largo della costa occidentale del paese, si stima la presenza di oltre un miliardo di barili di petrolio, mentre il giacimento al confine con la Mauritania conterrebbe in profondità addirittura 900 miliardi di metri cubi”: tutta ricchezza che, grazie a contratti capestro firmati dall’amichetto della nostra Giorgiona nazionale Macky Sall, sarebbe dovuta andare a gonfiare le casse delle oligarchie occidentali (a partire dagli azionisti di British Petroleum che, nella regione, la fa un po’ da padrone) e che oggi, invece, potenzialmente rappresentano per il presidente anticolonialista Faye una solida base di partenza per un’agenda che permetta finalmente al Senegal di emanciparsi da secoli di soprusi dell’uomo bianco, andando ad arricchire ulteriormente la ormai interminabile schiera di paesi che dell’impero in declino si sarebbero anche abbondantemente rotti i coglioni.
Chissà se anche in Senegal fino a due giorni fa, come da noi, c’era pieno di finti lucidi e veri cinici commentatori che invitavano a starsene a casa a farsi i cazzi propri, tanto non cambia mai niente: dal Niger al Senegal, fino ad arrivare nel cuore del vecchio continente, l’era dei bubbolatori inconcludenti è finita ed è arrivato il momento di prenderci le nostre responsabilità per far crollare definitivamente il castello di carte della sempre più anacronistica dittatura delle oligarchie svendipatria; per farlo, abbiamo bisogno di un media che, invece che spacciare fuffa come il New York Times, aiuti il 99% a prendere consapevolezza del furto sistematico che le élite svendipatria commettono sulle loro spalle. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Giorgia Meloni