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Tag: aldo moro

Il peggior amico: come l’Italia ha tradito i palestinesi e ha imparato ad amare i carnefici

In piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.

“Considero legittima la lotta armata dei palestinesi”. Era il 6 giugno, 1985, e con queste parole Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, affrontava davanti alla Camera dei Deputati la questione palestinese. Oggi, le stesse parole pronunciate da un’alta carica dello stato verrebbero immediatamente etichettate come il delirio di un fanatico filo-hamas e determinerebbero la fine della sua carriera politica. Questo, nonostante a riconoscere la legittimità di un popolo alla lotta armata in caso di occupazione straniera sia la stessa Onu e sia sempre la stessa Onu a chiedere a Israele di fermare la sua invasione e riconoscere il diritto dei palestinesi ad un loro Stato nazionale con la stessa dignità di tutti gli altri. Nulla da fare, in Italia in questi giorni anche solo definire territori occupati territori effettivamente, da ogni punto di vista, occupati, o addirittura pretendere che la comunità internazionale faccia pressione su Israele affinchè si ritiri nei propri confini, comporta automaticamente l’accusa di connivenza con il terrorismo e se non con l’anti-semitismo.

Non è sempre stato così.

Durante la guerra fredda, quando l’Italia conservava ancora un pò di dignità nazionale e mostrava un minimo di indipendenza rispetto agli interessi geopolitici americani, la questione palestinese non era affrontata nei termini ideologici e farneticanti con cui viene affrontata oggi.
In questa nuova puntata di pill8lina ripercorriamo la storia dei rapporti diplomatici tra il popolo italiano e quello palestinese, e di come il nostro Paese, da essere lo Stato occidentale più vicino e solidale alla lotta di indipendenza palestinese, si sia trasformato negli ultimi trent’anni in un acritico sostenitore del fanatismo e dell’imperialismo.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. Negli anni 50’, anche se la politica estera italiana aveva un margine di manovra limitato nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il governo cercò di avere un ruolo attivo nel mediterraneo approfittando della propria posizione favorevole di “ponte” tra l’Europa e il vicino oriente. Da un lato, la Democrazia Cristiana, primo partito italiano, voleva dare priorità alle politiche di integrazione europea e basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici e industriali stavano creando relazioni forti e durature nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la corrente di sinistra interna alla DC, erano convinti che una forte presenza dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda. Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza tra il neonato stato di Israele e la causa palestinese ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60 con risultati controversi:

durante la crisi di Suez del 1956, ad esempio, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: non solo condannò l‘invasione da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò diplomaticamente per mettere fine alle tensioni. Undici anni dopo, durante la guerra del ‘67, nonostante la dialettica interna alla maggioranza di governo, l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e lega araba, ma poi decise di convergere verso il piano di “pace” americano, con ripercussioni negative sui nostri rapporti economici con gli Stati Arabi. Ma fu negli anni ’70 che l’Italia virò più decisamente verso una posizione pro-palestinese. Sotto la guida dell’allora Primo Ministro Aldo Moro, e nonostante le critiche degli Stati Uniti, l’Italia promosse diverse iniziative a favore della Palestina.

Insieme alla Francia, sostenne la partecipazione di Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, e poi lo accolse pure in visita ufficiale in Italia.

Il sostegno aumentò ulteriormente nel decennio successivo.

Nel 1985, l’Italia rifiutò di concedere l’estradizione ai dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. È l’anno del discorso di Craxi citato all’inizio e ispirato niente popodimeno che alla figura di Giuseppe Mazzini: “Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere”, dichiarava enfaticamente Craxi, “lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia”, continuava Craxi, “e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”.

Tre anni prima, l’opinione pubblica italiana aveva reagito con sdegno unanime al massacro di Sabra e Shatila e L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva energicamente condannato il massacro durante il Messaggio di Fine Anno agli Italiani del 1983. “Una volta”, dichiarò Pertini, “furono gli ebrei a conoscere la “diaspora”. Vennero cacciati dal Medio oriente e dispersi nel mondo; adesso lo sono invece i palestinesi”, che “hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli israeliti”

“Se vi sono nazioni in cui i diritti civili ed umani sono annullati”, continuava Pertini condannando Israele , “non vi è che un provvedimento da prendere contro queste nazioni: l’espulsione dall’Onu. Non valgono le proteste, se le porta via il vento. Non valgono le polemiche. Siano espulse dalla Organizzazione delle Nazioni Unite. Sia dato loro il bando, siano indicate all’umanità come colpevoli”.
Ma verso la fine degli anni ‘80, qualcosa è cominciato a cambiare. I motivi, li spiega magistralmente la ricercatrice dell’università di Oxfors Mjriam Abu Samra. Il primo è la totale integrazione dell’Italia, dopo la guerra fredda, all’interno della sfera politica e culturale americana. Un’appiattimento, che ha cambiato anche la narrazione dei media, che negli anni hanno tentato in tutti i modi di sradicare ogni forma di simpatia nei confronti della causa Palestinese dall’opinione pubblica italiana. Il secondo, riassume sempre Abu Samra “è costituito dai lenti ma inesorabili cambiamenti delle pratiche organizzative palestinesi e della loro visione politica, cristallizzata dagli Accordi di Oslo”. Secondo Abu Samra infatti, “Non solo l‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è trasformata da movimento rivoluzionario in apparato quasi statale che privilegia la diplomazia rispetto all’attivismo popolare, ma la frammentazione politica dell’organizzazione ha avuto anche un impatto negativo sull’attivismo popolare, causando una paralisi senza precedenti delle attività sociali, culturali e politiche dei palestinesi in Italia”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: in Italia ormai sostenere qualcosa di diverso dalla linea ufficiale decretata da Washington e Tel Aviv è tabù, il tutto nel nome dell’affinità culturale con quella che con sprezzo per il pericolo e sezna senso del ridicolo continuiamo a definire “l’unica democrazia del medio oriente”. Nei media e nelle dichiarazioni dei politici, lotta per la liberazione e l’indipendenza di un popolo è stato derubricato da un lato dai finto progressisti a semplice problema umanitario, e dall’altro, dalla destra reazionaria, addirittura a tassello della narrazione razzista e suprematista dello “scontro di civiltà”. Supportata da questa propaganda, la politica Italiana ha di fatto sostenuto le politiche imperialiste israeliane anche quando venivano ufficialmente condannate dall’Onu e da tutte le più importanti organizzazioni internazionali, fino ad arrivare ad una prima impensabile identificazione tra un immaginario “noi” di cui Israele farebbe parte, contrapposto a un “loro” che include i palestinesi. In questo quadro, la vittoria democratica di Hamas alle elezioni dell‘Autorità Nazionale del 2006 è stata sfruttata per rietichettare la lotta di liberazione palestinese come uno dei tanti fronti aperti dal “terrorismo islamico”. Ed ecco così che dalla solidarietà e la capacità di svolgere un ruolo di mediazione, indispensabile anche per difendere i nostri interessi nazionali, siamo passati alle bandiere israeliane proiettate e sventolate in questi giorni sui nostri edifici istituzionali. Le bandiere di uno Stato, ribadiamo, condannato ripetutamente dall’Onu per invasione, annessione, e violazione dei diritti umani. Una svolta oltretutto, che testimonia in modo plateale anche un vero e proprio cambio di paradigma culturale: negli anni dopo l’occupazione nazi-fascista e memori della resistenza infatti, era diffusa in Italia l’idea che le tecniche di guerriglia adottate da un popolo occupato fossero politicamente giustificate, e che la responsabilità morale dei massacri e delle stragi commesse da entrambe le parti dovesse ricadere sempre su gli invasori e non sugli invasi .

Oggi invece, in piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.
Contro il coro unanime della propaganda, per ricominciare a vedere il mondo dal punto di vista di chi è oppresso, e non di chi opprime, abbiamo bisogno di un vero e proprio media libero e indipendente

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Giorgio Napolitano: il “comunista preferito” di Washington che odiava la democrazia

1975, tre tra le più prestigiose università degli USA decidono di invitare un importante dirigente del Partito Comunista Italiano per un ciclo di conferenze.

Apriti cielo: in quegli anni, infatti, il Partito Comunista Italiano stava attraversando una fase di espansione incredibile, che alle elezioni politiche dell’anno successivo lo portò a conquistare oltre il 34% dei consensi, con una crescita rispetto alle elezioni precedenti di quasi 10 punti percentuali.

Ma non solo: dopo il tragico esito dell’incredibile avventura dell’Unione Popolare in Cile sotto la guida di Salvador Allende, il PCI di Berlinguer da un paio di anni aveva sposato la strategia del così detto “compromesso storico” e l’eventualità dell’ingresso del PCI in un Governo di unità popolare si faceva giorno dopo giorno più verosimile.

L’avanzata del PCI in Italia”, dichiarerà trent’anni dopo in un intervista a La Stampa l’ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner, “era la questione più grave che ci trovavamo ad affrontare in Europa”. Ed ecco così che un altro ambasciatore, quel John Volpe che si era già contraddistinto per aver nominato quel criminale “uomo dell’anno” nel 1973, il banchiere mafioso e piduista Michele Sindona, taglia la testa al toro e decide di non concedere il visto al dirigente comunista. Ma era solo il primo capitolo di una storia lunga e tortuosa.

Tre anni dopo, marzo 1978

Aldo Moro, il principale alleato di Berlinguer nell’attuazione della strategia del “compromesso storico” , viene rapito in modo rocambolesco dalle Brigate Rosse. Nel frattempo all’ambasciata USA, Gardner era subentrato a Volpe e appena un mese dopo il rapimento, il visto che a quel dirigente comunista tre anni prima era stato solennemente negato, magicamente viene concesso. Era la prima volta per un comunista dal 1952.

Quel dirigente comunista si chiamava Giorgio Napolitano, “il mio comunista preferito”, come lo definiva il compagno Henry Kissinger, dall’alto dei suoi 100 e passa anni di crimini di guerra di ogni specie.

Miglioristi”, li chiamavano: erano quella corrente del PCI che aveva rinunciato all’idea di distruggere il capitalismo e tutto sommato anche a riformarlo. Che comunque riformarlo, quando ancora la sinistra non si era completamente bevuta il cervello, significava sempre volerlo trasformare alla radice, solo più gradualmente, e senza ricorrere alla violenza. I miglioristi invece facevano un passo oltre: il capitalismo volevano solo “migliorarlo”.

Ma il punto ovviamente è: migliorarlo per chi? Un indizio significativo risale al 1976, al Governo c’era Giulio Andreotti. Un “Governo di solidarietà nazionale”, veniva definito. Ma Napolitano aveva un modo di intendere la solidarietà tutto suo. Secondo la sua tesi, bisognava si tutelare l’ “interesse generale”, ma a pagare il conto dovevano essere solo gli operai. Per superare la crisi, era la proposta del Peggiore, non c’è niente di meglio che abbassare lo stipendio di chi lavora.

Avvocato agnelli, la scongiuro, non sia timido, la vedo in difficoltà, mi trattenga un pezzo di stipendio. poi se le avanza del tempo gradirei anche mi infilasse una bella scopa su per il culo così le dò una bella ramazzatina alla stanza”. così si sarebbe dovuto esprimere il militante comunista ideale secondo Re Giorgio. Nel tempo “migliorista” diventò poi sostanzialmente sinonimo di moderato e realista. Ma forse è solo un grosso equivoco, di quelli in cui cade spesso quell’ “estremismo, malattia infantile del comunismo” che già Lenin ebbe modo di redarguire ferocemente. Moderazione e realismo infatti non sono altro che attitudini necessarie per chiunque veda nella politica, nella lotta per la conquista del potere e nel suo esercizio strumenti per cambiare concretamente in profondità l’esistente, senza cedere alla tentazione infruttuosa se non addirittura del tutto controproducente dello slancio ideale fine a se stesso. Ma nell’azione di Napolitano non c’è mai stato assolutamente niente di moderato. Il suo disprezzo per ogni forma di democrazia fu sempre contrassegnato da un fervore ideologico vicino al messianesimo. Da questo punto di vista, la militanza comunista di Napolitano non fu che un gigantesco equivoco. Acriticamente fedele ai dictat sovietici quando l’influenza sovietica nel pianeta era in rapida ascesa, nella formula dittatura del proletariato, si riconosceva solo in uno dei due termini…e non era proletariato.

Ed ecco così che quando l’Unione Sovietica alla fine crollò, per Giorgio fu una vera e propria liberazione. Ora il mondo aveva un unico padrone chiaro, le oligarchie statunitensi e il governo di Washington forgiato a loro immagine e somiglianza. Finalmente Napolitano poteva mettersi al servizio di una vera dittatura globale, che però non si ponesse l’obiettivo, per quanto contraddittorio, dell’emancipazione dei subalterni. Interpretò questa era di neodispotismo con malcelata ferocia. superando a destra qualsiasi forza politica nazionale, che anche quando interpretava un’agenda reazionaria, doveva perlomeno sempre fare un po’ di conti con il consenso e con l’interesse Nazionale. Come quando Berlusconi tentò timidamente per la prima volta nella storia della seconda Repubblica di mantenere le distanze da Washington, cercando di rimanere ai margini dell’intervento in Libia. La cronaca racconta che Napolitano lo dissuase, ma è decisamente un eufemismo. Ed è proprio il rapporto ambivalente con Berlusconi e il Berlusconismo a gettare luce sull’idea perversa del potere che permeava l’azione di Napolitano che, infatti, a lungo assecondò in ogni modo tutte le peggiori nefandezze del Governo Berlusconi. Fino a quando un bel giorno non decise di rendersi complice di un vero e proprie golpe bianco per escluderlo dai giochi per sempre.

IV Governo Berlusconi – Attribuzione: Quirinale.it

Schizofrenia? Assolutamente no.

Semplicemente, nel frattempo, era intervenuto un potere di ordine superiore. Da questo punto di vista Re Giorgio, in realtà, Re non lo è mai stato più di tanto. Intendiamoci, il modo autoritario con il quale ha interpretato il suo doppio mandato da Presidente [della Repubblica, ndr] profuma di eversione da mille miglia di distanza, come d’altronde il tentativo di riforma costituzionale dettato da Napolitano e poi naufragato grazie all’antipatia viscerale che suscitava Matteo Shish Renzi.

Ma il punto è un altro.

Totalmente insensibile a ogni istanza popolare e anche ai timidi tentativi da parte del nostro Paese di ritagliarsi una qualche forma di autonomia, più che un Re, Napolitano ricordava un amministratore delegato, pronto a ricorrere ai tatticismi più subdoli pur di assecondare i desiderata di un potere superiore. Quando quel potere superiore non era incarnato fisicamente da qualcuno, subentrava la subalternità fideistica a un principio ordinatore di carattere sostanzialmente religioso: il vincolo esterno.

Se fosse stata una ragazzina delle medie, Napolitano con le immagini del vincolo esterno ritratto in pose ammiccanti c’avrebbe tappezzato la cameretta.

Il contenuto di quel vincolo esterno tutto sommato era abbastanza secondario. Era l’esistenza del vincolo esterno in se, come principio astratto, ad affascinare Napolitano. Un Vincolo Esterno da assumere sempre e comunque come dato naturale, che permette di mettere un freno a ogni istanza di democratizzazione, e impedire così l’irruzione nelle sfere del potere del volgo e dei suoi inaffidabili leader politici a digiuno di galateo.

Un pensiero elitario”, sintetizza efficacemente Salvatore Cannavò su “il fatto quotidiano”, “degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è sempre appartenuto nonostante la lunga militanza nel PCI che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia”. Un pensiero elitario che ancora più che nella repulsione epidermica per ogni forma di movimento quando era ancora tra le fila del PCI, si palesò in tutta la sua portata con l’emergere dei 5 stelle. Dopo averci consegnato via golpe bianco alla macelleria sociale del governo Monti, in assoluto il peggior della seconda repubblica, Napolitano è stato costretto controvoglia a concederci il voto. Gli italiani hanno votato chiaramente per un ruolo di primo piano dei 5 stelle, che da niente hanno raccolto oltre il 25% dei consensi, ma Napolitano c’ha consegnato a due Governi a guida PD, Letta prima e Renzi poi. In questo modo comunque, ha definitivamente distrutto il peggior partito della fintasinistra neoliberista del continente. Insomma, ha fatto anche cose buone, ma solo quando non erano volute. Ma ancor più che al “miglior liberal-conservatorismo europeo”, l’avversione atavica di Napolitano all’irruzione del volgo nelle stanze del potere e a ogni forma di democratizzazione dell’ordine sia Nazionale che ancor più di quello internazionale, spiega la profonda affinità manifestata in più di un’occasione da Henry Kissinger. Come quando, nel 2015, volle consegnarli personalmente il premio che porta il suo nome e che è destinato alle “personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici”. Kissinger infatti è stato per eccellenza l’uomo delle trame segrete e dei cambi di regime manu militari per imporre su scala globale la controrivoluzione neoliberista nella sua accezione più estrema e feroce, come con Pinochet in Cile. Una controrivoluzione che ha significato molte cose, ma più di ogni altra, l’utilizzo dell’idea di un fantomatico vincolo esterno imposto da mercati immaginari per reagire alla crescita del potere dei subalterni e distruggere così l’idea stessa di democrazia moderna, com’era stata sancita nelle Costituzioni post seconda guerra mondiale. Non a caso Napolitano fu a lungo il più acerrimo dei nemici di Enrico Berlinguer, il leader politico italiano che probabilmente più di ogni altro comprese l’essenza dell’Unione Popolare di Allende e fece sua quella profonda riflessione sul nesso tra democrazia, sovranità popolare e nuovo ordine multipolare che sola avrebbe potuto rappresentare una risposta adeguata alla controrivoluzione neoliberista incombente.

Una cosa sola va riconosciuta a Napolitano: uomo del novecento, e persona colta e raffinatissima, proprio come Kissinger, è stato un più che degno rappresentante di un lungo periodo storico durante il quale ancora anche nel nord globale chi puntava alle gestione del potere, per il potere, dedicava tutta la sua vita alla politica. Da questo punto di vista, e solo a questo, bene hanno fatto i politici e i pennivendoli di oggi a scriverne all’unisono e senza eccezioni una ridondante e stucchevole apologia. Se Napolitano è stato l’amministratore delegato della controrivoluzione neoliberista e tra l’altro anche negli anni della sua inarrestabile e trionfale avanzata, loro ne sono al massimo il personale delle pulizie, nella fase del suo plateale e catastrofico declino. Se al posto dei media di regime che di lavoro ramazzano le macerie lasciate dal disastro del neoliberismo credi anche tu ci sia bisogno del primo media che sta dalla parte del volgo che vuole entrare nella stanza dei bottoni, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Giorgio Napolitano