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Autore: OttolinaTV

PAOLO BORIONI: come sinistra libertaria e oligarchie si sono alleate contro la socialdemocrazia

Ottoliner buongiorno e bentornati all’appuntamento con le interviste di OttolinaTv. Oggi su rieducational channel parleremo di un fenomeno decisamente eccentrico: la socialdemocrazia, e non una socialdemocrazia qualsiasi, ma proprio del modello socialdemocratico per eccellenza in assoluto: le socialdemocrazie scandinave e della finaccia che hanno fatto tra bolle immobiliari, privatizzazioni e, addirittura, l’adesione alla NATO. Insomma, un po’ la stessa parabola che hanno vissuto in generale tutte le democrazie moderne uscite dalla seconda guerra mondiale, dove il welfare, lo stato sviluppista e le politiche keynesiane avevano garantito per qualche decennio un compromesso virtuoso tra capitale e lavoro, e poi il tutto è stato spazzato via nell’arco di pochi anni da una possente controrivoluzione guidata dalle oligarchie e sostenuta da tutte le principali forze politiche sedicenti democratiche; una parabola che nel caso scandinavo fa particolarmente male proprio perché il modello messo a punto in questi paesi aveva garantito una ricchezza diffusa, un’efficienza e un livello sia di uguaglianza che di reale partecipazione democratica che probabilmente non hanno eguali nella storia dell’umanità.
Com’è possibile che una società così avanzata a un certo punto decida deliberatamente di sfasciare tutto e condannarsi al declino abbracciando il modello distruttivo dell’imperialismo neoliberista? Per provare a capirlo abbiamo intervistato a lungo l’intellettuale italiano che, probabilmente, meglio di chiunque altro ha studiato e compreso quel pezzetto di mondo: si chiama Paolo Borioni ed è professore associato di Storia delle istituzioni e delle dottrine politiche alla Sapienza, e ha un’idea decisamente dirompente. Perché sì, ovviamente anche in Scandinavia le oligarchie hanno reagito all’eccesso di democrazia -denunciato a suo tempo dalla Commissione trilaterale e che metteva definitivamente a rischio l’ordine gerarchico della società con gli stessi strumenti impiegati dalle oligarchie di tutto il Nord globale – ma in una società come quella scandinava, dove il mondo del lavoro – grazie, in particolare, alla forza di organizzazioni sindacali che erano a tutti gli effetti uno Stato dentro lo Stato – aveva conquistato un potere politico senza pari nel mondo occidentale (e probabilmente non solo), per vincere la guerra di classe dall’alto le oligarchie avevano bisogno di un alleato anche nel campo nemico, una fidata quinta colonna, e secondo Paolo Borioni questa fidata quinta colonna ha un nome e cognome piuttosto preciso: la sinistra libertaria post sessantottina che a un certo punto, di fronte al potere crescente di questi corpi intermedi, s’è cominciata a sentire un po’ troppo oppressa e ha cominciato a rivendicare una maggiore libertà individuale: chi sei tu sindacato, o anche Stato, per impormi un unico sistema educativo universale? O per impormi la tua dittatura sanitaria? Perché invece che obbligarci ad andare tutti negli stessi ospedali con gli stessi medici o nelle stesse scuole con gli stessi professori non vi limitate a darci dei bei voucher da spendere dove meglio crediamo? Secondo Borioni la parabola scandinava, insomma, è l’esempio più eclatante di come, sotto le mentite spoglie del primato dei diritti civili e delle libertà individuali, la grande controrivoluzione neoliberale ha fatto breccia anche nel cuore di chi si professava rivoluzionario e l’ha trasformato nell’utile idiota perfetto della guerra di classe condotta dalle oligarchie contro il popolo.
Buona visione.

Se gli ecologisti fanno pagare la transizione ai poveracci per fare dispetto alla Cina

La cinese BYD supera Tesla e diventa il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo. Il sorpasso, riporta il Financial Times, sarebbe avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: 526 mila veicoli venduti contro i 484 mila dell’azienda di Elon Musk. Anche a questo giro il buon vecchio Warren Buffet, che con la sua Berkshire Hathaway è il primo azionista straniero del colosso cinese, c’ha visto giusto, ma soprattutto c’hanno visto giusto i cinesi: BYD, che sta per Build your dreams – costruisci i tuoi sogni – infatti non è un’azienda come tutte le altre; è probabilmente l’esempio più completo di azienda integrata verticalmente al mondo. E’ stata fondata nel 1995 dal chimico Wang Chuanfu, che rispetto a Elon Musk era partito leggermente svantaggiato: invece che essere proprietari di miniere di smeraldi nel feroce regime coloniale della Rhodesia, erano umili contadini della povera provincia dello Anhui; inizialmente produceva batterie per i principali marchi di telefonia mobile giapponesi, coreani ed europei e, a vedere dai risultati, gli riusciva benino: nell’arco di meno di 10 anni era diventato il principale produttore di batterie ricaricabili di ogni genere di tutta la Cina e il quarto al mondo. Nel frattempo, però, contro il parere del suo stesso consiglio di amministrazione, Wang si era comprato anche una piccola azienda un po’ decotta dell’allora ancora inconsistente automotive cinese; aveva costruito una nuova fabbrica da zero. Il suo obiettivo: farsi tutto in casa, e che tutto diventasse rigorosamente elettrico.

La BYD oggi controlla miniere di litio in giro per il mondo, costruisce le sue batterie e anche i suoi chip e sostanzialmente ogni singolo pezzo. E contro i 130 mila scarsi dipendenti di Tesla in giro per il mondo, dà lavoro a quasi 600 mila persone. Poteva succedere soltanto in Cina, probabilmente l’unico paese al mondo a credere davvero che il futuro non potrà che essere elettrico e rinnovabile con caratteristiche cinesi.
Uno dei problemi fondamentali delle auto elettriche, ovviamente, sono le stazioni per ricaricarle: in Italia ce ne sono circa 25 mila; in Cina 2 milioni e mezzo – poco meno del 70% del totale mondiale – e ricaricarle costa circa un terzo che alimentarle a benzina o a gasolio. Risultato: dal 2017 sono stati venduti oltre 18 milioni di veicoli elettrici – circa la metà del mercato mondiale – e oltre 4 volte quello USA. Un’economia di scala che ha permesso il miracolo: in Cina le auto elettriche costano meno di quelle tradizionali, e così si stima che nel 2026 sarà completamente elettrica un’auto nuova ogni due – e senza che nessuno abbia mai fatto mezza campagna per dire agli automobilisti che se il mondo esplode è colpa loro che non si svenano per comprare la stessa macchina di Di Caprio. D’altronde, da un certo punto di vista, sarebbe una discreta presa per il culo: il 60% dell’elettricità che arriva alle colonnine per ricaricare le auto elettriche in Cina, infatti, è prodotta col carbone; tutta la filiera ha un impatto gigantesco, e fino a che le batterie andranno prodotte ex novo, invece che essere più o meno totalmente riciclate, parlare di sostenibilità è un po’ azzardato. La buona notizia, però, è che a tutti questi intoppi una soluzione in realtà c’è; quella cattiva è che per raggiungerla non bastano le chiacchiere: ci vogliono gli investimenti, una quantità spropositata di investimenti, talmente spropositata che pensare che ognuno faccia per se, molto semplicemente è una cazzata e il problema, ovviamente, va ben oltre i veicoli elettrici.
Lo ricorda per l’ennesima volta – in questo bell’articolo pubblicato da Foreign AffairsHenry Sanderson, autore di “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica“: “The problem with de-risking” si intitola; il problema del de-risking, e cioè della politica che vorrebbe ridurre i rapporti commerciali dell’Occidente collettivo con la Cina per evitare di esserne troppo dipendenti e quindi, in soldoni, essere impossibilitati un domani a fargli la guerra. Sanderson ricorda come, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Cina, nell’Occidente collettivo è partita la corsa agli incentivi alle aziende per spingerle a tornare a investire per produrre in casa, ma “Sebbene l’obiettivo di accelerare la produzione di energia pulita sia positivo” sottolinea Sanderson “questa strategia in realtà non è sostenibile”. “Se i governi occidentali iniziassero una guerra totale tra loro per i sussidi” riflette infatti Sanderson “ciò non farebbe altro che spostare gli investimenti verso il miglior offerente”, cioè farebbe svenare i singoli stati in concorrenza tra loro, arricchendo soltanto le oligarchie finanziarie e aumentando esponenzialmente i costi della transizione ecologica stessa che, d’altronde, è esattamente quello che le oligarchie hanno ottenuto in generale in tutti i settori industriali imponendo la libera circolazione dei capitali, con gli stati che regalano alle aziende i soldi delle tasse dei loro cittadini per elemosinare qualche posto di lavoro; solo che, in questo caso, c’è anche l’aggravante che oltre a rimetterci le casse dello stato e il portafoglio di tutti i cittadini, ci rimette anche il pianeta.

Henry Sanderson

Sanderson ricorda come “Quando si tratta di energia pulita, l’Occidente è molto indietro rispetto alla Cina, che è all’avanguardia non solo nella produzione e nella distribuzione, ma anche nell’innovazione”: è l’esito di 50 anni di scelte sbagliate imposte, in buona parte, dalla lobby del fossile. Sanderson ricorda come l’Occidente abbia inventato sostanzialmente tutte le principali tecnologie green disponibili: nel 1954 negli USA i laboratori della Bell inventarono le celle solari in silicio; 15 anni dopo, l’università di Oxford produsse la prima batteria al litio, giusto pochi anni prima che in Danimarca si cominciasse a sviluppare l’industria delle turbine eoliche, tutte tecnologie che negli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio crollò, vennero sostanzialmente abbandonate. A parte in Cina, che il petrolio era costretta a importarlo in un mondo militarmente controllato da altri potenzialmente ostili; e così la Cina ha sempre continuato a investire, e piano piano si è conquistata il dominio incontrastato dell’intera filiera. Sanderson ricorda come la Cina produce oggi poco meno del 70% di tutta la grafite necessaria per le batterie, “elabora oltre il 90% del manganese, sempre per le batterie, produce la maggior parte del polisilicio mondiale per celle solari e produce quasi il 90% dei magneti permanenti in terre rare del mondo” ma soprattutto, investimento dopo investimento, ha creato una capacità produttiva che, molto banalmente, rende impossibile agli altri di competere sui costi. In un mondo normale dove, al di là della retorica green e a trovare il modo per riempire di quattrini i conti in banca delle oligarchie, si punta davvero alla decarbonizzazione, dovremmo esserne felici e, magari, dire anche grazie per aver investito in cose di cui ci sbattevamo allegramente il cazzo e oggi risultano indispensabili.
Ovviamente questo non significa consegnarsi mani e piedi alla Cina: per alcuni prodotti specifici che, magari, sono anche indispensabili per l’industria della difesa – come nel caso di alcune terre rare – è necessario che gli stati si facciano carico dei costi che comporta costruirsi una filiera autonoma e indipendente; per tutto il resto, molto banalmente, dobbiamo fare una scelta: transizione ecologica o guerra ibrida contro la Cina? Tanto più se l’obiettivo della transizione ecologica non deve essere semplice greenwashing, ma un modello di sviluppo realmente sostenibile. Prendiamo ad esempio il litio: per rispettare la tabella di marcia della decarbonizzazione, nell’arco dei prossimi 25 anni il consumo di litio dovrebbe decuplicare. Estrarre dieci volte il litio che estraiamo oggi con le metodologie utilizzate oggi vuol dire devastare in modo irrimediabile porzioni gigantesche di territorio; alternative più sostenibili esistono, ma costano enormemente di più: un costo che, fino a che continuerà a prevalere la competizione tra aziende e tra stati geopoliticamente ostili sulla cooperazione, ovviamente nessuno si accollerà per salvare il culo all’altro.
Chi ci prova non fa una bella fine: ad esempio i verdi tedeschi, che vorrebbero tenere insieme ferocia imperialista, speculazione finanziaria ed ecologismo e far pagare questa equazione irrisolvibile alla gente comune che, quando poi s’incazza, si sente anche dare della troglodita. Davvero strano che poi crollino nei sondaggi. Inspiegabile proprio.
La realtà è che senza pace non c’è giustizia, nemmeno climatica: sarebbe arrivata l’ora che gli ambientalisti se lo mettessero in testa. Aiutiamoli, con un media serio e credibile che, invece che ai suprematisti e agli speculatori, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Baerbock

2024: Come Evitare la Terza Guerra Mondiale e riprenderci i nostri soldi2024: L’ANNO DELLA SVOLTA

Il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e “in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Anche per quest’anno la vecchia riflessione dal carcere del vero padre nobile della patria continuerà ad essere, con ogni probabilità, la descrizione più efficace della complessa e caotica fase di transizione nella quale siamo immersi: dall’Ucraina al Medio Oriente passando per il Sahel e l’Asia Pacifico, e poi ancora per la crisi climatica, l’esplosione del debito, i colli di bottiglia delle supply chain e delle rotte commerciali, l’inesorabile declino dell’Unione Europea – e chi più ne ha più ne metta -, non esiste probabilmente partita di rilevanza globale che si avvii a una risoluzione netta e chiaramente intelligibile. Per dirla con il nostro amico e maestro Pierluigi Fagan, insomma, benvenuti nell’era della complessità dove qualsiasi semplificazione, più che aiutarci a fare un po’ di ordine, rischia inesorabilmente di distorcere la realtà a seconda delle nostre speranze e delle nostre preferenze. Di fronte a un flusso così imponente di eventi e di informazioni difficilmente schematizzabili e molto spesso totalmente contraddittorie, la tentazione potrebbe essere semplicemente quella di limitarsi alla mera contemplazione; tutto sommato, a meno di non essere a libro paga di qualcuno con il portafoglio pieno e un’agenda politica e ideologica precisa, chi te lo fa fare di scervellarti per cercare un ordine dietro tutto quel caos apparente quando, per fare due numeri, ti basterebbe sfruttare sapientemente un po’ di sensazionalismo e di clickbaiting?

Vladimir Il’ič Ul’janov

D’altronde è comunque sempre meglio che lavorare. Il punto, però, è che se c’è una cosa che la modernità ci ha insegnato è che, come riassumeva magistralmente il buon vecchio Vladimir Il’ič Ul’janov “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario” e visto che il vecchio mondo che muore, pur di non mollare la presa, sembra avere tutte le intenzioni di portarci tutti nella bara con lui, di non avere un autentico movimento rivoluzionario in grado di rovesciare il vecchio ordine come un calzino e di contribuire alla creazione di uno nuovo che garantisca la sopravvivenza della nostra specie, molto banalmente, non ce lo possiamo permettere. Ed ecco allora l’impegno che come Ottolina, nel nostro infinitamente piccolo, ci assumiamo solennemente per questo nuovo anno: continuare a provare a raccontarvi il mondo per quello che è invece che per quello che vorrebbero farvi credere che sia i proprietari dei mezzi di produzione del consenso, senza rinunciare nemmeno per un secondo a scervellarci per cercare di trovare un ordine e una logica dietro il caos apparente, e che sia uno splendido anno di conoscenza e di lotta per tutti, perché ogni vera grande rivoluzione, per quanto tragica, è prima di tutto una grandissima festa.
Il nostro breve giro del mondo in una decina abbondante di crisi, ovviamente, non poteva che partire dalla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, una guerra che, come sottolinea anche l’Economist, Israele ormai ha capito essere destinata a durare a lungo e senza avere idea di quale sarà l’esito; certo era prevedibile, ma tutt’altro che scontato. Anzi: la propaganda suprematista ha impiegato decenni e speso montagne di quattrini in una delle più imponenti macchine lobbystiche del pianeta per diffondere la leggenda metropolitana dell’inarrestabile macchina da guerra sionista. Si sono rivelati per il patetico bulletto di periferia che sono: un’efficiente macchina di morte contro donne e bambini, ma totalmente incapace di ottenere un qualche risultato politico e militare concreto. Il bluff dell’unica democrazia del Medio Oriente e della sua superiorità tecnologica non poteva essere svelato in modo più plateale: una patetica copertura buona giusto per i Saviano e Gramellini di turno, sempre felici di poter dissimulare la natura razzista, coloniale e genocida dell’avamposto dell’imperialismo USA dietro a una bella overdose di propaganda woke fatta su misura per i salotti televisivi di Fabio Fazio, i film di Spielberg e le serie Netflix. Lo sterminio indiscriminato della popolazione civile a Gaza e il sostegno incondizionato da parte del giardino ordinato hanno scosso la coscienza intorpidita anche di una bella fetta dei sostenitori della fuffa propagandistica dell’Occidente collettivo: bimbiminkia analfoliberali che avevano aderito entusiasti alla favola del mondo civile riunito come un sol uomo in difesa dei sacri valori della democrazia in Ucraina contro l’invasione barbarica dell’autoritarismo totalitario che arriva da Oriente, di fronte alla ferocia sfacciata del regime clericofascista di Tel Aviv hanno cominciato a nutrire qualche perplessità sulla missione civilizzatrice di Washington; certo è una contraddizione che ancora non si è risolta, e così continuiamo ad assistere allo spettacolo surreale di centinaia di anime belle che alternano un commento a sostegno della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a uno di condanna della stessa identica alleanza che magicamente, pochi chilometri più a sud, invece che difendere la democrazia difende un genocidio senza che gli venga in mente che le due cose probabilmente non sono molto compatibili.
Ovviamente, sperare che a risolvere la contraddizione sia il Giopizzi o l’Ivan Grieco di turno sarebbe velleitario; il punto però è un altro: l’ordine unipolare imposto dall’impero è così antistorico che giorno dopo giorno, per difenderlo, l’impero è costretto sempre di più a mostrare le sue carte e il bluff è talmente palese che magari Giopizzi e Ivan Grieco ancora non se ne accorgono, ma una fetta sempre più consistente di gente normale sì. L’Occidente collettivo spera di poter reagire semplicemente alzando l’asticella della macchina propagandistica, ma anche quello rischia di essere un trucchetto dalle gambe corte: la realtà parallela reinventata continuamente dai mezzi di produzione del consenso è ormai talmente scollegata dalla vita concreta che le persone normali vedono con i propri occhi che, ormai, l’ideologia del mainstream è diventata buona soltanto per farci i meme. Aumentando continuamente il dosaggio, la pillola blu di Matrix fa sempre meno effetto, tanto più se invece che al golden billion – il miliardo dorato del Nord globale – appartiene al resto della popolazione mondiale che è la stragrande maggioranza, a partire dagli oltre 2 miliardi di musulmani sparsi per il pianeta che, di fronte all’umiliazione inflitta a Israele dalla resistenza palestinese a partire dal 7 ottobre, hanno cominciato a realizzare la vera natura dell’imperialismo USA in Medio Oriente e il ruolo nefasto delle petromonarchie collaborazioniste del Golfo e non solo, e da allora si mobilitano senza sosta per chiedere un cambio di passo.
Ovviamente, per annunciare la fine dell’era del divide et impera fomentato dagli USA in Medio Oriente è decisamente ancora prestino, ma la rivoluzione – avviata con la riapertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia, poi consolidata col ritorno di Assad nella Lega Araba dopo 12 anni di esilio e, infine, amplificata a dismisura con l’operazione diluvio di al aqsa e tutto quello che ne è seguito – sembra ormai essere difficilmente reversibile; una rivoluzione che, come in altri contesti che affronteremo più avanti, mette le vecchie classi dirigenti di fronte a un bivio: continuare imperterriti con il vecchio ordine imperiale fino a che la corda non si spezza o scendere a patti con il nuovo ordine multipolare che, tra mille contraddizioni e mille battute di arresto, sembra comunque avanzare in modo inesorabile? Tradotto con nomi e cognomi per quanto riguarda il Medio Oriente: le petromonarchie continueranno a vedere nell’Iran e nell’asse della resistenza il nemico principale contro il quale chiedere la protezione di Washington e di Tel Aviv o, finalmente, si decideranno a contribuire alla creazione di un nuovo sistema di sicurezza regionale più democratico fondato sulla diplomazia, il compromesso e il dialogo? Ovviamente, la risposta dipenderà in buona parte anche da USA e Israele stessi e non solo dalle loro intenzioni, ma anche dalla possibilità concreta che hanno – o meno – ancora di influenzare la politica dell’area; in soldoni: gli USA sono disposti a rinunciare al ruolo – gelosamente e ferocemente custodito per decenni – di unica vera superpotenza dell’area? E se non sono disposti, hanno ancora gli strumenti per perseguire le loro ambizioni egemoniche?
Per quanto riguarda la volontà, ci sono un paio di considerazioni importanti da fare: l’egemonia USA in Medio Oriente ha rappresentato, per decenni – in particolare a partire dagli anni ‘70 – uno degli aspetti fondamentali della politica imperiale USA per almeno due ragioni; la prima è il ruolo fondamentale che l’asse con i sauditi e i petrodollari hanno ricoperto nell’affermazione del dollaro come moneta di riserva globale dopo la fine del gold standard a inizio anni ‘70. La seconda, anche in ordine temporale, è la dipendenza della Cina dal petrolio del Medio Oriente: sostanzialmente, attraverso l’egemonia nell’area, gli USA si sono garantiti il controllo dei rubinetti del bene fondamentale che permetteva alla Cina di diventare una superpotenza industriale. Entrambi questi fattori, però, nel tempo hanno ridotto la loro centralità strategica: da un lato, infatti, il dominio globale del dollaro oggi ha molto più a che vedere con i flussi finanziari che non con l’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento per il commercio globale del petrolio; dall’altro, la dipendenza della Cina dalle fonti fossili del Medio Oriente, per quanto ancora molto consistente, è in declino, sia perché le fonti di approvvigionamento sono più differenziate – a partire dalla Russia -, sia perché il mix energetico sta cambiando, in particolare a favore di rinnovabili e nucleare. Ovviamente con questo nessuno vuole sostenere che non si tratti più di un nodo cruciale, ma più semplicemente che l’egemonia incontrastata in Medio Oriente, in prospettiva, potrebbe non essere più una linea rossa invalicabile, anche perché le linee rosse invalicabili uno poi, realisticamente, deve anche essere in grado di difenderle – cosa che è sempre meno scontata. Lo spostamento dei rapporti di forza nell’area, infatti, realisticamente potrebbe essere invertito esclusivamente con l’annichilimento dell’Iran: fino a che l’Iran sta in piedi e continua ad essere il punto di riferimento per l’asse della resistenza, ti puoi sfogare a sterminare a caso qualche civile, ma le milizie che risorgono dalla cenere sono destinate ad essere sempre più forti e popolari e annichilire l’Iran potrebbe essere leggermente più complicato del previsto.
Ci siamo soffermati a lungo su questa prima tappa del nostro giro del mondo che ci aspetta nel 2024 perché, tutto sommato, lo schema – al netto delle millemila specificità e complessità che vanno sempre approfondite nello specifico – è tendenzialmente sempre quello; sostanzialmente, infatti, più o meno in ogni teatro è: governare il declino relativo e contribuire alla creazione di un un nuovo ordine cercando di stabilire delle linee rosse ragionevoli e compatibili con le legittime e realistiche aspirazioni delle potenze emergenti, o fissare linee rosse irrealistiche e incompatibili con il corso della storia per poi ritrovarsi a raccattare gigantesche figure di merda o, peggio ancora, ricorrendo a qualche democratico sterminio di massa, se non addirittura al confronto nucleare diretto tra grandi potenze? Ecco: questa è un po’ la lente attraverso la quale dovremmo provare a riportare un po’ di ordine dietro al caos apparente di eventi tra loro distinti, un’operazione complicata ma indispensabile e non solo per fare pulizia di tutta la fuffa suprematista della propaganda, ma anche – contemporaneamente – per evitare ogni avventurismo e ogni velleità. Nell’epoca della caccia al click, infatti, vince chi rilancia sempre più in alto fregandosene delle conseguenze. Non è il nostro obiettivo: da un lato siamo critici nei confronti del pacifismo di maniera e del culto astratto della non violenza che, in un mondo dove prevalgono i rapporti di forza e il ricorso sistematico alla violenza da parte dell’impero, equivale spesso semplicemente a una resa incondizionata; dall’altro, però, questa retorica futurista un po’ in stile guerra sola igiene del mondo che fa breccia nell’antimperialismo confuso è da scansare come la peste e non solo perché, ovviamente, pericolosissima ma anche perché spesso totalmente velleitaria, un’altra sfumatura di “estremismo” che è sempre una malattia infantile e controproducente. Un esempio virtuoso di come si possono faticosamente spostare in avanti gli equilibri senza rinunciare all’esercizio della forza, ma senza avventurismi, ci è stato offerto, ad esempio, dai golpe patriottici nel Sahel; in quel caso, il ricorso alla forza si è fondato su un sostegno popolare massiccio e ha saputo fare leva sulle debolezze dell’Occidente collettivo da un lato, e sul sostegno delle potenze emergenti dall’altro – sia di carattere militare che economico. E così i francesi sono stati costretti alla ritirata e il bluff delle minacce dell’ECOWAS è stato smascherato; ora le giunte militari di Niger, Mali e Burkina Faso si sono consolidate, hanno rafforzato la loro collaborazione e si stanno ritagliando faticosamente, giorno dopo giorno, pezzi di sovranità e di indipendenza e senza che gli USA dovessero rinunciare completamente alla loro influenza: semplicemente, hanno accettato un ridimensionamento dell’egemonia dell’Occidente collettivo nell’area in cambio della difesa dei loro interessi più immediati. Certo la transizione è stata agevolata dal fatto che a rimanere fregati, fondamentalmente, sono stati i francesi, e anche dal fatto che l’area non era esattamente in cima alle priorità USA, ma rimane comunque un esempio potenzialmente virtuoso di come si possa arretrare senza per forza subire una disfatta. I cultori della guerra come igiene del mondo probabilmente saranno rimasti un po’ delusi; in realtà, però, potrebbero essere gli unici: la transizione è stata piuttosto pacifica e senza particolari spargimenti di sangue e la presenza di più potenze potrebbe, in realtà, dare vita a una competizione positiva che permette a questi paesi in cerca di sovranità di non consegnarsi mani e piedi a nessuno, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista della sicurezza.
Non vorrei risultare eccessivamente ottimistico, ma un altro bilanciamento di forze potenzialmente positivo o, perlomeno, molto meno negativo di quanto si potesse prevedere fino a qualche tempo fa potrebbe essere anche quello di Taiwan; anche lì, alla base, c’è stata comunque una dimostrazione di forza: la Cina ha fatto capire, senza tanti giri di parole, che Taiwan è una linea rossa invalicabile, e di avere la capacità concreta di riappropriarsi dell’isola qualora la retorica indipendentista e le forniture di armi USA superassero la soglia di sicurezza. E così, dopo la pagliacciata di Nancy Pelosi nell’agosto del 2022, la situazione è gradualmente rientrata; gli è andata leggermente meglio che agli ucraini, così, a occhio: l’esempio più eclatante di cosa comporti ergersi eroicamente a punta di diamante della difesa dell’impero mentre l’impero è in declino. Nessuno potrà mai risarcire quel popolo martoriato per le sofferenze subite per aver prestato il fianco all’hubris del Nord globale. La speranza è che, perlomeno, serva da esempio; a partire dalle Filippine, dove sembra essersi spostato il baricentro della strategia del contenimento contro la Cina nell’Asia Pacifico dopo Taiwan. In quel caso, però, almeno hanno un’attenuante, come d’altronde ce l’aveva anche l’Ucraina: la vicinanza di un paese troppo ingombrante per non tentare di fare leva su un qualche bilanciamento di potenza per limitarne la proiezione egemonica, anche solo potenziale.

Alessandro Volpi

Un’attenuante che invece non ha l’Unione Europea, che si apprestano a confermarsi gli scemi del villaggio globale, anche se non proprio tutti; una minuscola élite economica, infatti, ha trovato il suo bengodi: con la protezione USA, continua a depredare l’intera economia del continente estraendo ricchezza in gran quantità da impiegare nelle bolle speculative USA e, grazie al passaggio attraverso i paradisi fiscali, senza manco pagarci le tasse. Come ricordava ieri il nostro Alessandro Volpi sul suo profilo Facebook, infatti, “secondo gli ultimi dati forniti dalla Paris School of Economics gli italiani più ricchi hanno trasferito nei paradisi fiscali 196,5 miliardi”, ma non solo: sempre Volpi ci ricorda anche come nel 2024 “dopo lunghe trattative internazionali, è finalmente entrata in vigore la Global Minimum Tax, che prevede un’aliquota del 15% sugli utili delle società con fatturato superiore a 750 milioni. Il gettito stimato” continua Volpi “è di 220 miliardi di dollari, che però, per come è costruita l’imposta, finiranno quasi esclusivamente negli Stati Uniti”. Il gettito nel 2025 per l’Italia, invece, sarà di appena 380 milioni.
Nel mondo che cambia, tutti si scervellano per capire come trarre il meglio dai nuovi equilibri tra potenze; noi ci facciamo derubare decine di miliardi ogni anno da una manica di parassiti e ci scanniamo per decidere se è meglio votare Giorgia Meloni o Elly Schlein. Che questo 2024 ci restituisca la capacità di leggere quello che ci succede attorno e la capacità di riappropriarci degli strumenti per rivoltare tutto come un calzino, a partire da un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elly Schlein

COME WASHINGTON E LE OLIGARCHIE HANNO PRIVATIZZATO ANCHE IL NOSTRO LINGUAGGIO

Resilienza, riforma, modernizzazione, Spendig review, governance. Anche nel 2024, nell’occidente collettivo, si continuerà a combattere una guerra invisibile ma decisiva. Il campo di battaglia sono le nostre parole, e l’obiettivo finale è il controllo totale del nostro linguaggio e quindi del nostro pensiero. Come nel romanzo 1984 di Georg Orwell, nel quale un distopico governo totalitario coniava una neolingua che rendeva di fatto impossibile criticare il regime o anche solo formulare idee critiche e non allineate, anche il regime neoliberale è da tempo partito all’assalto del nostro vocabolario per coniarne uno nuovo più funzionale ai propri scopi. La neo-lingua liberista, sotto la sua patina smart e human friendly, ha lo scopo deliberato di mascherare in modo perverso la realtà delle cose e, come scrive Orwell, “di far suonare vere le menzogne e rispettabile l’assassinio”. Anche in Italia, con buona pace della nostra millenaria cultura e tradizione linguistica, molti termini scompaiono per fare posto a una retorica d’accatto infarcita di locuzioni ideologiche e parole anglosassoni, che, come sottolinea il giornalista Luciano Lago, “non hanno apportato niente di nuovo rispetto ai concetti del vecchio vocabolario ma che piuttosto hanno il più delle volte mascherato concetti relativi all’ideologia del mercato caratterizzati da elusione di responsabilità, di limitazione o taglio di diritti, di spese sociali e di compatibilità con il mercato”.
Il nuovo lessico neoliberista ha quindi adottato le stesse tecniche messe in atto dai precedenti regimi totalitari con l’obiettivo di rieducare le masse. Esempi tangibili sono il linguaggio utilizzato in fondamentali progetti politici neoliberali come il Jobs act e il Recovery plan, o ancora, come dimostrato da Marco D’Eramo nel suo libro La guerra Invisibile, il nuovo significato che stanno assumendo parole come “ottimizzazione”, “efficientamento”, “progresso”. Clamoroso in questo senso è il caso di “Riforma”, che per il nostro stato sociale e per gli interessi del 99 per cento è diventato sinonimo di minaccia e maledizione; “riforma delle pensioni” significa lavorare sempre più a lungo per sempre meno contributi; “riforma della scuola” significa assorbimento dell’educazione pubblica nelle logiche del capitale e del mercato privato; “riforma del welfare” significa riduzione delle protezioni sociali; “riforma della sanità” significa tagli pubblici alla sanità pubblica e nuovi incentivi alla sanità privata e “riforme strutturali” significa riadattamento dello stato nazionale democratico alle necessità economiche del neoliberismo.

Ma questa subdola e pervasiva neolingua, che tenta di mascherare l’ ideologia neoliberista e gli interessi delle oligarchie finanziarie, non è che il sintomo terminale della nostra sottomissione culturale e politica nei confronti di queste stesse oligarchie, e della definitiva sottomissione del resto dell’occidente agli Stati Uniti, che attraverso il controllo delle parole mira a governarci senza troppe polemiche e rotture di scatole.

Siamo sicuri di volerglielo lasciar fare?

Come la Germania è diventata l’emissaria di Wall Street – ft S. FassinaFassina provvisorio

L’ennesimo governo di amministratori coloniali, del tutto indistinguibile da quelli che l’hanno preceduto, ha deciso di farci un bellissimo regalo di Natale e coronare così, in modo esemplare, un lungo anno passato a fare per accelerare il declino; l’ok definitivo alla reintroduzione del patto di stabilità riformato a chiacchiere ma del tutto identico a quello vecchio nella sostanza, è l’ennesima prova di coraggio di una maggioranza di governo tutta chiacchiere e distintivo: feroce e determinata contro i più deboli – dai percettori del reddito di cittadinanza ai bambini di Gaza – e docile come una Fornero qualsiasi con i più forti anche quando, tutto sommato, questi forti – da Washington a Bruxelles – così forti non sembrano esserlo ormai nemmeno più di tanto, e chiunque abbia quel minimo di schiena dritta da spingerlo a provare a dire la sua, alla fine si fa beatamente li cazzi sua senza pagare dazio – dall’Ungheria di Orban alla Turchia di Erdogan, passando dall’Arabia di Bin Salman.
Ecco. Tra le altre cose, il 2023 per noi italiani passerà alla storia esattamente per questo: l’anno in cui si ufficializzò il fatto che, rispetto all’Italia, la Turchia, l’Ungheria, l’Arabia Saudita (ma anche il Niger o il Burkina Faso e chi più ne ha più ne metta) tutto sommato sono più indipendenti e sovrani e, quindi, anche democratici. La firma italiana al nuovo patto di stabilità, ovviamente, era ampiamente scontata, tant’è che per scontata l’abbiamo sempre data anche noi di Ottolina e tutti i nostri ospiti, nessuno escluso. Come d’altronde era ampiamente scontata l’altra pagliacciata suprema: la bocciatura del MES che, ovviamente, è del tutto sacrosanta – intendiamoci – ma che, altrettanto ovviamente, di fronte all’enormità del ritorno del patto di stabilità si riduce a poco più di un’arma di distrazione di massa scientificamente preparata dalla propaganda fintamente antisistema dell’alt right che, per mesi e mesi, ha parlato del dito e non della luna (molto banalmente perché è quello il motivo per cui è stata inventata): come dice sempre il Nencio, politicizzare le puttanate e gettare nel dimenticatoio tutto quello che, invece, pesa eccome.
E un bell’aiutino, come sempre, è arrivato dai maestri della svendita della patria all’invasore straniero: gli analfoliberali, che hanno fatto di tutto per trasformare agli occhi dell’opinione pubblica questo governo di patetici chiacchieroni inconcludenti in coraggiosi difensori degli interessi nazionali. L’Italia del 2023 ci lascia così l’immagine di questo potente 4 3 3 di zemaniana memoria, con il trittico d’attacco che vede – appunto – al centro gli attuali amministratori coloniali, e sulle due fasce l’alt right da un lato e gli analfoliberali dall’altro a fornire assist su assist. Una micidiale macchina da gol, solo che invece che mirare alla porta dell’avversario, mirano direttamente alla nostra.
Il livello imbarazzante del dibattito politico, tutto interno a fazioni sovrapponibili del partito unico degli affari e della guerra, rischia di distrarci dalla reale portata di quanto avvenuto in questi ultimi giorni del 2023; il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea è un fatto di portata gigantesca, in grado di spiegarci quanto profondamente siano cambiati i rapporti di forza all’interno dell’Occidente collettivo dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Se la prima ondata di austerity, infatti, era di matrice tedesca e aveva come finalità il consolidamento delle gerarchie all’interno dell’Unione Europea – con la Germania al centro e tutti gli altri intorno che potevano accompagnare solo e fare da sub – fornitori a basso costo per permetterle di continuare a macinare profitti senza mai investire manco mezzo euro – l’austerity che ci aspetta, con il beneplacito dei sovranisti de noantri, è un’austerity nuova di zecca, targata direttamente Wall Street. Obiettivo: obbligare i governi a privatizzare quello che rimane ancora da privatizzare e che, fino a poco tempo fa, rappresentava la caratteristica fondamentale del modello europeo. Se nel mondo anglosassone, infatti, negli ultimi 15 anni è stato definitivamente portato a termine il più grande processo di concentrazione dei capitali nelle mani di una ristrettissima oligarchia mai visto nella storia – a partire dalla triplice dell’asset management composta da BlackRock, Vanguard e State Street – l’Unione Europea aveva bisogno di mettersi in pari rapidamente e, da vera patria dell’ipocrisia qual è, non poteva che farlo reintroducendo la solita vecchia ingegneria istituzionale spacciata come tecnica e che, invece, è pura lotta di classe dall’alto contro il basso; un processo che rende strutturale la sottomissione dell’Europa agli USA non più solo dal punto di vista politico e militare, ma anche economico e finanziario.
Insomma: mentre in tutti gli angoli del mondo le ex colonie alzano la testa e mettono fine al Washington consensus, all’interno dell’Occidente globale le vecchie potenze coloniale vogliono provare l’ebbrezza di trasformarsi definitivamente in protettorati, e utilizzano l’arma dell’austerity per imporci di aderire a quello che Daniela Gabor chiama il Wall Street Consensus e, in tutto questo, l’Italia – grazie alla dimensione complessiva della sua economia e con la scusa del livello del suo debito – diventa la preda per eccellenza, il vero laboratorio della nuova svolta autoritaria e neofeudale del capitalismo occidentale che prova a serrare le fila per opporsi alla storia, a partire dalla svendita di Poste Italiane. Buon Natale […contenuto non disponibile].

Durante tutto questo lunghissimo e intensissimo anno, noi di Ottolina Tv, le decine e decine di volontari che ci gravitano attorno, le centinaia di ospiti che hanno contribuito al nostro lavoro e le centinaia di migliaia di persone che hanno guardato, condiviso, discusso e anche criticato i nostri contenuti, abbiamo lavorato per mettere a punto gli strumenti che ci permettono di capire quali sono gli interessi concreti in ballo e in che direzione vanno al di là delle vaccate della propaganda, delle false illusioni delle anime belle e del vocìo inconcludente dei vomitatori d’odio di professione; anticipando gli eventi e sforzandoci continuamente di inserirli in un contesto più complessivo, abbiamo dimostrato, giorno dopo giorno, fatto dopo fatto, come il grosso degli eventi più significativi che la propaganda ci vorrebbe rivendere come un fiume in piena di elementi tutti scollegati tra loro non sono frutto del caso o dell’arbitrio, ma seguono tutti una logica piuttosto coerente e razionale: il tentativo estremo di una ristrettissima classe sociale di ultraprivilegiati di impedire al resto dell’umanità di riprendere in mano il suo destino e partecipare attivamente alla costruzione di un Mondo Nuovo.
Dal profondo del nostro cuore, un ringraziamento enorme a tutti quelli che hanno reso possibile questa bellissima avventura e un auspicio: che questa avventura non sia che un primissimo passo e che, con l’aiuto di tutti, Ottolina Tv, giorno dopo giorno, riesca davvero a diventare il primo media che dà al 99% una voce abbastanza grossa da farsi sentire in tutti gli angoli del paese, e oltre.

Perché CHANG’AN è stato tra i FILM PIU’ VISTI IN CINA? (e perché a noi non potrebbe mai piacere…)

video a cura di Davide Martinotti

Un film che non ha niente che possa piacerci: nessuna storia d’amore, nessun buono che combatte contro nessun cattivo, nessun mostriciattolo a forma di drago e nessun combattimento esplosivo, niente di tutto questo, ma tre ore dedicate all’ascolto di versi scritti nel 700 dopo cristo. Eppure “30.000 miglia da Chang’an”, film di animazione cinese, in Cina è stato un grande successo Il film parla dei poeti della dinastia Tang, una delle più importanti dinastie della Cina imperiale. Ma che aveva di così speciale la poesia Tang per essere sopravvissuta con questa mole nel corso dei secoli? E cos’ha di così speciale oggi per tenere ancora milioni di cinesi incollati allo schermo a guardare le vicende dei poeti Tang e ad ascoltare i loro versi? Ne parliamo in questo video!

ITALIA IN GUERRA – Perché da Hitler a Netanyahu l’Italia è sempre al fianco del colonialismo più feroce

Conflitto in Medio Oriente”; “Nave italiana in prima linea”.
Oohhh, lo vedi? Dai, dai! Il prurito alle mani che tormentava i sostenitori italiani del genocidio e della pulizia etnica trova finalmente un piccolo sfogo e l’Italia così, dopo la solita inevitabile sfilata di fake news, doppi standard e ipocrisia un tot al chilo, finalmente entra ufficialmente in guerra e si riposiziona nel posto che gli è più congeniale: quello di cane da compagnia del colonialismo più feroce disponibile sul mercato. Da Hitler, a Biden e Netanyahu.

La fregata Virgilio Fasan

Il riferimento, ovviamente, è alla decisione di spedire la nostra fregata lanciamissili Virgilio Fasan nel mar Rosso per contrastare il nodo dell’asse della resistenza che, al momento, sembra più determinato a sostenere la lotta di liberazione del popolo palestinese contro la forza di occupazione e lo sterminio indiscriminato dei bambini arabi: Ansar Allah, i partigiani di Dio dello Yemen. La nave della Marina militare farà parte di una flotta composta da mezzi provenienti da una decina di nazioni, e che avrebbe lo scopo di proteggere le imbarcazioni commerciali di Israele e dei paesi che sostengono il suo genocidio dalle reazioni che hanno scatenato in tutta la regione: “L’Italia” ha dichiarato solennemente il ministro degli affari dell’industria militare Guido Big Jim Crosetto “farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi” dove per terrorismo, ovviamente, si intende banalmente tutto quello che viene fatto per tentare di salvare la vita al futuro terrorista che si nasconde in ogni bambino palestinese, “e tutelare la prosperità del commercio garantendo la libertà di navigazione”. Tradotto: compagno Netanyahu, stermina chi te pare che, alle brutte, le spalle te le copriamo noi (e senza che, ovviamente, la questione fosse portata in Parlamento). D’altronde quando l’ordine arriva dall’alto non è che ti puoi mettere tanto a disquisire con la scusa dei riti della pagliacciata che è diventata la democrazia parlamentare, e qui l’ordine è stato perentorio: una breve comunicazione via teleconferenza da parte del compagno Lloyd Austin, ed ecco fatto.
D’altronde non si è trattato altro che di anticipare un po’ un’operazione già a lungo programmata: la Fasan, infatti, già a inizio estate aveva partecipato a un’esercitazione con le squadre navali USA alla fine della quale aveva ottenuto il patentino che le concede l’onore di fare da bodyguard alle portaerei dell’impero; l’arsenale di bordo, infatti, dovrebbe essere in grado di intercettare tutte le armi a disposizioni della resistenza Houthi, dai droni ai missili balistici, e anche senza l’annuncio di questa missione che, ironicamente, è stata battezzata Prosperity Guardianguardiani della prosperità, alla facciaccia di quegli animali umani che abitano a Gaza – sarebbe comunque partita verso il golfo di Aden il prossimo febbraio. D’altronde – fa sapere il governo – garantire la sicurezza della navigazione è essenziale per gli interessi di tutti voi consumatori: vedersi bloccare il canale di Suez per l’irresponsabilità di questi maledetti terroristi significa aumentare a dismisura i costi della logistica. Un po’ come costa proteggere gli extraprofitti registrati dalle aziende durante questi anni di iperinflazione, che hanno visto i consumatori impoverirsi e le oligarchie arricchirsi a ritmi mai visti; in quel caso, però, contro l’avidità delle oligarchie di fregate ne abbiamo viste pochine, e manco di tasse sugli extraprofitti: quella sulle banche, dopo essere stata annunciata in pompa magna, nel giro di due mesi è sparita del tutto pure dalla legge di bilancio.
A questo giro, però, non si tratta di far pagare i super – ricchi, ma i bambini di Gaza e, oggettivamente, è più semplice: mica c’hanno i giornali, le Tv, le lobby e il potere di far schizzare verso quota 500 lo spread. T’immagini? L’Italia condanna i bambini di Gaza allo sterminio: lo spread impenna.

Mario Sechi

Lo sprezzo di quel che rimane della nostra democrazia – dimostrato aderendo all’operazione militare senza passare dal Parlamento – ha gasato i più appassionati tra i sostenitori del genocidio: Mario Sechi su Libero ci invita a immaginarci “Un governo Conte – Schlein in questo scenario: avremmo già issato la bandiera bianca consegnandoci come nazione neutrale nelle mani dei commissari del popolo di Putin e Xi Jinping”; come ricorda il carabiniere giornalista Claudio Antonelli dalle pagine de La Pravda dell’Alt Right infatti, “in ballo c’è ben più della sicurezza nel mar Rosso: si tratta di contrastare le manovre di Mosca e Pechino lungo la Via della Seta”. Come giustamente sottolinea Antonelli, infatti, “non si può non notare che la potenza militare degli Houthi non giustifica il dispiegamento di un’intera flotta di queste dimensioni”; “le posizioni delle batterie missilistiche” continua Antonelli “sono conosciute al millimetro e gli USA potrebbero intervenire all’istante grazie ai satelliti”. Difficile qui capire quando questo sia un giudizio equilibrato e quanto invece sia l’ennesimo delirio di onnipotenza di un suprematista qualsiasi; di sicuro, però, c’è che pattugliare quell’area è un modo per tenere per le palle i cinesi che, ovviamente, sono i produttori del grosso delle merci che transitano attraverso Suez per arrivare nella sponda settentrionale del Mediterraneo. I primi ad avere interesse che si ristabilisca questa benedetta libertà di navigazione, a regola, dovrebbero essere proprio loro, soprattutto dal momento che anche la strada alternativa è sostanzialmente chiusa per lavori: “Il canale di Panama” ricorda Federico Bosco su Il Foglio, infatti, “è gravemente limitato da una siccità che ne riduce la portata”. Eppure, appunto, i cinesi alla Prosperity Guardian non sono stati chiamati a collaborare. Strano: in passato, nel golfo di Aden, USA e Cina hanno lavorato di comune accordo contro la pirateria e per la sicurezza della navigazione; non è mai stato pubblicizzato più di tanto ma, come scriveva il Council on Foreign Relations già nel 2013, “Lontano dai riflettori, la cooperazione nel Golfo di Aden ha fornito sia alla Cina che agli Stati Uniti un canale vitale per contatti militari sempre più intensi in un contesto di sfiducia prolungata nell’Asia Pacifico. In effetti” continua l’articolo “le due marine hanno recentemente condotto un’esercitazione anti – pirateria congiunta. E In futuro” conclude “la cooperazione non tradizionale in materia di sicurezza nei mari lontani è destinata a svolgere un ruolo ancora più importante nel rafforzare le relazioni militari sino – americane”.
Bei tempi, quando ancora i suprematisti USA pensavano di poter tenere al guinzaglio la Cina e che, magari, a Hu Jintao in Cina sarebbe subentrato un presidente ancora più espressione diretta delle oligarchie cinesi invischiate con la finanza USA e la Cina avrebbe abbandonato – così – la sua strada verso il socialismo con caratteristiche cinesi e abbracciato le magnifiche sorti e progressive del totalitarismo neoliberista. A Hu Jintao, invece, è subentrato Xi Dada, e il socialismo con caratteristiche cinesi, da oggetto di scherno degli intellettuali fintoprogressisti del Nord globale, è diventato elemento di ispirazione per tutti i paesi che tentano di uscire dal dominio coloniale; e anche la lotta alla pirateria, da elemento di collaborazione tra le due superpotenze, si è trasformata nell’ennesima scusa per provare a ostacolare manu militari l’ascesa economica e politica cinese. E così, oggi, i pattugliamenti cinesi nell’area continuano: in questo caso però – sottolinea il Global Times – si tratta di “missioni anti – pirateria autorizzate dalle Nazioni Unite” e che hanno il solo scopo di garantire il transito “degli aiuti umanitari diretti a Gaza”; l’operazione guidata dagli USA, invece, “non ha l’autorizzazione dell’ONU, e rischia solo di intensificare la crisi a Gaza”.
D’altronde, da oltre 2 mesi, l’unico obiettivo degli USA all’ONU è proprio ostacolare con le scuse più ridicole ogni progresso verso un cessate il fuoco ricorrendo al veto e, in queste ore, ancora sta facendo di tutto per far slittare ancora il voto in Consiglio di Sicurezza dopo che l’assemblea generale dell’ONU ha adottato – per la seconda volta consecutiva a larghissima maggioranza – una risoluzione che spinge, appunto, verso il cessate il fuoco. Come ha sottolineato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese martedì scorso “Ci auguriamo che gli Stati Uniti ascoltino la voce della comunità internazionale, smettano di bloccare scientificamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e inizino a svolgere il ruolo dovuto nel promuovere un cessate il fuoco immediato e prevenire una catastrofe umanitaria ancora più grande”.
Come cambia il mondo, eh? Quelli che, per 50 anni, hanno accusato chiunque non si sottomettesse ai suoi interessi di essere stati canaglia – per poi bombardarli – oggi sono considerati dalla comunità internazionale l’unico vero stato canaglia; ed ecco così che, a parte l’Italia e una manciata di altri vassalli, a non aver risposto alla chiamata alle armi USA sarebbero in parecchi: “Secondo i rapporti” riporta sempre il Global Times “Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Oman si sarebbero rifiutati di aderire all’operazione. E’ facile vedere” continua l’articolo “come a partecipare all’operazione siano pochi paesi della regione, che sembrano anzi piuttosto preoccupati che questa operazione possa intensificare il conflitto”. D’altronde sarebbe stato difficile spacciarla come qualcosa di ragionevole alle proprie opinioni pubbliche, tutte indistintamente solidali con la causa palestinese: come ha dichiarato ad Al Mayadeen Mohamed al-Bukahiti, uno dei più autorevoli leader di Ansar Allah, “Lo Yemen attende la creazione della coalizione più sporca della storia per impegnarsi nella battaglia più sacra della storia”, e si chiede “Come verranno percepiti i paesi che si sono affrettati a formare una coalizione internazionale contro lo Yemen per proteggere gli autori del genocidio israeliano?”. Nel frattempo, intanto – riporta sempre Al Mayadeen – la Malesia impone il divieto di attracco alle navi israeliane. “La geopolitica del Medio Oriente” sottolinea Global Times “è estremamente complessa, e ogni piccola azione può avere conseguenze di vasta portata. Nella regione gli Stati Uniti hanno avviato numerose guerre e istigato molte rivolte, ma hanno anche subito molte battute d’arresto, e hanno pagato un prezzo elevato. Il motivo è che gli USA non hanno mai assunto una posizione equa, e non hanno mai preso in considerazione gli interessi concreti dei paesi del Medio Oriente, ma hanno sempre messo avanti a tutto esclusivamente le proprie esigenze egemoniche. Gli USA ora vorrebbero disimpegnarsi, ma mantenendo comunque la loro posizione dominante nella regione. Non si vogliono più impegnare nei conflitti regionali, ma usano ancora la tattica di sostenere l’uno e colpire l’altro per consolidare piccoli circoli di interesse. Un simile approccio però” conclude il Global Times “non farà altro che intensificare, anziché calmare, le turbolenze nella regione”.

Guido “Big Jim” Crosetto

Circa un secolo fa, una classe dirigente di svendipatria di professione ha deciso di ridurre il nostro Paese in cenere per sostenere i deliri suprematisti del colonialismo occidentale più feroce; oggi i loro degni eredi si apprestano a gettare l’intero Paese in un drammatico remake di quell’orrendo filmaccio, campi di concentramento inclusi: l’ultima moda dell’esercito di occupazione a Gaza, infatti è spingere le persone nei campi profughi senza cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari, e poi bombardarli. Sembra sia la soluzione più razionale: coi tempi che corrono, il caro vecchio gas ormai – probabilmente – costerebbe troppo. Io, ecco – anche solo per non essere sottoposti domani a una sacrosanta nuova Norimberga -, direi che forse è il caso di costruirci per lo meno un media dove sia possibile dichiarare che noi, molto educatamente, ci dissociamo e che non saremmo proprio intenzionati a collaborare a questa nuova Shoah alla rovescia (se è permesso, eh?); còmprati oggi la tua prova certificata per il processo contro i collaborazionisti di domani: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Guido Crosetto