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Tag: Sahel

Turchia e Azerbaigian contro il colonialismo francese – ft. Giacomo Gabellini

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano per il consueto appuntamento del sabato Giacomo Gabellini. Turchia e Azerbaigian si allineano per contrastare l’influenza storica e attuale della Francia nella loro regione e nelle ex e attuali colonie, ponendosi come punto di riferimento per i movimenti di indipendenza e anti-colonialisti di de-francesizzazione. Esploreremo le dinamiche di potere che stanno emergendo nel Caucaso, nel Mediterraneo orientale e in Sahel e come questi nazioni si rapportino a NATO e BRICS.

Mali, Niger e Burkina Faso lasciano la Francia in mutande – ft. Matteo Capasso

Torna Matteo Capasso per parlarci di come la nuova Confederazione di Stati del Sahel (Burkina Faso, Niger e Mali) si stia opponendo all’imperialismo francese e statunitense nella regione: i colpi di Stato avvenuti a partire dal 2022 hanno ribaltato gli equilibri regionali, facendo scomparire vecchie e nuove potenze coloniali e mettendo in discussioni equilibri economici e monetari vigenti da secoli. La Russia e la Cina costituiscono i nuovi partner multipolari degli Stati ribelli che, ora, subiscono l’aggressività degli Stati vicini filo-occidentali e membri dell’ECOWAS, un’organizzazione economica regionale. In ultimo, rimane la curiosità sui soldati italiani in Niger, ultimi rimasti del contingente occidentale dopo la cacciata di Francia e USA. Buona visione!

Più info: https://www.blackagendareport.com/planning-crimes-2024-nato-summits-agenda

#Francia #Sahel #Niger #Mali #BurkinaFaso #Africa #colonialismo #uranio #Russia #multipolarismo #Nigeria #ECOWAS

L’incredibile regola segreta che impone agli editorialisti del Corriere di NON CAPIRE NIENTE

Carissimi ottoliner, ben ritrovati. Siccome la scorsa settimana sono stato assalito da un forte calo di autostima, per risollevarmi il morale nel weekend ho deciso di immergermi nel variegato club del disagio e oggi sono qui a presentarvi la mia nuova crush: si chiama Danilo Taino ed è l’anonimo editorialista del Corriere a cui viene sbolognata la patata bollente ogni volta che c’è da fare un po’ di propaganda sconclusionata e di mettere il nome su qualche figuretta barbina (tanto lui, sostanzialmente, manco se n’accorge); e venerdì scorso ha dato veramente il meglio di sé. Il nostro pigro fatalismo si intitola l’editoriale (pure un po’ poeta il Taino, con quel ciuffetto sbarazzino); il pigro fatalismo che Taino vuole combattere è quello che spinge “la conversazione in corso nelle democrazie” a vedere un “futuro solo oscuro” e a pensare che tutto andrà per il peggio: “l’Ucraina perderà la guerra di resistenza alla Russia, in Medio Oriente ci sarà un’escalation dei conflitti, Taiwan finirà in mani cinesi, la Jihad tornerà a colpire l’Europa, l’America vacillerà, il 2024 sarà un disastro per le libertà e i commerci e le economie crolleranno”. Insomma: secondo Taino Ottolina Tv, in sostanza, avrebbe stravinto la battaglia per l’egemonia, ma a Danilo Taino non la si fa; tra un video con altri fini pensatori come Scacciavillani e Forchielli e un retweet di Marco Taradash o di Marco Capezzone e l’altro, Taino – infatti – ha sviluppato un’idea tutta sua di come il giardino ordinato possa uscire vincitore dal conflitto con quello che ha definito “l’asse dei despoti contro l’egemonia degli USA”, e la soluzione si chiama una botta di ottimismo. Basterà?

Danilo Taino

Nell’editoriale del Corriere di venerdì scorso, Danilo Taino ci ricorda che il 2024 sarà l’anno della democrazia: mai nella storia umana, infatti, così tante persone in tutto il mondo sono state chiamate alle urne nell’arco di 12 mesi e, sottolinea Taino, è iniziato alla grande, “con uno stop alle pretese della più potente autocrazia”: “Lo scorso 13 gennaio” infatti, ricorda Taino, “Taiwan ha votato a nuovo presidente il candidato inviso a Pechino, nonostante le minacce del partito comunista cinese”; “La situazione nell’isola resta tesa”, concede, “ma il dato di fatto è che le prime elezioni importanti dell’anno non sono andate come il gigante illiberale asiatico voleva”. Quello che Taino, però, dimentica di sottolineare è che il partito democratico progressista – che è, appunto, quello più smaccatamente filo occidentale – rispetto alle scorse elezioni ha perso 3 milioni di voti e pure la maggioranza in parlamento, e la questione indipendenza sembra essere stata totalmente derubricata; non era per niente scontato: nell’agosto del 2022 i democratici statunitensi avevano cercato disperatamente l’escalation con la missione a sorpresa di Nancy Pelosi, la senatrice USA famosa per aver utilizzato il suo ruolo politico per favorire il conto in banca del marito. Un flop totale. Ma a parte la questione taiwanese, nel disperato tentativo di cercare uno sprazzo di ottimismo, le cose che Taino si dimentica di dire di queste prime tornate elettorali sono anche molte altre: Taino si dimentica di dire, ad esempio, che in Senegal il cocco dell’Occidente Macky Sall per non venire completamente asfaltato alle elezioni previste per questo febbraio dal giovane militante anticolonialista Sonko – che si apprestava a trionfare per interposta persona, nonostante sia già stato da tempo rinchiuso in carcere con accuse palesemente infondate – il voto l’ha dovuto proprio rimandare e non di qualche settimana, ma di un anno, e chi ha protestato è stato preso a mazzate e gettato in carcere senza che sui mezzi di produzione del consenso del nostro giardino ordinato se ne facesse menzione. Anzi, tra i millemila leader che hanno tirato il pacco alla Meloni per la sua pantomima del vertice Italia – Africa che doveva inaugurare in pompa magna il piano immaginario Mattei, uno dei pochi ad essersi presentato è stato proprio Macky Sall, che è stato accolto come il sol dell’avvenire mentre, a casa sua, se arriva al 20% dei consensi è oro colato.
Taino sembra aver rimosso anche un altro appuntamento elettorale, ancora più paradigmatico: parliamo, ovviamente, delle elezioni in Pakistan, un vero e proprio spettacolo; anche qui, come in Senegal, il candidato di gran lunga più popolare – il leader populista, sovranista e anti – establishment Imran Khan – dopo essere stato detronizzato con il solito caro vecchio golpe bianco, è stato incarcerato per impedirgli di partecipare alle elezioni. Ma non solo: al suo partito è stato addirittura impedito di presentarsi utilizzando il suo simbolo che, in un paese dove il tasso di analfabetismo supera abbondantemente il 40%, è una mazzata al cubo; ciononostante, oltre ogni più rosea previsione Khan ha fatto il pieno e per impedirgli di ottenere la maggioranza assoluta sono dovuti ricorrere alle peggio schifezze. Dal Senegal al Pakistan, passando per il Sahel, l’ondata populista e sovranista sembra inarrestabile e il bello è che, comunque, all’Occidente collettivo, nonostante le nuove strategie della tensione, non va bene comunque: lo scontro in Pakistan, infatti, non era tra soldatini dell’impero e multipolaristi; anche i golpisti che ora, in qualche modo, accrocchieranno il tutto per tenere Imran Khan fuori dai giochi, infatti, guardano più alla Cina che non al giardino ordinato. Sono loro, infatti, ad aver dato il via al China Pakistan Economic Corridor che, tra tutti i singoli tassellini che compongono la belt and road initiative, è probabilmente il più grande in assoluto.

Joko Widodo (Jokowi)

Nei giorni scorsi, poi, si è votato anche in Indonesia e qui il famoso asse delle autocrazie – con il quale Taino indica tutti i paesi che si sono definitivamente rotti i coglioni del colonialismo occidentale – ha vinto ancora prima che si cominciassero a contare i voti: nel 2019, infatti, la carta anticinese aveva giocato un ruolo di primissimo piano nella contesa elettorale, diventando l’arma retorica per eccellenza dell’opposizione reazionaria e filo – occidentale che si batteva per negare a Joko Widodo un secondo mandato. Fortunatamente allora quell’opzione venne battuta alle urne; questa volta, invece, non ci s’è nemmeno presentata: durante il suo secondo mandato, infatti, Jokowi non solo ha cominciato a raccogliere tutti i frutti della sua azione riformatrice fatta di welfare state, sviluppo economico e rafforzamento della sovranità nazionale – grazie a un forte processo di sempre maggiore integrazione economica con la superpotenza manifatturiera cinese – ma è addirittura riuscito a includere in questa nuova prospettiva di liberazione e sviluppo nazionale anche l’opposizione. Il candidato che risulterebbe di gran lunga vincente alle elezioni, infatti, è proprio il leader della vecchia opposizione, Prabowo Subianto, che Jokowi decise di assoldare nel suo governo come ministro della difesa per tentare una sorta di percorso di unità nazionale. Un’operazione riuscita: a questo giro, infatti, l’ex oppositore Prabowo è stato direttamente da Jokowi; della fantomatica minaccia cinese in campagna elettorale non ha parlato nessuno, e l’opzione dell’indipendenza nazionale e la volontà di tenersi al di fuori dalla contrapposizione per blocchi è diventata sostanzialmente unanime. E non è certo solo questione di ideologie: nel sottofondo, infatti, c’è la solita vecchia guerra tra borghesie nazionali e borghesie compradore; le seconde, ovviamente, guardano con maggior simpatia alle oligarchie occidentali e vorrebbero continuare a imprigionare l’Indonesia nel vecchio sistema neocoloniale, limitando l’economia indonesiana alla sola esportazione di materie prime non lavorate che non necessitano investimenti. Vuol dire che i latifondisti e i grandi proprietari si limitano a incassare rendite senza avviare nessun percorso di sviluppo, che è la precondizione per la nascita e la crescita di un vero movimento dei lavoratori e, quindi, di una vera democrazia; la borghesia nazionale, invece, si vuole arricchire come gli altri, ma non è pregiudizialmente contraria all’idea che per farlo si debba investire e permettere all’economia nel suo insieme di crescere, anche se comporta ritrovarsi di fronte lavoratori più attrezzati per far valere i loro diritti. Prabowo, originariamente, apparterrebbe più alla borghesia compradora che a quella nazionale, ma l’ottimo lavoro portato avanti da Jokowi in 10 anni di presidenza sembrerebbe aver spostato definitivamente i rapporti di forza a favore delle borghesie nazionali, con il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione: Jokowi, infatti, gode di una popolarità senza precedenti, e invertire il processo che ha avviato – e che ha avuto il suo culmine assoluto nella messa al bando totale dell’esportazione di nickel come materia prima, imponendo che almeno una parte della lavorazione avvenga in Indonesia – potrebbe non essere alla portata delle forze della reazione; Prabowo – che è un opportunista, ma non è scemo – lo sa benissimo e ha deciso di porsi in piena continuità con l’amministrazione Jokowi, che l’ha sostenuto – come l’hanno sostenuto anche i cinesi. Per la borghesia compradora potrebbe essere la sconfitta definitiva.
Insomma: nel Sud globale, ormai, lo scozzo è tra due sfumature diverse di multipolarismo; quella più soft e paracula dei vecchi establishment che cercano di adeguarsi al mondo che cambia senza perdere i loro privilegi e quella più strong delle forze politiche emergenti che cercano di approfittare del mondo che cambia per cambiare tutto anche in casa. E al giardino ordinato, intanto – tutto in subbuglio per il grande anno delle elezioni globali – non rimane che interpretare le poche elezioni che si svolgono davvero regolarmente capovolgendo la realtà e stendere un velo pietoso su tutte le altre. E anche fare un po’ di sano vittimismo, come quando a Davos, il mese scorso, la crème de la crème delle oligarchie parassitarie del pianeta si è riunita per lanciare all’unisono un allarme accorato sul rischio fake news e disinformazione; cioè, gli azionisti di maggioranza di tutti i mezzi di produzione del consenso dell’Occidente collettivo ci volevano convincere che il problema non sono gli eserciti di Danili Taino sul loro libro paga e il monopolio delle piattaforme social in mano loro, ma Ottolina Tv e il fantasma di Giulietto Chiesa.
D’altronde l’odio di Taino per la democrazia ha radici antiche: era il luglio del 2015 e con la scusa del feticcio dell’austerity la Germania si apprestava a ridurre in cenere la povera Grecia; dieci anni dopo, tutti i principali protagonisti di quella stagione hanno fatto il mea culpa e hanno ammesso pubblicamente che la stagione dell’austerity a tutti i costi è stata un gigantesco errore, da Mario Draghi a Mario Monti, passando per Angelona Merkel. All’epoca, però, chi s’azzardava a dubitare finiva immediatamente nelle liste di proscrizione, esattamente come i fantomatici propagandisti putianiani negli ultimi due anni – almeno fino a quando anche Limes non ha cominciato a dire quello che tutti noi, a libro paga di Putin, sommessamente sostenevamo sin dall’inizio; allora come ora, a guidare la campagna per l’adeguamento forzato al pensiero unico confuso, era il Corriere della Sera e tra i cani da guardia più feroci dell’ortodossia analfoliberista non poteva che esserci il suo corrispondente dalla Germania e, cioè, proprio Danilo Taino, una vera e propria bimba di Wolfgang Schauble e dell’ordofascismo allora tanto in voga e che, in suo nome, si scagliava come un mastino inferocito contro la deriva scandalosa intrapresa dal governo Tsipras: chiedere il parere del popolo. Contro il pacchetto lacrime e sangue imposto dalla troika, infatti, Tsipras aveva avuto la terrificante idea di indire un referendum; apriti cielo! “A meno di un colpo a sorpresa ad Atene, ad esempio la caduta del governo di sinistra” scriveva Taino “domenica prossima i greci voteranno”: “Nominalmente” continua Taino, si tratta di un voto “sul programma di aiuti proposto dai creditori del Paese” e cioè, appunto, la ricetta lacrime e sangue della troika per punire l’indisciplinata Grecia e far arricchire le oligarchie; “in pratica” però, continua scandalizzato Taino, si voterà “sulla permanenza o meno della Repubblica ellenica nell’Unione monetaria”. Con il ricorso al voto popolare, rincara Taino, “il governo di sinistra” sta cercando di usare “il popolo greco come un’arma” cercando di “schierarlo contro gli avversari, che sarebbero rappresentanti del capitalismo europeo che ricatta i greci, come ama dire Tsipras”: “Convocando il referendum” continua Taino “più che dare la parola al popolo lo hanno chiamato a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno dell’eurozona”. Come poi si scoprirà, purtroppo, avevano anche dei difetti.
Danilo Taino, comunque, non si limita a denunciare la pigrizia dell’Occidente collettivo solo nei tentativi di ribaltare i risultati delle urne: anche in Ucraina, con un po’ di fatalismo in meno, “le prospettive di una vittoria ucraina nel fermare l’aggressione russa sarebbero migliori”. Per rinfocolare un po’ del pensiero magico che ha occupato i media mainstream per due anni e che ora sembra aver perso un po’ di slancio, Taino si appiglia all’ultima trovata dell’internazionale Iacobona e Molinara: abbandonate con 6 mesi di ritardo le speranze totalmente infondate sulle magnifiche sorti e progressive della controffensiva immaginaria, il nuovo tormentone della propaganda suprematista infatti è che “si dimentica, però, che la Russia sta perdendo la battaglia del Mar Nero”; una vera e propria ossessione. E Taino ha recepito il messaggio: La Russia sta perdendo la battaglia per il Mar Nero titolava il 28 gennaio entusiasta l’Economist; La vittoria dell’Ucraina in mare rilanciava con un lunghissimo articolo Foreign Affairs la settimana dopo; “L’Ucraina afferma di aver affondato un’altra nave da guerra” replicava gasatissima la CNN giusto un paio di giorni fa. Come ha commentato laconicamente il nostro Francesco dall’Aglio: “Poverini, fagli festeggiare qualcosa…”. Nel frattempo, infatti, nel mondo reale il nuovo capo dell’esercito ucraino Oleksander Syrski annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka: probabilmente è il vero motivo dell’avvicendamento alla testa delle forza armate ucraine e anche la ragione per la quale, alla fine, Zaluzhny ha incassato il defenestramento senza montare chissà quale cagnara; il nuovo capo si dovrà fare carico della debacle definitiva e Zaluzhny ha colto al volo la possibilità di abbandonare la nave, prima che affondasse definitivamente, per poi imporsi come il più autorevole dei leader possibili per la mini Ucraina che rimarrà dopo il conflitto. Festeggiare per qualche successo in mare durante una guerra di terra dove vieni preso a schiaffi un giorno sì e l’altro pure è un po’ come se mentre dalla lotta per lo scudetto ti ritrovi a lottare contro la retrocessione, ti metti a festeggiare perché hai vinto i Goal Awards che premiano la divisa più bella.

Babbo Natale

Come per le elezioni a Taiwan, però – diciamo – Taino è di bocca buona e si accontenta di poco; dall’Ucraina, al Medio Oriente: “L’uscita dalla guerra nel Medio Oriente” ammette “è molto complicata, ma la possibilità che dalla tragedia nasca un equilibrio più stabile non è irrealistica”. Per Taino, infatti, “se le democrazie ci credono”, congelando il conflitto e l’estensione degli insediamenti in Cisgiordania, tornando a discutere dei due Stati in cambio del riconoscimento diplomatico da parte dell’Arabia Saudita e, magari, anche invocando l’intervento di Babbo Natale per far dimenticare a suon di regali ai bambini di Gaza i loro amichetti sterminati sotto le bombe, si infliggerebbe una sconfitta epocale all’Iran che in Medio Oriente diventerebbe “isolato”: Ansar Allah riconsegnerebbe Sana’a ai proxy sauditi, l’Iraq si consegnerebbe alle cellule del Mossad attive nel Kurdistan e invece di cacciare gli ultimi americani rimasti ne chiederebbe i rinforzi, Nasrallah si convertirebbe al protestantesimo, Bashar Assad trasformerebbe la Siria in una gigantesca Rojava e le masse arabe, da idolatrare Abu Obeida, Abdel Malek Al Houthi e l’ayatollah Kamenei, si convertirebbero al culto di Ernesto Galli della Loggia. D’altronde, sottolinea Taino, “siamo in un’era in cui l’impensabile può materializzarsi” e, quindi, perché non sognare? E il sogno di Taino, infatti, procede inesorabile ignorando ogni contatto con la realtà: il raggiungimento di questo nuovo ordine pacifico, continua infatti Taino, “sarebbe la testimonianza che gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza in grado di non far esplodere un conflitto”; nel mondo incantato di Taino sostanzialmente la carneficina di Gaza non solo non è un genocidio, ma proprio non esiste, come non esistono tutte le guerre scatenate dagli USA nella regione negli ultimi 30 anni. E, quindi, che ci vorrà mai a rilanciare l’immagine degli USA portatori di pace? Basta, appunto – come dice Taino – farla finita col nostro pigro fatalismo e, a quel punto, si “darebbe modo ai paesi del Sud globale di considerare quali sono le forze che favoriscono la stabilità che aiuta lo sviluppo”: quindi, nella realtà parallela di Taino, il superimperialismo statunitense ha garantito la pace e lo sviluppo del Medio Oriente e dell’Africa, che poi sono state messe a ferro e fuoco dalla Russia e dalla Cina.
Il problema, sostiene Taino in soldoni, è solo che non facciamo abbastanza propaganda per affermare questa incontrovertibile verità: “La pigrizia dei chierici occidentali e dei loro governi” afferma polemicamente “rischia di essere la quinta colonna” non solo – si badi bene – “degli autocrati”, ma addirittura anche “dei terroristi”; “I migliori” scrive ancora, citando il poeta inglese William Butler Yeats, “mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di fervente energia”. “Quei peggiori” sottolinea Taino per chi, a fine articolo, non l’avesse ancora capito “sono oggi i Putin, gli Xi Jinping, gli ayatollah e i loro sodali” e cioè, appunto, Ottolina Tv e tutti quelli che, come noi, sono a libro paga delle DITTATUREEHH!!, rigorosamente scritto in caps lock con 2 H finali e 6 punti esclamativi, mentre i Danilo Taino sacrificano la loro vita per gli ideali della democrazia e della libertà. Ma la pacchia è finita, avverte Taino, perché chi come noi fa propaganda ruzzah si sente forte perché “convinto della mancanza di volontà e di convinzione delle democrazia” e invece, minaccia Taino, “possiamo ancora deluderli”.
Tranquillo Danilo: per ora, diciamo, te e i pennivendoli analfoliberali amici tuoi non ci avete mai deluso; ogni volta che abbiamo un calo di autostima o siamo assaliti da un qualche dubbio, basta riguardare le puttanate che scrivete e il morale torna alle stelle. E quindi, buona settimana antimperialista a tutti, ma ricordatevi, però, che per quanto la propaganda sia strampalata e venga smentita continuamente dai fatti, i mezzi di produzione del consenso sempre in mano loro rimangono e ,quindi, bullizzarli è giusto e sacrosanto, ma non basta: per dargli il benservito definitivo, abbiamo bisogno di contrapporre ai loro mezzi di produzione del consenso un mezzo di produzione del senso critico; ci serve subito un vero e proprio media che, invece che dalla parte delle oligarchie suprematiste, stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Danilo Taino

MELONI L’AFRICANA – Putin e il Sud globale smascherano la pantomima del piano Mattei

Patto con l’Africa titolava a 6 colonne il Giornanale martedì: “Storico incontro con 25 leader, VIA AL PIANO MATTEI”, ma non pensate male. Non è il remake di Faccetta Nera: la Giorgiona nazionale ha preso atto che il mondo è cambiato e s’è riscoperta un po’ il Thomas Sankara de noantri e promette “un nuovo modello di sviluppo dell’Africa”; “Una nuova pagina nelle nostre relazioni” sottolinea enfaticamente la nostra MadreCristiana “basata su una cooperazione strutturale, da pari a pari, lontana da quell’approccio predatorio che per troppo tempo ha caratterizzato le relazioni con l’Africa e che troppo spesso ha impedito all’Africa di crescere e prosperare come avrebbe potuto”. Ha fatto più la Meloni “che gli altri in 100 anni” esulta il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari rilancia: “Meloni ha appena ribaltato 200 anni di storia europea”. “E’ l’inizio di una nuova stagione” conclude la Giorgiona nazionale, una svolta epocale “che dobbiamo e possiamo fare insieme”. Un copione hollywoodiano impeccabile, col supervillain che, dopo averne combinate più di Pinocchio, alla fine si ravvede e pieno di compassione tende la mano alla sua vittima in mondovisione; ma il colpo di scena è sempre dietro l’angolo. Ed ecco così che quando meno te lo aspetti – sempre ancora in pieno stile hollywoodiano – arriva l’evento inatteso che squarcia la superficie patinata, la variabile che era stata trascurata e che ribalta in un colpo solo tutta la narrazione.
A questo giro, questa variabile si chiama Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana e una vecchia conoscenza di Giorgia: 2 mesi fa, due giornalisti russi le avevano fatto uno scherzetto e spacciandosi per Faki l’avevano tenuta mezz’ora al telefono. “Questa volta è quello vero” ha dichiarato scherzando Giorgiona; forse erano meglio i comici russi. “Sul piano Mattei” ha scandito infatti Faki durante il suo intervento “avremmo auspicato di essere consultati”; e meno male era l’alba di una nuova era all’insegna del dialogo e del rapporto tra pari: Giorgiona del piano Mattei ha parlato di più con due comici russi che con il presidente dell’Unione Africana. Cosa mai potrebbe andare storto?

Fester Sallusti

Così l’Italia torna in campo titola entusiasta il suo editoriale Fester Sallusti: “in questo piano” – scrive coi lucciconi agli occhi la penna più reazionaria d’Italia – “credo ci sia l’essenza della politica di Giorgia Meloni e del suo governo: avere una visione politica di dove portare questo strano paese al di là delle contingenze che continuamente lo assillano”. Peccato che la destinazione sia sempre la stessa: il Regno Incantato della Post Verità. A chiacchiere, infatti, la narrazione che circonda la favola del piano Mattei è inappuntabile perché non solo, appunto, prende le distanze dalle antiche tentazioni predatorie, ma “anche da quell’impostazione caritatevole nell’approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo” (Giorgia Meloni); insomma, dopo aver passato gli ultimi 15 anni a parlare a vanvera del nuovo colonialismo cinese in Africa, alla fine si è costretti a copiarne l’approccio: l’Africa non è solo un fardello, ma una straordinaria opportunità. E non si tratta di fare la carità, ma di mettere da parte, appunto, le tentazioni predatorie e di permetterle finalmente di liberare tutte le sue potenzialità produttive: Giorgia ricorda come il continente nero è tutt’altro che povero ma, al contrario, racchiude il 30% delle risorse minerarie mondiali e il 60% delle terre coltivabili, e con il 60% della popolazione che ha meno di 25 anni è il continente più giovane del pianeta. Tra i più entusiasti c’è Stefano Simontacchi che, in passato, è stato nominato da questa stramba classifica stilata da GQ Italia (e di cui sinceramente nessuno sentiva il bisogno) L’avvocato più potente d’Italia e che dalle pagine del Corriere della Serva si sfrega già le mani: l’obiettivo dell’Italia, sostiene Simontacchi, dovrebbe essere quello di diventare nientepopodimeno che il “partner privilegiato per chiunque voglia investire in Africa”, “un hub preferenziale per gli investimenti in Africa” capace di “intercettare i capitali con maggiori propensione al rischio, che generano innovazione e maggiore valore aggiunto”; questa cosa, pensate un po’ – sostiene Simontacchi – potrebbe addirittura “massimizzare le possibilità per il nostro paese di giocare un ruolo nelle grandi sfide del futuro quali, ad esempio, l’intelligenza artificiale, i droni, la space economy e l’idrogeno” e sapete grazie a cosa in particolare? Grazie, scrive Simontacchi, “al quantum leap tecnologico di cui l’Africa beneficia”; scrive proprio così, giusto, quantum leap tecnologico: fuffa allo stato puro, come si confà a ogni arringa di un bravo avvocato che mescola un po’ a caso termini roboanti per sbalordire il pubblico prima di arrivare con nonchalance al vero nocciolo della questione. Per trasformarsi in questo fantomatico hub infatti, sottolinea Simontacchi, c’è bisogno di rivoltare come un calzino l’intero funzionamento della macchina statale a suon di “minore burocrazia, velocità nell’ottenimento dei permessi, certezza del diritto e fiscalità favorevole sia per l’investimento sia per la distribuzione dei proventi”: insomma, in soldoni, trasformare l’Italia in un paradiso fiscale e in una centrale mondiale del riciclaggio di proventi illeciti pronti a invadere l’Africa e depredarla come sempre di tutta la sua ricchezza, ma con mezzi innovativi e degni di una nuova copertina su GQ. Ma anche per chi non arriva ai deliri distopici di Simontacchi le aspettative rimangono comunque altissime: secondo Fester Sallusti, infatti, il piano finalmente sarebbe la realizzazione concreta del vecchio mantra dell’aiutiamoli a casa loro e farebbe in modo che “in almeno in una parte di quel continente nascano condizioni economiche e quindi sociali stabili per poter affermare il diritto a non emigrare”; dai, almeno ha specificato “almeno una parte di continente” e non proprio tutto tutto.
Ma quanto costa cambiare definitivamente la sorte di almeno un pezzo di continente? E’ qui la magia dei fratelli di mezza italia: assolutamente niente, manco un euro. A chiacchiere, infatti, il piano dovrebbe godere di una dotazione di 5,5 miliardi che, anche se fossero veri, sarebbero una goccia nell’oceano: soltanto per la transizione ecologica, il continente – infatti – è stato stimato avrebbe urgentemente bisogno di 500 miliardi e l’Unione Europea, nell’ambito della sua risposta alla Nuova Via della Seta cinese denominata Global Gateway, prevede finanziamenti diretti in Africa per circa 150 miliardi. Ovviamente, come abbiamo spiegato già svariate volte, è tutta fuffa: sono quasi esclusivamente investimenti diretti privati, quasi esclusivamente nel settore dell’energia fossile (che già esistono) ai quali l’Unione Europea aggiungerà qualche spicciolo del suo bilancio per poi ribattezzare il tutto con un nuovo nome per fare finta di aver imparato dai cinesi che l’era delle chiacchiere è finita e che anche l’Europa ha un piano concreto per lo sviluppo africano, ma almeno, fuffa per fuffa, l’hanno sparata grossa. Qui, ormai, anche a dire le cazzate siamo diventati scarsi: 5,5 miliardi che, appunto, non esistono; in parte lo spiega benissimo, con un altro vero e proprio capolavoro di satira involontaria, il vice direttore de La Verità, l’ex carabiniere Claudio Antonelli, che del suo vecchio mestiere ha mantenuto il rapporto non proprio confidenziale con la matematica delle scuole primarie. Antonelli spiega infatti che di questi 5,5 miliardi due arriveranno dai fondi che ogni anno vengono stanziati per la cooperazione e lo sviluppo: Antonelli ricorda come, ogni anno, per la cooperazione e lo sviluppo vengono stanziati circa 4,5 miliardi dei quali, però, soltanto il 40% è destinato all’Africa; “d’ora in avanti invece” annuncia entusiasta “ben 2 miliardi dei 4,5 andranno nel continente nero” e cioè esattamente il 40%, come prima. “Facile immaginare come cambierà la musica” commenta, con disprezzo per ogni forma di autostima: il bello è che una fetta di questi soldi per la cooperazione in realtà, secondo quanto denunciato dalle opposizioni, andavano e continueranno ad andare molto semplicemente direttamente ad ENI per progetti legati allo sfruttamento delle risorse fossili in Africa.
Oltre agli stessi identici soldi che abbiamo sempre mandato in Africa con scarsissimi risultati, comunque, quello che manca – invece – verrà preso dal fondo per il clima e tra l’altro, ricorda il ministero dell’ambiente, sono spalmati su più anni: 840 milioni l’anno dal 2022 al 2026 e altri 40 dal 2027 in poi; ma la cosa divertente è che erano soldi che dovevano servire ad accelerare la transizione ecologica e, quindi, a ridurre almeno in minima parte il gap che abbiamo accumulato in termini di investimenti per le energie rinnovabili e che invece, grazie al piano Mattei, vengono stornati su progetti che riguardano le fonti fossili. Che siano in Africa, diciamo, è secondario: se erano in Sardegna, per dire, lo facevano in Sardegna; come sottolineano quei troll favolosi di Libero di scrivere minchiate “la sinistra s’indigna, perché vorrebbe spenderli per inseguire gli obiettivi fissati negli accordi internazionali per la decarbonizzazione” che però, commentano, sono “del tutto inutili finché Cina e India non si impegneranno a fare altrettanto”. “Dirottare quei finanziamenti in Africa per costruire infrastrutture destinate a produrre e trasportare energia di cui beneficerà anche l’Italia” concludono “è molto più intelligente”. Insomma, tutto questo rumore per un piano che non esiste, che non è accompagnato da nessun progetto concreto, dove manca totalmente una lista dei risultati attesi, senza un euro in dotazione e portato avanti senza consultare la controparte: come svolta epocale un po’ pochino, diciamo. Forse la speranza era – molto banalmente – che quelle che temo continuino a considerare le solite vecchie faccette nere, non se accorgessero; d’altronde, vai a sapere come ragionano questi che vivono fuori dal nostro giardino ordinato.

Moussa Faki

A quanto pare però, incredibilmente, si sbagliavano: “l’Africa non si accontenta più di semplici promesse che poi non vengono mantenute” ha sottolineato nel suo intervento sempre Moussa Faki che poi, rivolgendosi direttamente al nostro prestigioso ministro degli esteri Antonio Tajani, ha ribadito “Sette anni fa mi sono presentato al Parlamento Europeo da Lei presieduto, e oggi trasmetto lo stesso concetto”. Insomma, carissimo Antonio, ‘ste chiacchiere son 10 anni che le sentiamo: cambia il packaging, ma la fuffa è sempre la stessa. E Moussa Faki almeno a Roma c’è venuto. La lista delle defezioni, infatti, è abbastanza pesante: l’Algeria, che è il primo partner commerciale dell’Italia nel continente e dove, recentemente, si sono recati di persona sia Mario Draghi che la Meloni, si è limitato a inviare la ministra degli esteri; l’Egitto, quella per la cooperazione internazionale. Per la Libia, secondo partner commerciale dell’Italia nel continente, il premier c’era pure, ma molto probabilmente quello sbagliato: mentre il debolissimo Dabaiba era a Roma, infatti, l’uomo forte della Cirenaica – quello che ha le chiavi delle risorse fossili del paese, il generale Haftar – si incontrava a Bengasi con il vice ministro della difesa russo Yunus-Bek Yevkurov. Solo che, invece di parlare di piani immaginari e di quattrini fantasma, parlavano di un accordo per una megabase navale a Tobruk. E la Libia di Haftar non è certo l’unico paese che privilegia i rapporti con la Russia rispetto alla fuffa meloniana: a mancare infatti, com’era più che prevedibile, erano anche Mali, Burkina Faso e Niger, i 3 paesi al centro della grande decolonizzazione dell’Africa occidentale. Dopo aver vissuto ognuno il suo golpe patriottico, sono stati minacciati di interventi militari dai vicini riuniti nell’ECOWAS e dai francesi: “Anche se i governanti militari del Niger chiedessero il ritiro delle truppe francesi, come è già accaduto nei vicini Mali e Burkina Faso” dichiarava nell’agosto 2023 alla PBS la portavoce del ministero degli esteri francese Anne-Claire Legendre “ciò non farebbe alcuna differenza. Non rispondiamo ai golpisti. Riconosciamo un solo ordine costituzionale e una sola legittimità, quella del presidente Bazoum”. E, invece, non solo alla fine i francesi sono stati cacciati, ma i tre paesi sono usciti dall’ECOWAS, hanno formato un’alleanza formale, stanno lavorando in prospettiva per una vera e propria confederazione e stanno rafforzando le relazioni con la Russia: pochi giorni fa, infatti, sono sbarcati in Burkina i primi 100 soldati dell’Africa Corps russo che, rivela Bloomberg, saranno presto seguiti da altri 200 uomini che contribuiranno all’addestramento delle forze armate. Intanto consiglieri russi sono già presenti da tempo in Mali e, secondo RT, il 17 gennaio sarebbe arrivato a Mosca il presidente della giunta nigerina e i due paesi avrebbero “concordato di sviluppare la cooperazione militare e di lavorare insieme per stabilizzare la sicurezza della regione” e ora questi tre paesi, scrive ancora il sempre lucidissimo Claudio Antonelli, “sono un problema per il piano Mattei”. Antonelli nella sua eterna confusione mentale, anche a questo giro, involontariamente, svela alcune delle riflessioni inconfessabili che attraversano il nostro governo di svendipatria e fintosovranisti al soldo di Washington: l’umiliazione della Francia nell’area ha sottratto alle ex potenze coloniali il loro avamposto ed ha lasciato “un buco geopolitico”; ora in quel buco si stanno insinuando le potenze, a partire dalla Russia, che sostengono e difendono la sovranità di questi governi multipolaristi. L’Italia, sostiene in sostanza Antonelli, è piazzata bene per cercare di diventare il cocco di Washington nell’area, molto meglio anche della Francia che, oltre ad essere ormai universalmente odiata, ogni tanto qualche velleità sovranista e di indipendenza – al contrario nostro – ancora ha provato a mantenerla; ovviamente, però, la situazione è tesa e quindi, sostiene Antonelli, “serviranno più fondi alla difesa, più elasticità in capo allo stato maggiore e” UDITE UDITE “un passo avanti nel campo della guerra ibrida” fino a “dotare l’Italia e l’Europa di compagnie militari private che tutelino secondo regole locali gli sforzi delle aziende italiane”.
Insomma, alla faccia del nuovo paradigma: visto dagli occhi dei sostenitori del governo il piano Mattei altro non è che il ritorno delle vecchie pulsioni coloniali, solo che questa volta sono in nome di Washington che ormai, però, come sponsor probabilmente non è manco più che sia tutto sto granché: mentre a Roma erano assenti i paesi sovranisti del Sahel, infatti, anche il loro più acerrimo amico c’aveva judo. Si chiama Bola Tinubu ed è il presidente della Nigeria che non solo è la prima potenza economica e demografica della regione, ma che era stato anche il primo artefice delle minacce d’intervento militare contro i golpe patriottici in nome dell’ECOWAS ma, a questo giro, sulla sete di vendetta ha avuto la meglio lo charme parigino: Tinubu, infatti, a Roma ha bucato pur non avendo nessun impegno; era, molto banalmente, in vacanza oltralpe. Alla Meloni non è rimasto che attaccarsi a Macky Sall, il presidente del Senegal, così amato nel suo paese e nell’intera regione che per piazzare uno dei suoi alle prossime elezioni di febbraio in Senegal ha dovuto sostanzialmente mettere in galera tutti gli oppositori e senza che, in questo caso, dalle nostre parti a nessuno venisse in mente di parlare di golpe.
Ormai siamo i Bernie Madoff della politica internazionale: le nostre iniziative sono solo schemi Ponzi che poggiano solo sui titoli della stampa filogovernativa, che nessuno legge. Sarebbe arrivata l’ora di costruire una vera alternativa, a partire da un vero e proprio media che dia voce al mondo nuovo che avanza, e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

2024: Come Evitare la Terza Guerra Mondiale e riprenderci i nostri soldi2024: L’ANNO DELLA SVOLTA

Il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e “in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Anche per quest’anno la vecchia riflessione dal carcere del vero padre nobile della patria continuerà ad essere, con ogni probabilità, la descrizione più efficace della complessa e caotica fase di transizione nella quale siamo immersi: dall’Ucraina al Medio Oriente passando per il Sahel e l’Asia Pacifico, e poi ancora per la crisi climatica, l’esplosione del debito, i colli di bottiglia delle supply chain e delle rotte commerciali, l’inesorabile declino dell’Unione Europea – e chi più ne ha più ne metta -, non esiste probabilmente partita di rilevanza globale che si avvii a una risoluzione netta e chiaramente intelligibile. Per dirla con il nostro amico e maestro Pierluigi Fagan, insomma, benvenuti nell’era della complessità dove qualsiasi semplificazione, più che aiutarci a fare un po’ di ordine, rischia inesorabilmente di distorcere la realtà a seconda delle nostre speranze e delle nostre preferenze. Di fronte a un flusso così imponente di eventi e di informazioni difficilmente schematizzabili e molto spesso totalmente contraddittorie, la tentazione potrebbe essere semplicemente quella di limitarsi alla mera contemplazione; tutto sommato, a meno di non essere a libro paga di qualcuno con il portafoglio pieno e un’agenda politica e ideologica precisa, chi te lo fa fare di scervellarti per cercare un ordine dietro tutto quel caos apparente quando, per fare due numeri, ti basterebbe sfruttare sapientemente un po’ di sensazionalismo e di clickbaiting?

Vladimir Il’ič Ul’janov

D’altronde è comunque sempre meglio che lavorare. Il punto, però, è che se c’è una cosa che la modernità ci ha insegnato è che, come riassumeva magistralmente il buon vecchio Vladimir Il’ič Ul’janov “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario” e visto che il vecchio mondo che muore, pur di non mollare la presa, sembra avere tutte le intenzioni di portarci tutti nella bara con lui, di non avere un autentico movimento rivoluzionario in grado di rovesciare il vecchio ordine come un calzino e di contribuire alla creazione di uno nuovo che garantisca la sopravvivenza della nostra specie, molto banalmente, non ce lo possiamo permettere. Ed ecco allora l’impegno che come Ottolina, nel nostro infinitamente piccolo, ci assumiamo solennemente per questo nuovo anno: continuare a provare a raccontarvi il mondo per quello che è invece che per quello che vorrebbero farvi credere che sia i proprietari dei mezzi di produzione del consenso, senza rinunciare nemmeno per un secondo a scervellarci per cercare di trovare un ordine e una logica dietro il caos apparente, e che sia uno splendido anno di conoscenza e di lotta per tutti, perché ogni vera grande rivoluzione, per quanto tragica, è prima di tutto una grandissima festa.
Il nostro breve giro del mondo in una decina abbondante di crisi, ovviamente, non poteva che partire dalla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, una guerra che, come sottolinea anche l’Economist, Israele ormai ha capito essere destinata a durare a lungo e senza avere idea di quale sarà l’esito; certo era prevedibile, ma tutt’altro che scontato. Anzi: la propaganda suprematista ha impiegato decenni e speso montagne di quattrini in una delle più imponenti macchine lobbystiche del pianeta per diffondere la leggenda metropolitana dell’inarrestabile macchina da guerra sionista. Si sono rivelati per il patetico bulletto di periferia che sono: un’efficiente macchina di morte contro donne e bambini, ma totalmente incapace di ottenere un qualche risultato politico e militare concreto. Il bluff dell’unica democrazia del Medio Oriente e della sua superiorità tecnologica non poteva essere svelato in modo più plateale: una patetica copertura buona giusto per i Saviano e Gramellini di turno, sempre felici di poter dissimulare la natura razzista, coloniale e genocida dell’avamposto dell’imperialismo USA dietro a una bella overdose di propaganda woke fatta su misura per i salotti televisivi di Fabio Fazio, i film di Spielberg e le serie Netflix. Lo sterminio indiscriminato della popolazione civile a Gaza e il sostegno incondizionato da parte del giardino ordinato hanno scosso la coscienza intorpidita anche di una bella fetta dei sostenitori della fuffa propagandistica dell’Occidente collettivo: bimbiminkia analfoliberali che avevano aderito entusiasti alla favola del mondo civile riunito come un sol uomo in difesa dei sacri valori della democrazia in Ucraina contro l’invasione barbarica dell’autoritarismo totalitario che arriva da Oriente, di fronte alla ferocia sfacciata del regime clericofascista di Tel Aviv hanno cominciato a nutrire qualche perplessità sulla missione civilizzatrice di Washington; certo è una contraddizione che ancora non si è risolta, e così continuiamo ad assistere allo spettacolo surreale di centinaia di anime belle che alternano un commento a sostegno della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a uno di condanna della stessa identica alleanza che magicamente, pochi chilometri più a sud, invece che difendere la democrazia difende un genocidio senza che gli venga in mente che le due cose probabilmente non sono molto compatibili.
Ovviamente, sperare che a risolvere la contraddizione sia il Giopizzi o l’Ivan Grieco di turno sarebbe velleitario; il punto però è un altro: l’ordine unipolare imposto dall’impero è così antistorico che giorno dopo giorno, per difenderlo, l’impero è costretto sempre di più a mostrare le sue carte e il bluff è talmente palese che magari Giopizzi e Ivan Grieco ancora non se ne accorgono, ma una fetta sempre più consistente di gente normale sì. L’Occidente collettivo spera di poter reagire semplicemente alzando l’asticella della macchina propagandistica, ma anche quello rischia di essere un trucchetto dalle gambe corte: la realtà parallela reinventata continuamente dai mezzi di produzione del consenso è ormai talmente scollegata dalla vita concreta che le persone normali vedono con i propri occhi che, ormai, l’ideologia del mainstream è diventata buona soltanto per farci i meme. Aumentando continuamente il dosaggio, la pillola blu di Matrix fa sempre meno effetto, tanto più se invece che al golden billion – il miliardo dorato del Nord globale – appartiene al resto della popolazione mondiale che è la stragrande maggioranza, a partire dagli oltre 2 miliardi di musulmani sparsi per il pianeta che, di fronte all’umiliazione inflitta a Israele dalla resistenza palestinese a partire dal 7 ottobre, hanno cominciato a realizzare la vera natura dell’imperialismo USA in Medio Oriente e il ruolo nefasto delle petromonarchie collaborazioniste del Golfo e non solo, e da allora si mobilitano senza sosta per chiedere un cambio di passo.
Ovviamente, per annunciare la fine dell’era del divide et impera fomentato dagli USA in Medio Oriente è decisamente ancora prestino, ma la rivoluzione – avviata con la riapertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia, poi consolidata col ritorno di Assad nella Lega Araba dopo 12 anni di esilio e, infine, amplificata a dismisura con l’operazione diluvio di al aqsa e tutto quello che ne è seguito – sembra ormai essere difficilmente reversibile; una rivoluzione che, come in altri contesti che affronteremo più avanti, mette le vecchie classi dirigenti di fronte a un bivio: continuare imperterriti con il vecchio ordine imperiale fino a che la corda non si spezza o scendere a patti con il nuovo ordine multipolare che, tra mille contraddizioni e mille battute di arresto, sembra comunque avanzare in modo inesorabile? Tradotto con nomi e cognomi per quanto riguarda il Medio Oriente: le petromonarchie continueranno a vedere nell’Iran e nell’asse della resistenza il nemico principale contro il quale chiedere la protezione di Washington e di Tel Aviv o, finalmente, si decideranno a contribuire alla creazione di un nuovo sistema di sicurezza regionale più democratico fondato sulla diplomazia, il compromesso e il dialogo? Ovviamente, la risposta dipenderà in buona parte anche da USA e Israele stessi e non solo dalle loro intenzioni, ma anche dalla possibilità concreta che hanno – o meno – ancora di influenzare la politica dell’area; in soldoni: gli USA sono disposti a rinunciare al ruolo – gelosamente e ferocemente custodito per decenni – di unica vera superpotenza dell’area? E se non sono disposti, hanno ancora gli strumenti per perseguire le loro ambizioni egemoniche?
Per quanto riguarda la volontà, ci sono un paio di considerazioni importanti da fare: l’egemonia USA in Medio Oriente ha rappresentato, per decenni – in particolare a partire dagli anni ‘70 – uno degli aspetti fondamentali della politica imperiale USA per almeno due ragioni; la prima è il ruolo fondamentale che l’asse con i sauditi e i petrodollari hanno ricoperto nell’affermazione del dollaro come moneta di riserva globale dopo la fine del gold standard a inizio anni ‘70. La seconda, anche in ordine temporale, è la dipendenza della Cina dal petrolio del Medio Oriente: sostanzialmente, attraverso l’egemonia nell’area, gli USA si sono garantiti il controllo dei rubinetti del bene fondamentale che permetteva alla Cina di diventare una superpotenza industriale. Entrambi questi fattori, però, nel tempo hanno ridotto la loro centralità strategica: da un lato, infatti, il dominio globale del dollaro oggi ha molto più a che vedere con i flussi finanziari che non con l’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento per il commercio globale del petrolio; dall’altro, la dipendenza della Cina dalle fonti fossili del Medio Oriente, per quanto ancora molto consistente, è in declino, sia perché le fonti di approvvigionamento sono più differenziate – a partire dalla Russia -, sia perché il mix energetico sta cambiando, in particolare a favore di rinnovabili e nucleare. Ovviamente con questo nessuno vuole sostenere che non si tratti più di un nodo cruciale, ma più semplicemente che l’egemonia incontrastata in Medio Oriente, in prospettiva, potrebbe non essere più una linea rossa invalicabile, anche perché le linee rosse invalicabili uno poi, realisticamente, deve anche essere in grado di difenderle – cosa che è sempre meno scontata. Lo spostamento dei rapporti di forza nell’area, infatti, realisticamente potrebbe essere invertito esclusivamente con l’annichilimento dell’Iran: fino a che l’Iran sta in piedi e continua ad essere il punto di riferimento per l’asse della resistenza, ti puoi sfogare a sterminare a caso qualche civile, ma le milizie che risorgono dalla cenere sono destinate ad essere sempre più forti e popolari e annichilire l’Iran potrebbe essere leggermente più complicato del previsto.
Ci siamo soffermati a lungo su questa prima tappa del nostro giro del mondo che ci aspetta nel 2024 perché, tutto sommato, lo schema – al netto delle millemila specificità e complessità che vanno sempre approfondite nello specifico – è tendenzialmente sempre quello; sostanzialmente, infatti, più o meno in ogni teatro è: governare il declino relativo e contribuire alla creazione di un un nuovo ordine cercando di stabilire delle linee rosse ragionevoli e compatibili con le legittime e realistiche aspirazioni delle potenze emergenti, o fissare linee rosse irrealistiche e incompatibili con il corso della storia per poi ritrovarsi a raccattare gigantesche figure di merda o, peggio ancora, ricorrendo a qualche democratico sterminio di massa, se non addirittura al confronto nucleare diretto tra grandi potenze? Ecco: questa è un po’ la lente attraverso la quale dovremmo provare a riportare un po’ di ordine dietro al caos apparente di eventi tra loro distinti, un’operazione complicata ma indispensabile e non solo per fare pulizia di tutta la fuffa suprematista della propaganda, ma anche – contemporaneamente – per evitare ogni avventurismo e ogni velleità. Nell’epoca della caccia al click, infatti, vince chi rilancia sempre più in alto fregandosene delle conseguenze. Non è il nostro obiettivo: da un lato siamo critici nei confronti del pacifismo di maniera e del culto astratto della non violenza che, in un mondo dove prevalgono i rapporti di forza e il ricorso sistematico alla violenza da parte dell’impero, equivale spesso semplicemente a una resa incondizionata; dall’altro, però, questa retorica futurista un po’ in stile guerra sola igiene del mondo che fa breccia nell’antimperialismo confuso è da scansare come la peste e non solo perché, ovviamente, pericolosissima ma anche perché spesso totalmente velleitaria, un’altra sfumatura di “estremismo” che è sempre una malattia infantile e controproducente. Un esempio virtuoso di come si possono faticosamente spostare in avanti gli equilibri senza rinunciare all’esercizio della forza, ma senza avventurismi, ci è stato offerto, ad esempio, dai golpe patriottici nel Sahel; in quel caso, il ricorso alla forza si è fondato su un sostegno popolare massiccio e ha saputo fare leva sulle debolezze dell’Occidente collettivo da un lato, e sul sostegno delle potenze emergenti dall’altro – sia di carattere militare che economico. E così i francesi sono stati costretti alla ritirata e il bluff delle minacce dell’ECOWAS è stato smascherato; ora le giunte militari di Niger, Mali e Burkina Faso si sono consolidate, hanno rafforzato la loro collaborazione e si stanno ritagliando faticosamente, giorno dopo giorno, pezzi di sovranità e di indipendenza e senza che gli USA dovessero rinunciare completamente alla loro influenza: semplicemente, hanno accettato un ridimensionamento dell’egemonia dell’Occidente collettivo nell’area in cambio della difesa dei loro interessi più immediati. Certo la transizione è stata agevolata dal fatto che a rimanere fregati, fondamentalmente, sono stati i francesi, e anche dal fatto che l’area non era esattamente in cima alle priorità USA, ma rimane comunque un esempio potenzialmente virtuoso di come si possa arretrare senza per forza subire una disfatta. I cultori della guerra come igiene del mondo probabilmente saranno rimasti un po’ delusi; in realtà, però, potrebbero essere gli unici: la transizione è stata piuttosto pacifica e senza particolari spargimenti di sangue e la presenza di più potenze potrebbe, in realtà, dare vita a una competizione positiva che permette a questi paesi in cerca di sovranità di non consegnarsi mani e piedi a nessuno, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista della sicurezza.
Non vorrei risultare eccessivamente ottimistico, ma un altro bilanciamento di forze potenzialmente positivo o, perlomeno, molto meno negativo di quanto si potesse prevedere fino a qualche tempo fa potrebbe essere anche quello di Taiwan; anche lì, alla base, c’è stata comunque una dimostrazione di forza: la Cina ha fatto capire, senza tanti giri di parole, che Taiwan è una linea rossa invalicabile, e di avere la capacità concreta di riappropriarsi dell’isola qualora la retorica indipendentista e le forniture di armi USA superassero la soglia di sicurezza. E così, dopo la pagliacciata di Nancy Pelosi nell’agosto del 2022, la situazione è gradualmente rientrata; gli è andata leggermente meglio che agli ucraini, così, a occhio: l’esempio più eclatante di cosa comporti ergersi eroicamente a punta di diamante della difesa dell’impero mentre l’impero è in declino. Nessuno potrà mai risarcire quel popolo martoriato per le sofferenze subite per aver prestato il fianco all’hubris del Nord globale. La speranza è che, perlomeno, serva da esempio; a partire dalle Filippine, dove sembra essersi spostato il baricentro della strategia del contenimento contro la Cina nell’Asia Pacifico dopo Taiwan. In quel caso, però, almeno hanno un’attenuante, come d’altronde ce l’aveva anche l’Ucraina: la vicinanza di un paese troppo ingombrante per non tentare di fare leva su un qualche bilanciamento di potenza per limitarne la proiezione egemonica, anche solo potenziale.

Alessandro Volpi

Un’attenuante che invece non ha l’Unione Europea, che si apprestano a confermarsi gli scemi del villaggio globale, anche se non proprio tutti; una minuscola élite economica, infatti, ha trovato il suo bengodi: con la protezione USA, continua a depredare l’intera economia del continente estraendo ricchezza in gran quantità da impiegare nelle bolle speculative USA e, grazie al passaggio attraverso i paradisi fiscali, senza manco pagarci le tasse. Come ricordava ieri il nostro Alessandro Volpi sul suo profilo Facebook, infatti, “secondo gli ultimi dati forniti dalla Paris School of Economics gli italiani più ricchi hanno trasferito nei paradisi fiscali 196,5 miliardi”, ma non solo: sempre Volpi ci ricorda anche come nel 2024 “dopo lunghe trattative internazionali, è finalmente entrata in vigore la Global Minimum Tax, che prevede un’aliquota del 15% sugli utili delle società con fatturato superiore a 750 milioni. Il gettito stimato” continua Volpi “è di 220 miliardi di dollari, che però, per come è costruita l’imposta, finiranno quasi esclusivamente negli Stati Uniti”. Il gettito nel 2025 per l’Italia, invece, sarà di appena 380 milioni.
Nel mondo che cambia, tutti si scervellano per capire come trarre il meglio dai nuovi equilibri tra potenze; noi ci facciamo derubare decine di miliardi ogni anno da una manica di parassiti e ci scanniamo per decidere se è meglio votare Giorgia Meloni o Elly Schlein. Che questo 2024 ci restituisca la capacità di leggere quello che ci succede attorno e la capacità di riappropriarci degli strumenti per rivoltare tutto come un calzino, a partire da un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elly Schlein