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Tag: tecnologia

La guerra tecnologica è un flop: perché gli USA sono costretti a tornare a mediare con Pechino

La guerra tecnologica che gli USA hanno ingaggiato contro la Cina si sta rivelando un flop ancora più grande delle sanzioni e la guerra per procura contro la Russia, ben oltre ogni più pessimistica previsione: secondo un recente rapporto della Banca Federale di New York, se “i controlli sulle esportazioni per negare alla Cina l’accesso alle tecnologie strategiche” effettivamente ha comportato una fuga dai rapporti con la Cina delle aziende USA, allo stesso tempo però non si è verificato nessun fenomeno consistente di “reshoring o di friend shoring”; il risultato quindi, in soldoni, è stato molto banalmente che “I fornitori americani interessati hanno registrato in media 857 milioni di perdite in termini di capitalizzazione, con perdite totali di tutti i fornitori di 130 miliardi di dollari”. Oltre che alla capitalizzazione, le perdite sono sensibili anche in termini “di ricavi, redditività” oltre che “un calo significativo dell’occupazione” e non è che succede perché investono meno, eh? Anzi: gli investimenti corrono (tanto il grosso viene rimborsato come credito fiscale con soldi pubblici), solo che, con sempre meno rapporti con la Cina e nessuno che è in grado di sostituirla, i soldi investiti rendono decisamente meno. Insomma: per far dispetto alla moglie gli statunitensi si stanno allegramente martellando gli zebedei e la moglie, intanto, ha trovato nuove fonti di piacere; mentre le aziende USA, infatti, perdono un sacco di quattrini “Le aziende non statunitensi che attualmente forniscono beni alle aziende cinesi prese di mira dalle sanzioni sperimentano un aumento dei ricavi e della redditività consistenti” e la stragrande maggioranza di queste aziende non statunitensi sono – ovviamente – proprio cinesi. Insomma: un successone, come dimostra in maniera plateale il caso Huawei; Huawei è tornata a ruggire” titolava venerdì Il Giornanale. “Due anni fa era a un passo dal fallimento” ricorda l’articolo; “Ora il fatturato vola grazie agli smartphone che divorano le vendite cinesi di Apple e l’utile balza a 7 miliardi di euro”. E Huawei è solo la punta dell’iceberg: come scrive Asia Nikkei, ad esempio, “Per il produttore cinese di cavi sottomarini Wuhan FiberHome International Technologies, essere banditi dal governo degli Stati Uniti non è nulla di cui preoccuparsi. In effetti, è stato positivo per gli affari”; per reagire alle sanzioni infatti, sottolinea ancora l’articolo, “Pechino ha iniziato a impegnarsi per diventare autosufficiente nella tecnologia dei cavi sottomarini, aumentando così a dismisura gli ordini nei confronti di produttori nazionali come FiberHome”.

Xi Jinping

Ciononostante, gli USA non sembrano avere strategie alternative e continuano a rilanciare con la stessa moneta; il problema è che, come ampiamente prevedibile, la guerra per procura in Ucraina è un disastro ed è in buona parte un disastro perché le sanzioni contro la Russia non funzionano; e le sanzioni contro la Russia non funzionano perché, in qualche misura, il mondo è già multipolare e – a parte gli alleati vassalli più stretti – di quello che decidono a Washington ormai in buona parte del mondo, molto banalmente, non gliene frega una seganiente, ben oltre quanto si immaginassero tutti i media mainstream. Dopo 2 anni di fallimento totale delle sanzioni, infatti, a inizio 2024, quando gli USA hanno introdotto nuove sanzioni che – sulla carta – dovrebbero essere molto più restrittive, per settimane sui giornaloni di quelli studiati (come abbiamo riportato decine di volte su Ottolina Tv) non si faceva che annunciare l’inevitabile prossima resa delle aziende cinesi, che non avevano nessuna intenzione di mettere a repentaglio il loro business per salvare il culo ai russi; purtroppo per loro però, esattamente come nei due anni precedenti, questa profezia s’è rivelata totalmente infondata e i rapporti commerciali tra Russia e Cina sono continuati a crescere, e oggi vengono effettuati per il 90% direttamente in rubli o yuan. Ecco allora che gli USA ricorrono a una strategia innovativa e vincente: altre sanzioni; recentemente gli USA hanno allungato la blacklist delle aziende appestate di oltre 400 nuovi nomi e i cinesi, dopo i russi, fanno ovviamente la parte del leone. Un bel po’ di aziende – a partire dai produttori californiani di macchinari per la produzione di chip come Applied Materials e LAM – si sono leggerissimamente risentite: “Chiediamo di sospendere ulteriori controlli unilaterali sulle esportazioni fino a quando non si sarà adeguatamente provato che tali controlli non danneggeranno la competitività degli Stati Uniti nei semiconduttori avanzati e nelle apparecchiature per la produzione di semiconduttori” hanno mandato a dire a Rimbambiden tramite i parlamentari democratici californiani. E il crollo dei volumi d’affari in quello che era, fino a poco tempo fa, in assoluto il principale mercato per tutti questi produttori è solo una parte del problema; l’altra è che, a un certo punto, la Cina ha cominciato a reagire e ha risposto a controlli e limitazioni con altri controlli e limitazioni. E siccome, tutto sommato, l’economia USA dipende da quella cinese molto di più di quanto quella cinese dipenda da quella USA, questo tiro alla fune potrebbe rivelarsi essere una strategia non esattamente vincente. In principio era stato il turno del gallio e del germanio e, cioè, due materie prime fondamentali proprio per l’industria dei semiconduttori; a luglio del 2023 la Cina aveva introdotto alcune restrizioni e i prezzi erano esplosi, arrecando un danno considerevole proprio ai produttori USA e dei suoi alleati. A ottobre di quest’anno la Cina poi è tornata a rilasciare un po’ di licenze per l’esportazione, ma i prezzi sono rimasti elevati : come ricorda sempre Asia Nikkei “Martedì scorso il prezzo di riferimento per il gallio destinato ai mercati occidentali era di 525 $ al chilogrammo, in aumento dell’86% rispetto alla fine di giugno 2023” ; il punto è che i produttori stanno facendo scorte perché hanno capito che la Cina ha il potere di governare il mercato come più l’aggrada e temono che – con gli USA che continuano come degli automi a ricorrere alle sanzioni nonostante gli effetti nefasti – la reazione cinese più prima che poi è destinata a rifarsi sentire.
Per provare a calmare un po’ le acque, dopo 8 anni di assenza l’altra settimana un consigliere per la sicurezza nazionale USA è tornato a Pechino; durante gli incontri che Jake Sullivan ha tenuto col ministro degli esteri Wang Yi prima e con Xi Jinping poi, ovviamente la guerra delle sanzioni ha ricoperto un ruolo di primo piano. La formuletta di Sullivan è sempre la solita: le nostre sanzioni hanno come unico obiettivo quello di evitare che nostra tecnologia favorisca il rafforzamento militare di altri; non abbiamo intenzione di colpire l’economia cinese, ma solo di garantire la sicurezza USA. La risposta cinese è chiara: come scrive il Global Times infatti, “Non è un segreto che anche il germanio e il gallio possono essere utilizzati per componenti di uso militare” e quindi, se continuate a farci la guerra tecnologica con la scusa della sicurezza nazionale, abbiamo già la giustificazione pronta per reagire come si deve. Il problema di fondo è che, come sottolineava qualche mese fa un rapporto dell’azienda di software per la difesa Govini, gli USA si riempiono la bocca di decoupling e derisking, ma poi sono totalmente dipendenti dalle forniture cinesi anche per l’industria militare stessa: “Innanzitutto”, riassumeva Forbes commentando l’articolo, “oltre il 40% dei semiconduttori che sostengono i sistemi d’arma del Dipartimento della Difesa e le infrastrutture associate provengono ora dalla Cina. In secondo luogo, dal 2005 al 2020, il numero di fornitori cinesi nella catena di fornitura dell’industria della difesa statunitense è quadruplicato. E in terzo luogo, tra il 2014 e il 2022, la dipendenza americana dall’elettronica cinese è aumentata del 600%”. La guerra degli USA alla Cina, necessariamente, si fonda sulla proiezione nel mare: secondo Govini, per fare un esempio, le portaerei della classe Ford hanno a bordo oltre 6000 componenti cinesi. Ci siamo scervellati per mesi su come le portaerei fossero ormai vulnerabili di fronte all’arsenale di missili ipersonico cinese; in realtà, per affondarle non avrebbe bisogno di sparare nemmeno mezzo colpo: per poter sfruttare al meglio il suo incontrastato potere sul mercato delle terre rare (che sono un po’ il petrolio cinese), a fine giugno la Cina ha emanato una nuova legge che rafforza il monopolio dello Stato. “Nessuna organizzazione o individuo può invadere o distruggere le risorse di terre rare” recita il testo; la gestione delle risorse di terre rare “dovrà attuare le linee, i principi, le politiche, le decisioni e gli accordi del Partito [Comunista cinese] e dello Stato … e seguire i principi della pianificazione generale, garantendo sicurezza, innovazione scientifica e tecnologica e sviluppo verde” conclude. Mentre per ora su gallio e germanio (dei quali la Cina controlla oltre il 90% della produzione) Pechino ha deciso di allentare un attimo i cordoni, nelle ultime settimane a far parlare di se è stato l’antimonio, un minerale utilizzato principalmente come ritardante di fiamma nei veicoli e nell’elettronica: nonostante, in questo caso, la Cina controlli un po’ meno del 50% del mercato globale, l’annuncio delle restrizioni ha fatto lievitare il prezzo del 5% in 24 ore, portandolo a 25 mila dollari a tonnellata – e cioè più del doppio del prezzo registrato ancora a dicembre. Ovviamente, per tutti questi materiali, gli USA e anche gli alleati vassalli da un po’ di tempo a questa parte stanno cercando affannosamente di recuperare il tempo perduto, ma potrebbe essere più complicato del previsto: “Nuove catene di approvvigionamento minerario” scrive sempre Forbes “non sono solo una questione di aumento dell’estrazione mineraria; richiedono un intero ecosistema di sistemi di raffinazione, lavorazione e produzione, tutti costosi e che richiedono molti anni per essere costruiti”.
E le terre rare non sono l’unica materia prima che rischia di farci perdere la competizione con la Cina: l’allarme più grosso, infatti, potrebbe riguardare la conoscenza: a lanciarlo è, dalle pagine di Foreign Affairs, Amy Zegart, professoressa a Stanford e voce autorevole dell’Hoover Institution diretto da Condoleeza Rice; “Il potere non è più quello di una volta” riflette, e “i Paesi traggono sempre più potere dalle risorse immateriali”, ma “Secondo il Program for International Student Assessment, che valuta i quindicenni di tutto il mondo, nel 2022 gli Stati Uniti si classificavano al 34° posto in termini di competenza media in matematica, dietro a Slovenia e Vietnam”. “Più di un terzo degli studenti statunitensi” continua “ha ottenuto punteggi inferiori al livello di competenza matematica di base, il che significa che non possono confrontare le distanze tra due percorsi o convertire i prezzi in valute diverse”; d’altronde, essendo il paese che per primo – insieme al Regno Unito – ha abbracciato le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista, c’era da aspettarselo. Fino ad oggi, comunque, gli USA hanno rimediato a questa lacuna strutturale (che, per essere invertita, richiederebbe di trasformare profondamente l’intera società statunitense) con il drenaggio dei cervelli: significa che i Paesi civili del mondo investono una marea di risorse per la formazione di base dei loro cittadini e poi i pezzi migliori se li prendono gratis gli USA grazie ai colossi della formazione universitaria privata; ecco così che, nel 2022, solo il 32% dei dottorati in informatica erano cittadini USA. “Il primato degli Stati Uniti nell’attrarre talenti da tutto il mondo” sottolinea la Zegart “è un vantaggio enorme. Quasi il 45% di tutte le aziende Fortune 500 nel 2020, tra cui Alphabet, SpaceX e il gigante dei chip NVIDIA, sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione. E circa il 40% degli americani premiati con il premio Nobel in campo scientifico dal 2000 sono nati all’estero”. Insomma: un’altra forma di neocolonialismo bell’e buona che, però, comincia a scricchiolare; le politiche restrittive sull’immigrazione – che tanto peso hanno nel successo politico di Trump – stanno demolendo questo meccanismo dall’interno e la concorrenza si comincia a sentire. Nel 2022, per la prima volta, a conquistare il gradino più alto della classifica della produzione scientifica è stata la Cina; a penalizzare gli USA è anche il fatto che sì, in termini assoluti si continua a investire più che altrove in ricerca e sviluppo, ma il grosso di quell’investimento è in mano ai privati che, invece che fare ricerca di base e quindi porre i fondamenti per le grandi innovazioni del futuro, si limitano a ricercare quello che gli può fare aumentare i profitti nel trimestre successivo o – ancora meglio – l’andamento in borsa. Ecco, così, che i finanziamenti federali complessivi per la ricerca (in percentuale del PIL) negli USA sono diminuiti dal picco dell’1,9% nel 1964 ad appena lo 0,7% nel 2020, mentre in Cina superano l’1,3%.
Insomma: dalla loro guerra tecnologica contro la Cina gli USA, ad oggi, non sembrano aver ottenuto neanche lontanamente i risultati sperati e in futuro potrebbe andare molto, ma molto peggio (e forse non siamo i soli ad essercene accorti): tra gli schiaffi in Ucraina e i pessimi risultati della guerra tecnologica contro la Cina, che questa prima fase della grande guerra contro il resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare sia stata un fallimento è ormai opinione piuttosto diffusa anche tra gli strati profondi del potere statunitense; d’altronde, il benservito a Biden deriva anche da qua. Se non si può ancora parlare di una vera e propria ritirata strategica, perlomeno di un piccolo arretramento per provare a riorganizzare le fila sicuramente sì; e la sfida tra la Harris e Trump fondamentalmente è una sfida per decidere come debba avvenire questa riorganizzazione e a quali interessi specifici debba rispondere. Ovviamente però, dal momento che siamo in campagna elettorale, distinguere la fuffa dalle cose concrete è tutt’altro che semplice: come è ben noto, Trump si sta giocando la carta dell’isolazionismo, come se l’isolazionismo fosse un’opzione realistica per un impero globale che dipende per almeno due terzi della sua ricchezza dal saccheggio sistematico del resto del pianeta. La retorica di Trump è piuttosto chiara: meno inutili guerre guerreggiate e più guerra economica alla Cina; durante la sua prima amministrazione, la media dei dazi sui prodotti cinesi passò dal 3% al 19%, un aumento che comportò una bolletta per le tasche degli statunitensi pari allo 0,3% del PIL e fu comunque sufficiente a fare imbufalire parecchi settori dell’economia americana – a partire dagli agricoltori. Ora la proposta di Trump è aumentare quella soglia dal 19 al 50%, che comporterebbe una nuova bolletta che il Peterson Institute quantifica attorno al 2% del PIL; probabile che non tutti la vedano proprio di buonissimo occhio. I democratici, allora, hanno risposto con la nomina a candidato per la vicepresidenza di Timothy Walz: dal 2019 è il governatore del Minnesota, che è uno degli Stati USA dove la lobby degli agricoltori che si sono opposti alla politica dei dazi di Trump è più forte; Walz è un profondo conoscitore della Cina, dove si è recato la bellezza di 30 volte. E’ anche un critico feroce della Cina per tutto quello che riguarda la retorica sui diritti umani, ma sul versante dei rapporti commerciali ha la reputazione, appunto, di essere decisamente più pragmatico: è quello che si augura ad esempio, su Project Syndicate, Stephen Roach, l’ex presidente di Morgan Stanley Asia noto tra l’altro per un importante testo del 2014 dal titolo La co-dipendenza di America e Cina dove, appunto, perorava la causa di una governance economica più condivisa tra le due grandi potenze. Potrebbe essere Kamala Harris la prossima Richard Nixon? è il titolo dell’articolo: il riferimento, ovviamente, è alla grande svolta di Nixon del 1972 che aprì la strada a un nuovo ciclo di relazioni costruttive tra USA e Repubblica Popolare Cinese; “Nonostante Walz sia sempre stato un falco sulle questioni inerenti i diritti umani” sottolinea appunto Roach “ha anche sottolineato l’importanza di una relazione sostenibile tra Stati Uniti e Cina, sostenendo che il dialogo è essenziale e deve avvenire assolutamente. In altre parole” si augura Roach “porterebbe un pragmatismo che manca gravemente nella posizione sempre più sinofobica dell’America nei confronti della Cina”. Ovviamente il parallelo con Nixon è decisamente fuori luogo: allora la Cina rappresentava un’opportunità straordinaria per il grande capitale USA in cerca del posto dove delocalizzare la produzione per potersi dedicare a tempo pieno alla speculazione finanziaria e vincere a tavolino una lotta di classe che, con la complicità del disastro in Vietnam, stava diventando insostenibile.
Il punto qui, però, è che non c’è bisogno di essere democratici o dalla parte del 99%, che sono posizioni che – per definizione – chi guida la nazione leader dell’imperialismo non può abbracciare, sia che ricorra alla retorica demagogica – populista dell’alt right o che ricorra a quella globalista e dirittumanista della sinistra ZTL; visti i risultati disastrosi ottenuti con la strategia della guerra totale fino ad oggi, per fare qualche passo in avanti basterebbe qualcuno con un minimo di senso della realtà: che la realtà si stia cominciando a imporre anche nelle menti perverse di almeno un pezzo di classe dirigente occidentale? Ovviamente non è il caso di farci illusioni: la violenza indiscriminata è una caratteristica fondativa di ogni imperialismo – e quello distopico USA non fa certo eccezione. Le contraddizioni e i rapporti di forza, però, pesano e oggi non sono a favore di Washington; gli unici che non se ne accorgono sono i media mainstream e i pennivendoli che ci lavorano. Abbiamo bisogno di una vera alternativa; aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Il tramonto dell’imperialismo USA sarà la tomba del capitalismo?

Il mondo è già multipolare ed è, sempre più chiaramente, troppo vasto e complesso per la sete di egemonia dell’impero e gli unici che sembrano non averlo capito sono le classi dirigenti degli alleati di Washington – dall’Europa al Giappone – e di ogni colore politico, che si comportano sempre di più come cortigiani dissoluti e privi di dignità alla disperata ricerca delle ultime botte di vita e di lussuria prima di ritrovarsi, inevitabilmente, ad assistere alla decapitazione dell’imperatore al quale hanno giurato eterna fedeltà. Gli analisti di geopolitica organici alla propaganda suprematista finanziata dalle oligarchie rovesciano la realtà e a suon di fake news e di doppi standard e ci raccontano un universo parallelo, ma – purtroppo per loro – nonostante la potenza di fuoco della macchina propagandistica; e anche se negli ultimi 40 anni hanno impiegato ogni mezzo necessario per trasformarci tutti in una gigantesca massa di rincoglioniti, la verità ha la testa dura e venire sistematicamente smentiti dai fatti ne sta indebolendo, giorno dopo giorno, l’egemonia.
Gli analisti geopolitici un pochino più lucidi e indipendenti, invece, quelli che hanno un minimo di competenza e che hanno a cuore anche la loro credibilità, tentano di evitare di accumulare una gigantesca montagna di figure di merda e, di fronte a dei dati oggettivi e incontrovertibili, cercano di aggiustare il tiro, anche se quello che emerge non è esattamente in linea con gli interessi delle oligarchie dalle quali, comunque, dipendono; in entrambi i casi, però, manca completamente la capacità (e forse anche la volontà) di andare al nocciolo della questione e di chiamare le cose col loro nome e il dibattito, fondamentalmente, verte sulle scelte politiche effettuate, di volta in volta, da una forza politica piuttosto che un’altra. Le guerre – fredde o calde – e i loro esiti diventano così frutto del caso e dell’arbitrio, e il mondo potrebbe essere completamente diverso da quello che abbiamo di fronte se solo il leader di turno avesse letto il libro o il rapporto giusto o avesse ingaggiato, nella sua ristretta cerchia di consiglieri, un analista piuttosto che un altro.
Noi di Ottolina Tv abbiamo un’idea leggermente diversa; saremo eccentrici, ma siamo convinti che la storia non la fanno il gossip e la psicologia da bar, ma le strutture profonde che regolano il vivere comune, a partire dalla principale delle attività umane: l’attività economica e, da questo punto di vista, il declino dell’impero e la decadenza arraffona dei cortigiani non sono scherzi del libero arbitrio, ma sono conseguenza diretta della divisione del mondo in classi sociali e dell’eterna lotta tra loro. E quello a cui stiamo assistendo non è il declino di un impero al quale, eventualmente, se ne sostituirà un altro tutto sommato identico; quello a cui stiamo assistendo è la crisi terminale dell’imperialismo, che ricorda da vicino il termine impero e, per gli analisti amici delle oligarchie, probabilmente è del tutto sovrapponibile, ma non lo è affatto. L’imperialismo, infatti, è la forma concreta e storicamente determinata che ha assunto il capitalismo quando ha cercato di rinviare l’inesorabile collasso dovuto alle sue dinamiche intrinseche, sostituendo alle leggende metropolitane della mano invisibile e della concorrenza la creazione dei monopoli e il ricorso sistematico alla forza bruta per imporne gli interessi su scala globale, a discapito di quello delle masse popolari di tutto il pianeta, un ordine globale fondato sulla rapina e sulla violenza che, purtroppo per lui e le sue groupies, però non si limita esclusivamente a distruggere il pianeta e la comunità umana (che è qualcosa di deplorevole, ma che non significa necessariamente condannarsi da soli alla sconfitta) ma, appunto – come annunciava profeticamente, ormai oltre un secolo fa, un certo Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin – fornisce alle forze sociali, che hanno tutto l’interesse a rovesciarlo direttamente, la corda con la quale lo impiccheranno.

Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin

E gli ultimi avvenimenti, da questo punto di vista, rappresentano una serie infinita di veri e propri esempi da manuale esattamente di questa dinamica suicida e autodistruttrice, sia dal punto di vista economico che da quello più prettamente geopolitico; mano a mano che il declino dell’impero si accentua, di pari passo aumenta la sua aggressività sia militare che economica che, paradossalmente, non sembra ottenere altro che accelerare ulteriormente il suo declino e rafforzare i suoi avversari. Ma prima di addentrarci nei dettagli tecnici su come è fatto questo cappio costruito con la corda che l’imperialismo sta fornendo ai suoi avversari, ricordati di mettere un like a questo video per permetterci di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: un piccolo gesto che a voi non costa niente, ma che per noi cambia molto e ci permette di provare a costruire un media veramente nuovo che, invece che parare il culo all’imperialismo in declino, contribuisca – giorno dopo giorno – a fornire gli strumenti necessari ai subalterni per bastonare il cane che affoga e liberarci, finalmente, delle nostre catene.
La svolta degli aiuti americani titolava ieri sul Corriere della serva Paolo Mieli: “Fortunatamente per i repubblicani statunitensi, e per tutti noi” sottolinea Mieli, Mike Johnson, “il cinquantaduenne legale di Donald Trump nei processi di impeachment del ‘19 e del ‘21, ultras cattolico, ostile al diritto di aborto e alle unione gay” ha stupito tutti, “si è messo in gioco” ed ha deciso di “tessere una tela tra democratici e repubblicani a vantaggio di Volodomyr Zelenski”; “Sto cercando di fare la cosa giusta” aveva affermato nei giorni scorsi Johnson per provare a giustificare il suo repentino cambio di rotta. “Sono convinto del fatto che Xi, Putin e l’Iran” ha dichiarato “costituiscano davvero l’asse del Male, e credo che si stiano coordinando. E credo che Putin, se glielo permettiamo, finita questa partita andrà sicuramente oltre, e che dopo l’ucraina verranno i paesi del Baltico, e anche la Polonia”. Mieli, che nella sua lunga e intensa vita è partito dalla militanza marxista – leninista nella sinistra extraparlamentare di Potere Operaio (simpatie per la lotta armata comprese) al comitato esecutivo dell’Aspen Institute, di giravolte se ne intende – e anche di artifici retorici per ammantarle di principi nobili; in questo caso, la giravolta opportunista di Johnson, tramite la sua penna sbarazzina, diventa la “sorpresa di un’autentica democrazia, come è, ancorché esposta a numerose ed evidenti insidie, quella degli Stati Uniti”: un discorso, dal punto di vista di una delle penne italiane in assoluto più amate dalle oligarchie, del tutto coerente. Per Paolo Mieli, come per tutta la propaganda neoliberista, democrazia – infatti – è sinonimo di potere politico saldamente in mano alle oligarchie, con la politica che deriva la sua legittimità dalla loro benedizione, invece che dal consenso popolare; e, in questo senso, gli Stati Uniti sono effettivamente ancora una democrazia, anche se cominciano ad arrivare segnali di lotta politica da parte dei subalterni – dalle mobilitazioni contro il genocidio alle battaglie sindacali – e la giravolta di Johnson, che ha rinnegato il suo mandato democratico proprio su pressione del partito unico della guerra e degli affari, è sicuramente una manifestazione di questo rapporto gerarchico, anche se tutt’altro che sorprendente.
Come sosteniamo da sempre, infatti, intorno all’approvazione degli aiuti s’è scatenata una negoziazione feroce da parte dei repubblicani per strappare qualche condizione di favore sia per gli affari personali dei loro sponsor, sia per il consenso (come nel caso della partita della lotta all’immigrazione), ma di fronte al fatto che gli aiuti diventavano sempre più indispensabili per evitare di concedere alla Russia una vittoria totale sul campo e il crollo definitivo di tutto il fronte, non ci sarebbe stata considerazione tattica possibile: l’impero sa esattamente come proteggere i suoi interessi vitali e non c’è incidente di percorso possibile che possa alterare radicalmente questo assunto; ciononostante, ce ne sono molti che lo possono alterare progressivamente. E prendere per due anni, giorno dopo giorno, una cespugliata di schiaffi nella guerra per procura contro la Russia è sicuramente uno di questi. Il pacchetto di aiuti in questione, infatti, sancisce definitivamente il gigantesco spostamento dei rapporti di forza determinato dal campo di battaglia; l’offensiva ucraina non è proprio più nemmeno un’ipotesi remota: le armi previste hanno esclusivamente carattere difensivo. Si tratta, molto banalmente, di ridare all’Ucraina i mezzi per tentare di evitare il totale controllo dello spazio aereo da parte russa e ostacolare così un’avanzata che, per quanto lenta, al momento sembra inesorabile. Come sottolinea il buon Andrew Korybko sul suo profilo Substack “Il tanto atteso pacchetto di aiuti USA all’Ucraina potrebbero impedirne il collasso, ma non respingeranno la Russia”; una condizione essenziale, sottolinea lo stesso Mieli, per provare a lavorare a un accordo tra – come li chiama lui – aggressore e aggredito e, cioè, esattamente quell’accordo che era possibile già nella primavera del ‘22, solo con qualche centinaio di migliaia di morti in più, un’economia europea completamente devastata e rapporti di forza molto più favorevoli alla Russia.
Lo spostamento dei rapporti di forza è altrettanto evidente in Medio Oriente, soprattutto dopo l’operazione True Promise da parte dell’Iran due sabati fa, all’insegna – come sottolinea The Cradle – della “precisione anziché della potenza” e, ancora di più, all’assenza di una risposta proporzionale da parte di Israele; un cambiamento radicale nella bilancia di potenza di tutta la regione dove, fino a due settimane fa, era del tutto impensabile poter attaccare direttamente Israele senza subire ritorsioni di diversi ordini di grandezza più devastanti. Una vera e propria rivoluzione resa possibile da diversi fattori; uno squisitamente militare: lo sviluppo tecnologico ha ridotto drasticamente il vantaggio che deriva da una sproporzione vistosa nei rispettivi budget militari. Con un budget limitatissimo, l’Iran, infatti, grazie all’impiego di droni low budget e di missili obsoleti (come li definisce lo stesso The Cradle) è riuscito facilmente a saturare la costosissima difesa aerea dell’alleanza messa in piedi in fretta e furia dagli USA a sostegno dello sterminio dei bambini palestinesi, permettendo così all’Iran di colpire in modo più o meno simbolico tutti gli obiettivi militari che aveva individuato e, cioè, le tre installazioni militari che avevano contribuito all’attacco criminale di Israele al consolato iraniano di Damasco; se vogliamo raccontarcela romanticamente è una classica vittoria di Davide contro Golia. Se, invece, abbiamo un bidone dell’immondizia al posto del cuore, si tratta della manifestazione di un’altra debolezza strutturale dell’imperialismo: ostaggio delle sue oligarchie, il sistema imperialista – infatti – vede il grosso di quello che spende in armamenti trasformarsi magicamente in extraprofitti per gli azionisti del comparto militare – industriale, che hanno imposto di dirottare il grosso della spesa in sedicenti sofisticatissimi sistemi d’arma che costano ordini di grandezza in più per ogni nuova generazione che arriva e che, alla prova dei fatti, possono essere agevolmente fottuti con qualche ferrovecchio.
Oltre al piano prettamente militare, però, l’imponente cambio della bilancia di potenze in Medio Oriente è anche il frutto di alcuni aspetti ancora più strutturali: il primo riguarda il difficile rapporto tra il centro imperialistico e i suoi avamposti regionali; la fase suprema dell’imperialismo prevede, infatti, il dominio totale del centro su tutto il pianeta, un pianeta che però, a causa dello sviluppo di molte periferie che esso stesso ha determinato a suon di globalizzazione e di delocalizzazioni, è sempre più grande e sempre più complesso. Per esercitare questo dominio, allora, diventano sempre più importanti – appunto – gli avamposti regionali, come è il caso di Israele nel Medio Oriente: in virtù del ruolo sempre più vitale che ricoprono all’interno del sistema imperialistico, questi avamposti acquisiscono, però, sempre maggiore potere, fino ad essere in grado di imporre scelte strategiche almeno in parte in contraddizione con il disegno strategico complessivo del centro imperialistico; che è proprio il caso di Israele, dove, sfortunatamente per gli USA, questo potere crescente si è ritrovato ad essere fortemente influenzato da delle fazioni di fondamentalisti guidati più dal fanatismo che dallo spietato calcolo razionale utilitaristico.
Completamente avulsi da una valutazione realistica dei rapporti di forza concreti, questi millenaristi invasati hanno condotto gli USA in una specie vicolo cieco, a partire dai rapporti con le petromonarchie del Golfo; nonostante le petromonarchie siano terrorizzate dal rafforzamento dell’egemonia regionale dell’Iran e delle forze popolari e antimperialiste dell’asse della resistenza, gli eccessi dell’imperialismo in declino le hanno spinte sempre di più alla ricerca di un difficile compromesso con gli avversari regionali come l’alternativa più realistica e razionale a un’egemonia USA sempre più compromessa e insostenibile. A spingere in questa direzione c’aveva già pensato l’irruzione della Cina come principale partner economico dell’area; un altro aiutino era poi arrivato dalla fine del mito dell’invincibilità dell’apparato militare USA sconfitto in Siria, incapace di permettere ai sauditi di chiudere a loro vantaggio la lunga battaglia per il controllo dello Yemen e, infine, pesantemente ridimensionato in Ucraina. Il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini palestinesi, che ha dimostrato l’incapacità degli USA di esercitare la loro egemonia su Israele, potrebbe essere la goccia che fa definitivamente traboccare il vaso: l’evidente precarietà di questo equilibrio è tra i fattori che hanno spinto USA e anche Israele a limitare al massimo la reazione all’attacco iraniano, al costo di certificare una sconfitta clamorosa dal punto di vista degli equilibri tra le opposte deterrenze.
L’egemonia dell’imperialismo su questi paesi è ogni giorno più fragile e ogni ulteriore passo falso potrebbe risultare essere fatale, dal Medio Oriente al Pacifico: l’imperialismo in declino, infatti, ha compreso che per poter pensare di fare la guerra alla Cina, dopo decenni di delocalizzazioni e finanziarizzazione, ha bisogno di ricostruire una base industriale comparabile e, per farlo, è tornato alle vecchie politiche protezionistiche; e a pagarne le conseguenze sono spesso proprio i paesi dove, invece, gli USA avrebbero bisogno di dimostrare tutta la loro magnanimità per convincerli che, ancora oggi, rappresentano un’alternativa migliore alla Cina esportatrice e mercantilista. Nel caso dei paesi dell’ASEAN, ad esempio, gli USA hanno girato le spalle all’accordo di libero scambio che avrebbe dovuto sostituire il vecchio trattato annullato dall’amministrazione Trump, lasciando alla Cina campo libero; ma non solo: con la politica del friendshoring, che punta a sostituire i legami economici e commerciali con i paesi considerati ostili – a partire proprio dalla Cina – con quelli con paesi considerati più amichevoli, gli USA hanno ottenuto, ad oggi, esattamente l’opposto di quanto sperato. Paesi come Vietnam o Indonesia, infatti, non hanno fatto che rinforzare i loro legami con la Cina, dalla quale importano la stragrande maggioranza dei semilavorati che impiegano nella loro industria, rendendole così sempre più dipendenti da Pechino. che viene spinta ogni giorno di più proprio dal panico diffuso nell’Occidente collettivo dal declino dell’imperialismo, a investire tutte le sue forze verso un’indipendenza tecnologica sempre più marcata.
Nonostante la Cina sia un paese che sta percorrendo la sua strada verso un’economia avanzata di tipo socialista e nonostante non abbia mai ceduto ai deliri più vistosi del misticismo neoliberista – a partire dalla volontà di mantenere una fetta consistente dei principali mezzi di produzione saldamente in mano alla Stato (a partire dal credito che, tra i mezzi di produzione, è in assoluto quello gerarchicamente più importante) – allo stesso tempo l’élite del partito, in buona parte formatasi nelle grandi università americane, è stata infatti a lungo fortemente influenzata dall’economia politica classica liberale; e nonostante sia diventata l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del paese, in ossequio ai dictat della dottrina di Adam Smith ha sempre continuato a dipendere dall’estero per una bella fetta delle tecnologie che avrebbe dovuto spendere troppo per sviluppare in casa. Fino a che gli USA, giorno dopo giorno, sanzione dopo sanzione, non le hanno impedito di comprarle all’estero e l’hanno costretta a investire tutte le sue energie per svilupparsele da sola e accelerare in maniera esponenziale il lungo cammino che porta verso l’indipendenza tecnologica, come – ad esempio – sta succedendo nell’industria dei microchip, dove la Cina continua a scontare un ritardo significativo rispetto all’impero, ma è un gap che si è già ridotto sensibilmente negli ultimi 2 anni e non le ha impedito di costruire, con tecnologia autoctona, uno smartphone come il Mate 70 pro di Huawei che in Cina ha letteralmente asfaltato Apple. Risultato: Huawei nel 2023 è cresciuta del 10%; Apple è rimasta sostanzialmente al palo.

Xi Jinping

Le sanzioni USA contro quelli che la propaganda suprematista definisce Stati canaglia e, cioè, tutti gli Stati che non obbediscono in silenzio a Washington, non li ha spinti solo a investire di più: li ha anche obbligati a superare le loro differenze, a cooperare sempre di più e a integrarsi economicamente, andando a costruire gradualmente una sorta di blocco che, in condizioni meno burrascose, nella migliore delle ipotesi avrebbero impiegato enormemente di più a consolidare; riassumendo, quindi, l’aggressività con la quale l’imperialismo ha deciso di reagire al suo progressivo declino ha spostato gli equilibri geopolitici di diverse aree del pianeta a favore del nuovo ordine multipolare, velocizzato l’indipendenza tecnologica degli avversari, favorito la creazione di un vero e proprio blocco ormai incompatibile con il vecchio ordine e spostato sempre più in direzione di questo blocco anche i paesi più neutrali e titubanti. Rimane, però, il golden billion, il mondo del miliardo dorato composto, in gran parte, dalle ex potenze coloniali più qualche aggiunta qua e là, che rappresentano i veri e propri alleati degli USA, un insieme di Paesi che, però, sta vedendo diminuire il suo peso specifico nell’economia mondo a vista d’occhio, col G7 che è passato, nell’arco di 30 anni, da pesare più del doppio dei BRICS ad esserne addirittura superato.
Ma come fanno gli USA, quindi, a continuare a coltivare il loro sogno unipolare se non sono altro che il leader di un blocco che ormai è tutt’altro che egemone? Semplice: fottendo gli alleati, tutti gli alleati; ma proprio a saltelli. L’ultimo esempio la Corea del Sud, che non solo vede nella Cina di gran lunga il più importante partner commerciale – come ormai succede alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo – ma è anche uno dei rarissimi casi che vanta nei confronti della Cina un consistente surplus: insomma, buona parte del benessere coreano è dovuto al mercato cinese, in particolare proprio per quanto riguarda la componentistica elettronica a partire dai chip, un mercato che su pressioni statunitensi ha dovuto gradualmente abbandonare, spingendo i cinesi a produrseli da soli. Risultato? Un grande quesito esistenziale: come titolava ieri il Financial Times, Il miracolo economico sudcoreano è finito? E loro son quelli messi meglio perché, almeno, hanno ancora qualche dubbio; Giappone e Germania, ormai in piena recessione, il dubbio non ce l’hanno più; entrambi, ormai, sono in recessione piena e – a quanto pare – rischia di essere solo l’inizio.
Bloomberg: La Banca Centrale Europea non dovrebbe affrettare ulteriori tagli dei tassi dopo giugno; a dichiararlo sarebbe stato Madis Mueller, presidente della Banca Centrale Estone e membro del consiglio della BCE. La dichiarazione segue le recenti affermazioni di Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, che aveva recentemente congelato le aspettative per una nuova stagione della riduzione generalizzata dei tassi che, a partire dagli USA, avrebbe contagiato il grosso delle economie avanzate; il punto è che l’economia USA continua a correre e, con essa, l’inflazione: ma com’è possibile? Non era tutto in declino? Il punto, come sapete, è che proprio per reagire al declino dell’imperialismo gli USA hanno aperto i cordoni della borsa e stanno aumentando il deficit pubblico a dismisura per attrarre investimenti dai paesi alleati e questo, ovviamente, fa crescere il PIL e continua a mantenere alta anche la pressione inflazionistica (che è un’ottima scusa per dire ai bamboccioni che la FED deve continuare a mantenere i tassi alti); in realtà però, come sempre, mantenere i tassi alti a parole è una reazione dovuta, una scelta tecnica. In realtà è una precisa scelta politica: più alti sono i tassi, più i capitali più deboli crollano, a favore di quelli più forti. La rapina sistematica delle economie degli alleati per rafforzare l’egemonia USA sull’Occidente collettivo continua indisturbata e, anzi, rilancia; fino a quando i cortigiani si accontenteranno di poter banchettare alla corte dell’imperatore mentre i suoi uomini gli confiscano terre e gioielli di famiglia? Fino ad oggi, l’accettazione di questa subalternità era sostenuta anche dalla percezione dello strapotere militare USA, ma gli ultimi risultati dal campo, anche tra le groupies di Washington indeboliscono l’idea dell’invincibilità della patria di Capitan America.
Purtroppo, però, c’è un fattore ancora più profondo che continua a tenere legate le varie borghesie nazionali allo stradominio USA, nonostante – stringi stringi – le stia vistosamente penalizzando e questo fattore è lo stesso che, alla fin fine, continua a garantire la fedeltà all’imperatore anche dei cortigiani più bistrattati e, cioè, che l’imperatore è la garanzia che continui il dominio dell’aristocrazia come classe sociale, della quale (anche se in posizione subordinata) fanno comunque parte. Lì oltre una certa soglia il problema, comunque, si superava: morto un imperatore, tutto sommato, se ne fa un altro; il dubbio è che questa continuità valga anche oggi. A differenza del mondo a immagine e somiglianza del dominio delle aristocrazie, infatti, il capitalismo ha una sua peculiarità: se non cresce, muore; ma i limiti oggettivi di questo processo di crescita infinita si sono fatti sentire chiaramente già decenni fa. Per due volte è potuto ripartire solo in seguito a una devastante guerra mondiale, poi si è provato a tenerlo artificialmente in vita con il trentennio d’oro delle politiche keynesiane che, però, erano talmente aliene ai meccanismi fondamentali dell’accumulazione capitalistica da mettere le classi dominanti di fronte a un bivio: o superiamo il capitalismo o azzeriamo le politiche keynesiane. La scelta che, per le classi dominanti, è stata un scelta di sopravvivenza la conosciamo tutti: si chiama controrivoluzione neoliberale e il sistema che ne è derivato è, appunto, l’imperialismo, l’accanimento terapeutico delle oligarchie per tenere in vita un capitalismo che, nella realtà, non esiste già più.
Il meccanismo fondante del capitalismo infatti è, stringi stringi, tutto sommato piuttosto semplice: investo dei soldi, produco una merce, rivendo la merce e ottengo i soldi investiti più un profitto; questa cosa che, secondo la vulgata, sarebbe ancora oggi il meccanismo fondamentale dell’attività economica dell’uomo in ogni angolo del pianeta, molto banalmente non funziona più. Al suo posto, un gigantesco schema Ponzi, dove la ricchezza prodotta non aumenta di un centesimo e, invece, il valore fittizio delle bolle speculative si ingigantisce senza sosta: i grandi patrimoni di oggi sono, sostanzialmente, in gran parte azioni o prodotti finanziari di altro tipo che, se un giorno dovessero essere venduti, non esisterebbero abbastanza soldi in tutto il mondo per comprarseli; un castello di carte dove le oligarchie dell’Occidente collettivo vivono protette dall’impero militare e finanziario USA e sanno benissimo che, una volta venuta meno la difesa dei suoi F-35, delle sue portaerei e del suo dollaro, non potrebbe che crollare definitivamente mettendo così fine alla finzione.
Per quanto saremo ancora così coglioni da farci derubare di tutta la ricchezza che produciamo – e che saremo ancora di più in grado di produrre – perché non riusciamo a vedere che la roccaforte che dobbiamo abbattere, dietro la facciata, non è altro che un castello di carte? Contro il castello di carta dell’imperialismo e del capitalismo finanziario, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non si faccia abbindolare dalle leggende metropolitane e che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Gates (ma povero, però)

Orsi vs Luttwak: Guerra tra titani!

Oggi torna a Ottolina Tv Stefano Orsi, analista e grande amico del nostro canale, per parlarci di conflitto in Ucraina, capacità bellica dei paesi occidentale e potenziale bellico francese. Quali trame si nascondono dietro la lunga di sequela di accordi bilaterali che l’Ucraina ha stretto con vari paesi europei negli ultimi mesi? E, a questo punto del conflitto, quali sono le possibilità che ha la Russia? Infine, che ruolo svolge il circuito produttivo e tecnologico cinese? Scopriamolo assieme, grazie al nostro Stefano. Buona visione!

L’intelligenza artificiale realizzerà i tuoi incubi peggiori

Oggi ad Ottolina Tv parliamo con Stefano Cecere, esperto di informatica, formazione e attivismo. Con lui cercheremo di capire quali sono le possibilità per la tecnologia in ambito formativo e sociale e come applicare questi preziosi strumenti in futuro. Buona visione!

Come il capitalismo usa la tecnologia contro l’uomo – ft Andrea Cengia

Affrontiamo il tema caldo della tecnocrazia con Andrea Cengia, dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli studi di Padova e docente di Filosofia e Storia. I suoi studi ruotano attorno al rapporto tra politica e innovazione tecnologica a partire dalla critica dell’economia politica, dal pensiero della teoria critica e dell’operaismo italiano.

USA vs CINA: la Guerra Mondiale dei COMPUTER QUANTISTICI – ft Lorenzo Moro

Uno dei più grandi esperti italiani di computer quantistici ci spiega il funzionamento di questa nuova e fantascientifica tecnologia, delle sue possibili applicazioni nel campo militare e delle sicurezza, e perché USA e Cina si fanno la guerra per garantirsi il primato.

COME LA TECNOLOGIA CAPITALISTA CI DISTRUGGE LA VITA – ft. Massimo Fini

Carissimi Ottoliner, ospite delle intervist8line di oggi Massimo Fini. Storica firma de “L’europeo”, oggi penna de “Il fatto quotidiano” e critico di alcuni aspetti della cosiddetta “modernità”. Parleremo di questo e altro, a partire dalle ore 18.30, buona visione.

L’economia cinese torna sul tavolo operatorio

video a cura di Davide Martinotti

“L’economia cinese è attualmente sul tavolo operatorio, con la cavità toracica spalancata, collegata a una macchina cardiopolmonare, circondata da infermieri che fissano i monitor”. Questo l’incipit di un articolo di Han Feizi, osservatore di Asia Times, che ci racconta il suo punto di vista sull’economia cinese e suoi suoi obiettivi “irrealisticamente ambiziosi”. Un po’ di ottimismo, misto al gusto per lo splatter socio-economico!

Come la CINA pianifica di aggirare le restrizioni USA

video a cura di Davide Martinotti

La guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti sta procedendo, ed è un conflitto denso di conseguenze… La Cina, come sappiamo, è sotto embargo tecnologico da parte degli Stati Uniti per quanto riguarda l’ultra violetto estremo, cioè quella tecnologia litografica che permette di produrre chip da cinque o da tre nanometri. L’olandese ASML è al momento l’unica azienda che produce e vende questo tipo di sistemi, e gli stati uniti hanno imposto all’ASML di non vendere la sua tecnologia alla Cina. Quindi game over per la Cina, senza questa tecnologia non potrà mai arrivare a produrre i Chip di ultima generazione…. Ma è davvero così? E come sta rispondendo la Cina alla guerra tecnologica statunitense? Lo vediamo in questo video!

L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

Per farlo, abbiamo bisogno di un media che dia voce al 99%: aiutaci a costruirlo

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e chi non aderisce è Bill Gates