Skip to main content

Tag: piano

L’Italia si compra la Germania: cosa si nasconde dietro alla scalata di UniCredit a Commerzbank

Gli italiani si comprano le banche tedesche, di nuovo: Mercati in festa, tedeschi basiti titola Libero ostentando un po’ di sano orgoglio italico; il riferimento è all’operazione che mercoledì scorso, senza che nessuno se lo aspettasse, ha portato la milanese UniCredit ad acquisire il 9% di Commerzbank, la quinta banca tedesca per patrimonio gestito. UniCredit ha approfittato della svendita di una parte delle azioni della banca detenute dallo Stato tedesco, che aveva salvato l’istituto dal default durante la grande crisi finanziaria nel 2008 e che, a operazione finita, nella migliore delle ipotesi avrà perso 2,5 miliardi di euro dei contribuenti per metterli direttamente nelle tasche della grande finanza privata; e potrebbe essere solo l’inizio: lo Stato tedesco rimane infatti ad oggi il principale azionista, ma è intenzionato a liberarsi di tutto. D’altronde, dall’Italia alla Germania, funziona così: prima si socializzano le perdite e poi si privatizzano i profitti; lo Stato al servizio dei ricchi. L’amore di UniCredit per cruccolandia non è una novità: già nel 2005, in piena era Profumo, l’istituto milanese si era accattato Hypo Vereinsbank, HVB per gli amici. E gli amici sono tanti: era, ed è tutt’ora, la quinta banca del paese. Se UniCredit, come pare abbastanza probabile (anche se non scontato), portasse a termine l’acquisizione di Commerzbank, darebbe vita al primo polo bancario del paese in mano all’Italia, ma non certo nell’interesse degli italiani: la notizia shock dell’ascesa della finanza italiana nel cuore della principale potenza economica del vecchio continente, infatti, è il primo timido tentativo di dare vita concretamente ai propositi del Rapporto Draghi sulla Competitività dell’Europa, una competitività che – recita la sacra dottrina neoliberista – può essere raggiunta soltanto attraverso lo strapotere del capitalismo privato. La creazione di colossi bancari transcontinentali è la scorciatoia individuata per creare quel mercato unico dei capitali che non siamo riusciti a creare attraverso le istituzioni; e quel mercato unico dei capitali è il requisito minimo necessario di cui avremmo bisogno per dare vita a dei campioni continentali in grado di competere con i colossi globali (in particolare cinesi e statunitensi) nei settori più promettenti dell’economia del futuro, mentre tutto il resto dell’economia – quella che dà da mangiare e la speranza di una vita quasi dignitosa alla stragrande maggioranza dei cittadini europei – verrà gradualmente privata dell’accesso al credito (che solo una rete diffusa di banche locali fortemente vincolate al territorio può garantire) e se ne potrà andare beatamente affanculo. E visto che la Germania è il primo cliente dell’export italiano, alla fine a pagare il conto saremo, di nuovo, anche noi. Ma prima di addentrarci nei particolare di questa intricata vicenda che anticipa l’Europa che verrà nel prossimo futuro, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci anche oggi di combattere la nostra piccola guerra quotidiana con un monopolio che c’è già (quello degli algoritmi al servizio della propaganda dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino i monopoli finanziari a licenziare qualche decina di migliaia di bancari per far schizzare le azioni in borsa, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a far conoscere a sempre più persone il lato oscuro delle magnifiche sorti e progressive della grande concentrazione capitalistica.

L’Italia si compra la finanza tedesca a buon mercato: questa prima parte della scalata a Commerzbank è costata in tutto 1,5 miliardi; per UniCredit spiccioli. Con la corsa al rialzo dei tassi di interesse, le banche negli ultimi due anni hanno guadagnato cifre spropositate facendosi pagare una montagna di interessi dai debitori, senza riconoscere il becco d’un quattrino a chi, per pigrizia o per paura, lasciava i quattrini a svalutarsi sul conto corrente e con la complicità dei governi che, a un certo punto, per placare la rabbia popolare hanno annunciato tasse sugli extraprofitti, ma poi si sono scordati di applicarle sul serio perché c’avevano judo. E UniCredit è stata forse la banca che c’ha guadagnato di più in assoluto: oltre 20 miliardi di euro in due anni; per un’azienda che in borsa vale poco più di 55 miliardi, uno sproposito. Giusto per farsi un’idea, equivalgono ai profitti registrati da aziende come Pepsico, Cisco o Philip Morris o, per rimanere nel settore finanziario, a giganti come Allianz, Royal Bank of Canada o Morgan Stanley, tutte aziende ordini di grandezza più grandi e con capitalizzazioni di borsa che sono dalle tre alle quattro volte quella di UniCredit; ed ecco, così, che ora UniCredit si ritrova con una bella carta di credito illimitata per fare shopping in grande stile, tanto da presentarsi all’asta indetta dallo Stato tedesco con talmente tanta liquidità da sbaragliare la concorrenza di competitor del calibro di ING e BNP Paribas. D’altronde, Orcel, l’amministratore delegato della banca milanese, era in cerca di acquisizioni da tempo: prima aveva puntato gli occhi su MPS, ma aveva chiesto garanzie talmente pesanti che anche degli svendi-patria di professione come i meloniani di palazzo Chigi sono stati costretti a soprassedere. Poi era stato il turno di Banco BPM, un’operazione che però, evidentemente, a più di qualcuno non andava molto a genio: nel bel mezzo della trattativa c’è stata una fuga di notizie che ha fatto esplodere le quotazioni della banca che, a quel punto, non era più appetibile.
La svendita delle quote pubbliche della Commerzbank era l’occasione d’oro che stava aspettando e che aveva preparato da tempo: UniCredit, infatti, aveva già fatto una prima campagna acquisti in Germania nel 2005 con Alessandro Profumo, quando aveva scalato la proprietà di HVB che, in termini di asset, è la quinta banca del Paese, ma in termini di sportelli è la terza – che è anche il motivo per il quale ai sindacati tedeschi la scalata di UniCredit non piace manco un po’: a differenza dei concorrenti ING e BNP Paribas infatti, ovviamente (e giustamente) vedono all’orizzonte massicce sforbiciate di personale approfittando delle sinergie possibili tra Commerz e HVB. L’idea di una fusione tra UniCredit e Commerzbank, poi, era stata rispolverata da Orcel pochi mesi dopo la sua nomina, a fine 2021, ma poco dopo la guerra in Ucraina aveva fatto saltare il tavolo e non era manco la prima volta: già prima di Orcel “A provare ad affondare il colpo” ricorda Il Sole 24 Ore “era stato l’ex CEO Jean Pierre Mustler che, a più riprese, tra il 2015 e il 2019 aveva tentato di intavolare una trattativa con il governo tedesco che però era finita nel nulla anche proprio a causa della riottosità dei sindacati tedeschi”. Altri tempi. Ora però, dopo il Rapporto Draghi, l’idea è che le concentrazioni non possano più attendere e che quei conservatori dei sindacati si devono attaccare al tram. Il sindacato Ver.di (che non c’entra niente con i talebani dell’ecologismo imperiale in stile Anna Baerbock) comunque c’hanno provato e hanno “esortato il governo a interrompere la vendita e a bloccare qualsiasi potenziale acquisizione da parte di UniCredit”; la fusione tra Commerzbank e HVB darebbe vita al primo polo bancario del paese e a una ristrutturazione che pagherebbero i lavoratori: “Se i sogni di gloria di Orcel sono grandi” commenta il Sole, “la strada è in salita”.
Fortunatamente per Orcel, però, è una salita dorata: il titolo di Commerzbank mercoledì, infatti, ha guadagnato in una botta sola il 17%; anche se dovesse fallire la scalata, si sarebbe comunque trattato di un tentativo piuttosto redditizio pagato dai contribuenti tedeschi. Che uno dice: bene, ci godo, una volta tanto; peccato che i soldi non andranno in tasca di altri cittadini europei derubati dall’Europa ordoliberista a trazione tedesca. Indovinate un po’, invece, a chi andranno in tasca? Esatto, proprio a loro: le Big Three che, a questo giro, sono soltanto due; BlackRock e Vanguard, infatti, non sono solo i due azionisti principali di UniCredit, ma anche (subito dietro al governo tedesco) di Commerzbank. Almeno fino a ieri, quando – appunto – il secondo azionista è diventato UniCredit che però, a sua volta, significa principalmente BlackRock e Vanguard. Insomma: come la rigiri la rigiri, quel bel +17% di ieri guarda caso va in tasca ai grandi monopoli finanziari a stelle e strisce; come operazione per salutare la svolta eurosovranista annunciata dal Piano Draghi non c’è malaccio, diciamo. E quel +17% è solo la punta dell’iceberg: “Bene che andrà” ricorda infatti il Sole, “i contribuenti tedeschi subiranno una perdita secca di circa 2,5 miliardi di euro”; a tanto, infatti, ammonta la perdita per le casse tedesche che si registrerà quando sarà finita la svendita anche del restante 12% di Commerzbank che, per ora, è rimasto nelle casse del Fondo per la stabilizzazione del mercato finanziario, un eufemismo gentile per indicare un fondo pensato per rubare soldi ai contribuenti e metterli in tasca agli oligarchi. Per salvare la banca nel 2008 lo Stato, infatti, aveva sborsato oltre 5 miliardi; se rivendesse tutte le sue quote ai 13,20 euro per azione sborsati mercoledì da UniCredit, ne incasserebbe in tutto 2,5.
Nel 2008 l’operazione Commerzbank stava dentro a un operazione molto più grossa, dove lo Stato si comprava, a prezzi che non avevano niente a che vedere con i prezzi reali di mercato, il 25% dell’intera industria del credito tedesco “per evitare il contagio e proteggere così l’intero 100%” (Il Sole 24 Ore); subito dopo l’acquisto, le azioni pagate 26 euro sono crollate a un quinto del valore e non hanno mai ripreso il volo. Per questo sbarazzarsi delle sue quote per il governo si è sempre rivelata una mission impossible: come lo giustifichi il fatto di aver regalato qualche miliardo a degli oligarchi mentre la tua economia cade letteralmente a pezzi perché, in ossequio al rigore di bilancio, sono 20 anni che non fai un euro di investimenti? Ma non solo. Lo Stato tedesco con Commerzbank s’è comportato come il più intransigente dei padroni e ha portato avanti una cura da cavallo a forza di tagli e ridimensionamenti del personale; aggiungici il biennio d’oro per l’intero comparto bancario europeo innescato dalla corsa al rialzo dei tassi di interesse ed ecco che la ristrutturazione è avvenuta: Commerzbank è tornata ad essere redditizia e ha cominciato a portare un po’ di quattrini nelle casse dello Stato. E proprio adesso vuoi vendere? Ma sei scemo? Fortunatamente, però, adesso è arrivata l’occasione d’oro: per chiudere il budget statale del 2025 alla Germania gli mancano svariati miliardi; ovviamente, non è che mancano davvero, ma esclusivamente perché si continua a venerare il Dio dell’austerity senza nessuna motivazione razionale concreta. Ma il lavaggio del cervello sistematico della propaganda è riuscito a diffondere questa religione in buona parte del popolo tedesco, che ora è addirittura disposto a veder regalare qualche miliardo di soldi suoi ai finanzieri piuttosto che vedere infrangere il tabù del pareggio di bilancio; l’unica speranza è che il lavaggio del cervello non sia stato così profondo da impedire alle persone in carne ed ossa di battersi per difendere almeno i loro interessi concreti immediati.
In virtù del sistema di governance duale che vige in Germania, infatti, i rappresentanti dei lavoratori siedono direttamente nel consiglio di sorveglianza di Commerzbank, da dove qualche strumento per ostacolare l’operazione ce l’avrebbero pure. E i motivi per opporsi sono parecchi: basta guardarsi indietro. Quando UniCredit nel 2005 s’è comprata HPV, nel giro di poche settimane ha subito annunciato tagli per migliaia di posti di lavoro: “Non abbiamo bisogno di un altro disastro come quello che abbiamo visto con Hypo” ha dichiarato a Bloomberg uno dei sindacalisti che siede nel CdA di Commerzbank; “Non abbiamo bisogno che gli italiani vengano e facciano saltare le banche tedesche tradizionali”. E il problema non riguarda solo i posti di lavoro diretti: il processo di concentrazione bancaria infatti, al contrario delle vaccate spacciate dagli analfoliberali, non è solo e semplicemente un processo di efficientamento da affrontare come un problema tecnico; è un problema eminentemente politico. Le fusioni infatti, ovviamente, non rispondono tanto a criteri di carattere industriale, ma prevalentemente a criteri speculativi: sono solo i mega-gruppi, infatti, a spartirsi la torta della capitalizzazione in borsa. Peccato, però, che le banche non sono aziende come tutte le altre: sono il cuore di ogni sistema industriale moderno ed hanno il compito di iniettare nell’organismo il sangue e, cioè, la liquidità, i piccioli; ma mega-gruppi totalmente scollegati da qualsiasi forma di insediamento territoriale – e totalmente orientati alla rendita finanziaria e a pompare a dismisura e senza sosta il prezzo delle azioni attraverso la spartizione del mercato tra pochi colossi oligopolistici – non sono minimamente in grado di garantire al sistema produttivo di medie e piccole aziende di un territorio l’afflusso di sangue necessario. La battaglia dei sindacati contro le fusioni che creano la rendita in borsa, ma distruggono la capacità di creare valore reale, non è quindi solo una sacrosanta battaglia in difesa del loro lavoro e della loro dignità, ma una battaglia in difesa del lavoro e della dignità di tutti. Sarebbe importante ricordarselo: in Europa, infatti, spuntano come funghi forze politiche che si autodefiniscono sovraniste e si auto-rappresentano come in profondo conflitto con le oligarchie globaliste; e grazie a questa retorica, comprensibilmente, fanno il pieno di voti tra le fasce popolari. Peccato che poi, però, se minimamente ti prendi la briga di andare a vedere le loro proposte di politica economica, ti accorgi che sono più liberiste di Reagan, della Thatcher e di quel pagliaccio di Javier motosega Milei messi assieme; e che quando elencano le élite globaliste che vogliono radere al suolo, non ci sono i membri della nuova aristocrazia come Elon Musk o Jamie Dimon (che, nella loro fantasia, i soldi se li sono guadagnati col sudore, alla faccia dell’invidia di voi zecche comuniste), ma i sindacati. E non alcuni specifici sindacati, giustamente accusabili di essere troppo accondiscendenti nei confronti delle élite, ma proprio dei sindacati in quanto tali – che, quindi, vanno annientati tout court – ed eliminare così ogni ostacolo residuo ad operazioni come questa mega-fusione dove gli unici che possono eventualmente fare qualcosa, appunto, sono proprio i sindacati (che così si ritrovano a combattere da soli sia contro finto-sovranisti che contro veri analfoliberali).
La propaganda della sinistra ZTL, infatti, è spietata: La Repubblichina sottolinea come “Un’integrazione con Commerzbank creerebbe economie di scala e sinergie nel ramo imprese e Pmi in Germania, dove Commerz è già oggi leader, e l’Italia è il primo partner dei tedeschi nell’import-export”. Insomma: sempre la solita vecchia minestra riscaldata della contrapposizione tra lavoratori conservatori, che guardano solo al loro ombelico, e le magnifiche sorti e progressive della tecnocrazia turbo-liberista. La Repubblichina vuole spacciare fusioni che guardano esclusivamente alla borsa e alla rendita finanziaria come occasioni d’oro per lo sviluppo dell’economia reale, che poi però, guarda caso, non arriva mai (mentre i dividendi, quelli sì che arrivano sempre: puntuali come un orologio svizzero). Te guarda la sfortuna, alle volte…Lo sa bene il governo spagnolo che da mesi è messo sotto pressione dalle oligarchie atlantiche (e dalla propaganda che gli fa da portavoce) nel tentativo di convincerlo a mettere sul piatto della grande mangiatoia delle fusioni transfrontaliere europee fiori all’occhiello del sistema bancario spagnolo come BBVA : “La mossa di UniCredit” insiste quindi la Repubblichina “è importante proprio perché rilancia le fusioni transfrontaliere”.
Che il processo di fusione e di creazione di giganti bancari transfrontalieri presenti decisamente più rischi di quanto gli innamorati delle magnifiche sorti e progressive de La Repubblichina siano in grado di concepire, sembra essere un’idea che va ben oltre i confini del mondo Ottolino e anche di quello dei sindacati: secondo tutti i commenti dei grandi media finanziari, ad essere stati colti di sorpresa sarebbero stati per primi proprio gli stessi funzionari del governo che, scrive Bloomberg, “si aspettavano che un gran numero di diversi investitori avrebbero acquistato le azioni della Commerzbank, mantenendo la quota di ciascuno a livelli modesti”, cosa che – continua l’articolo – “avrebbe contribuito a garantire che la banca rimanesse indipendente e continuasse a concentrarsi sui prestiti alle imprese di medie dimensioni nel suo mercato interno”; “La Germania” avrebbe ribadito un funzionario al Financial Times “ha bisogno di banche nazionali per finanziare la propria economia, il Mittelstand” (e cioè, appunto, le piccole e medie aziende che rappresentano il cuore del tessuto produttivo tedesco) “e la Commerzbank da questo punto di vista è fondamentale. Questo accordo” avrebbe concluso “non è solo un accordo finanziario, è un accordo politico”. Fabio De Masi, membro del Parlamento europeo tra le fila del neonato partito di Sahra Wagenknecht e vecchio amico di Ottolina, ha sottolineato come “L’economia tedesca è attualmente esposta a grandi shock e quindi abbiamo bisogno più che mai di finanziatori affidabili per le piccole e medie imprese” ma, appunto, questa operazione va vista inquadrata in un contesto più ampio.
Il contesto più ampio dove inquadrare anche la scalata tedesca di UniCredit è, appunto, quello che è stato delineato dal rapporto sul futuro della competitività dell’Europa di SanMarioPio da Goldman Sachs: “Curiosamente” ricorda, ad esempio, Paul Davies su Bloomberg “proprio questa settimana, l’ex premier italiano ha aperto un potenziale percorso che consentirebbe finalmente a gruppi bancari realmente paneuropei di emergere”; l’idea sostanzialmente è – dopo che in 31 di Maastricht non s’è fatto mezzo passo in avanti verso una vera unione bancaria – provare a percorrere la scorciatoia di un’unione bancaria di fatto limitata ai grandi gruppi, che dovrebbero infrangere il tabù della fusione tra istituti di paesi diversi e usare il loro peso specifico per forzare i limiti che ancora oggi ostacolano la libera circolazione dei capitali. “UniCredit” scrive sempre Davis su Bloomberg “è un buon caso di studio per capire quali sono oggi gli ostacoli e perché questa forzatura è necessaria. La banca milanese è già presente oggi in Germania con HVB, ma la natura frammentata della finanza europea fa sì che i depositi e i capitali rimangano sostanzialmente intrappolati in Germania e non possano arrivare alla sede centrale di Milano per essere distribuiti tra i soci sotto forma di dividendi”; ovviamente, nell’ottica predatoria del capitale, questi ostacoli – benché non abbiano impedito ai soci di UniCredit, come delle altre banche, di accumulare una quantità spropositata di profitti – impediscono la nascita di gruppi continentali in grado di tenere il passo con i grandi concorrenti internazionali. “L’Europa” aveva sottolineato lo scorso novembre proprio dagli schermi di BloombergTV Orcel in persona “ha bisogno di banche con capitalizzazioni di mercato superiori a 100 miliardi di dollari se vogliamo che questo blocco economico regga nei confronti degli Stati Uniti o della Cina”, con una piccolissima differenza: in Cina, infatti, le grandi banche sono controllate dallo Stato e le politiche che adottano devono adeguarsi agli obiettivi politici dettati dal governo; che se quindi, per fare un esempio, decide che nella provincia soncazzoio spersa nel deserto del Gobi bisogna dare benzina alle aziende locali per ridurre il divario con le parti più sviluppate del Paese, le banche – di riffa o di raffa – sono costrette a muoversi. Insomma: l’economia reale e le finalità politiche che, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, si vogliono raggiungere, hanno la priorità assoluta. Nel caso delle mega-banche private, l’unica finalità rimane sempre e soltanto la massima remunerazione del capitale possibile immaginabile, che si ottiene concentrando sempre più quattrini laddove ce ne sono già in abbondanza (e quindi aumentando a dismisura le differenze, invece che ridurle). Che è, appunto, esattamente la logica del Piano Draghi: concentrare le risorse in mano a pochi campioni continentali in grado di competere sui mercati internazionali – e che siano quindi in grado di garantire anche alle nostre oligarchie i super-profitti che garantiscono i mercati speculativi d’oltreoceano – mentre il resto dell’economia (e quindi tutti noi) se ne possono – appunto -allegramente andare affanculo.
Quindi, riassumendo, grazie ai soldi che UniCredit ha fregato ai correntisti negli ultimi 2 anni (e che Giorgia la Madre Cristiana ha deciso di lasciargli in cassaforte senza chiedere niente in cambio), UniCredit fa un’operazione che distrugge direttamente posti di lavoro nel settore bancario in Germania e, in prospettiva, contribuisce a distruggerne molti di più nell’industria, che è il primo cliente dei produttori italiani che quindi, dopo essere stati scippati in banca, si troveranno pure senza lavoro. Mentre BlackRock, Vanguard e le oligarchie che rappresentano guadagnano una marea di quattrini per ognuno di questi passaggi. E quindi, insomma, per rispondere alla domanda iniziale: no, non è l’Italia che si compra la Germania, ma sono le oligarchie transatlantiche rappresentate da BlackRock e Vanguard che si comprano l’Europa e lasciano i cittadini europei, a partire da quelli italiani, in mutande. E meno male che il Piano Draghi ci doveva dare la sveglia… Qui ce l’ha data la sveglia: sui denti! Speriamo almeno mi colga bene, così magari me li raddrizza un po’… Mi sa che se ci vogliamo dare una sveglia, tocca pensarci da soli e, per farlo, ci serve come il pane un vero e proprio media che, invece che fare da megafono agli interessi delle oligarchie finanziarie, dia voce agli interessi di quegli zozzoni conservatori e ottusi dei lavoratori e del 99%. Aiutaci a a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elsa Fornero

MELONI L’AFRICANA – Putin e il Sud globale smascherano la pantomima del piano Mattei

Patto con l’Africa titolava a 6 colonne il Giornanale martedì: “Storico incontro con 25 leader, VIA AL PIANO MATTEI”, ma non pensate male. Non è il remake di Faccetta Nera: la Giorgiona nazionale ha preso atto che il mondo è cambiato e s’è riscoperta un po’ il Thomas Sankara de noantri e promette “un nuovo modello di sviluppo dell’Africa”; “Una nuova pagina nelle nostre relazioni” sottolinea enfaticamente la nostra MadreCristiana “basata su una cooperazione strutturale, da pari a pari, lontana da quell’approccio predatorio che per troppo tempo ha caratterizzato le relazioni con l’Africa e che troppo spesso ha impedito all’Africa di crescere e prosperare come avrebbe potuto”. Ha fatto più la Meloni “che gli altri in 100 anni” esulta il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari rilancia: “Meloni ha appena ribaltato 200 anni di storia europea”. “E’ l’inizio di una nuova stagione” conclude la Giorgiona nazionale, una svolta epocale “che dobbiamo e possiamo fare insieme”. Un copione hollywoodiano impeccabile, col supervillain che, dopo averne combinate più di Pinocchio, alla fine si ravvede e pieno di compassione tende la mano alla sua vittima in mondovisione; ma il colpo di scena è sempre dietro l’angolo. Ed ecco così che quando meno te lo aspetti – sempre ancora in pieno stile hollywoodiano – arriva l’evento inatteso che squarcia la superficie patinata, la variabile che era stata trascurata e che ribalta in un colpo solo tutta la narrazione.
A questo giro, questa variabile si chiama Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana e una vecchia conoscenza di Giorgia: 2 mesi fa, due giornalisti russi le avevano fatto uno scherzetto e spacciandosi per Faki l’avevano tenuta mezz’ora al telefono. “Questa volta è quello vero” ha dichiarato scherzando Giorgiona; forse erano meglio i comici russi. “Sul piano Mattei” ha scandito infatti Faki durante il suo intervento “avremmo auspicato di essere consultati”; e meno male era l’alba di una nuova era all’insegna del dialogo e del rapporto tra pari: Giorgiona del piano Mattei ha parlato di più con due comici russi che con il presidente dell’Unione Africana. Cosa mai potrebbe andare storto?

Fester Sallusti

Così l’Italia torna in campo titola entusiasta il suo editoriale Fester Sallusti: “in questo piano” – scrive coi lucciconi agli occhi la penna più reazionaria d’Italia – “credo ci sia l’essenza della politica di Giorgia Meloni e del suo governo: avere una visione politica di dove portare questo strano paese al di là delle contingenze che continuamente lo assillano”. Peccato che la destinazione sia sempre la stessa: il Regno Incantato della Post Verità. A chiacchiere, infatti, la narrazione che circonda la favola del piano Mattei è inappuntabile perché non solo, appunto, prende le distanze dalle antiche tentazioni predatorie, ma “anche da quell’impostazione caritatevole nell’approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo” (Giorgia Meloni); insomma, dopo aver passato gli ultimi 15 anni a parlare a vanvera del nuovo colonialismo cinese in Africa, alla fine si è costretti a copiarne l’approccio: l’Africa non è solo un fardello, ma una straordinaria opportunità. E non si tratta di fare la carità, ma di mettere da parte, appunto, le tentazioni predatorie e di permetterle finalmente di liberare tutte le sue potenzialità produttive: Giorgia ricorda come il continente nero è tutt’altro che povero ma, al contrario, racchiude il 30% delle risorse minerarie mondiali e il 60% delle terre coltivabili, e con il 60% della popolazione che ha meno di 25 anni è il continente più giovane del pianeta. Tra i più entusiasti c’è Stefano Simontacchi che, in passato, è stato nominato da questa stramba classifica stilata da GQ Italia (e di cui sinceramente nessuno sentiva il bisogno) L’avvocato più potente d’Italia e che dalle pagine del Corriere della Serva si sfrega già le mani: l’obiettivo dell’Italia, sostiene Simontacchi, dovrebbe essere quello di diventare nientepopodimeno che il “partner privilegiato per chiunque voglia investire in Africa”, “un hub preferenziale per gli investimenti in Africa” capace di “intercettare i capitali con maggiori propensione al rischio, che generano innovazione e maggiore valore aggiunto”; questa cosa, pensate un po’ – sostiene Simontacchi – potrebbe addirittura “massimizzare le possibilità per il nostro paese di giocare un ruolo nelle grandi sfide del futuro quali, ad esempio, l’intelligenza artificiale, i droni, la space economy e l’idrogeno” e sapete grazie a cosa in particolare? Grazie, scrive Simontacchi, “al quantum leap tecnologico di cui l’Africa beneficia”; scrive proprio così, giusto, quantum leap tecnologico: fuffa allo stato puro, come si confà a ogni arringa di un bravo avvocato che mescola un po’ a caso termini roboanti per sbalordire il pubblico prima di arrivare con nonchalance al vero nocciolo della questione. Per trasformarsi in questo fantomatico hub infatti, sottolinea Simontacchi, c’è bisogno di rivoltare come un calzino l’intero funzionamento della macchina statale a suon di “minore burocrazia, velocità nell’ottenimento dei permessi, certezza del diritto e fiscalità favorevole sia per l’investimento sia per la distribuzione dei proventi”: insomma, in soldoni, trasformare l’Italia in un paradiso fiscale e in una centrale mondiale del riciclaggio di proventi illeciti pronti a invadere l’Africa e depredarla come sempre di tutta la sua ricchezza, ma con mezzi innovativi e degni di una nuova copertina su GQ. Ma anche per chi non arriva ai deliri distopici di Simontacchi le aspettative rimangono comunque altissime: secondo Fester Sallusti, infatti, il piano finalmente sarebbe la realizzazione concreta del vecchio mantra dell’aiutiamoli a casa loro e farebbe in modo che “in almeno in una parte di quel continente nascano condizioni economiche e quindi sociali stabili per poter affermare il diritto a non emigrare”; dai, almeno ha specificato “almeno una parte di continente” e non proprio tutto tutto.
Ma quanto costa cambiare definitivamente la sorte di almeno un pezzo di continente? E’ qui la magia dei fratelli di mezza italia: assolutamente niente, manco un euro. A chiacchiere, infatti, il piano dovrebbe godere di una dotazione di 5,5 miliardi che, anche se fossero veri, sarebbero una goccia nell’oceano: soltanto per la transizione ecologica, il continente – infatti – è stato stimato avrebbe urgentemente bisogno di 500 miliardi e l’Unione Europea, nell’ambito della sua risposta alla Nuova Via della Seta cinese denominata Global Gateway, prevede finanziamenti diretti in Africa per circa 150 miliardi. Ovviamente, come abbiamo spiegato già svariate volte, è tutta fuffa: sono quasi esclusivamente investimenti diretti privati, quasi esclusivamente nel settore dell’energia fossile (che già esistono) ai quali l’Unione Europea aggiungerà qualche spicciolo del suo bilancio per poi ribattezzare il tutto con un nuovo nome per fare finta di aver imparato dai cinesi che l’era delle chiacchiere è finita e che anche l’Europa ha un piano concreto per lo sviluppo africano, ma almeno, fuffa per fuffa, l’hanno sparata grossa. Qui, ormai, anche a dire le cazzate siamo diventati scarsi: 5,5 miliardi che, appunto, non esistono; in parte lo spiega benissimo, con un altro vero e proprio capolavoro di satira involontaria, il vice direttore de La Verità, l’ex carabiniere Claudio Antonelli, che del suo vecchio mestiere ha mantenuto il rapporto non proprio confidenziale con la matematica delle scuole primarie. Antonelli spiega infatti che di questi 5,5 miliardi due arriveranno dai fondi che ogni anno vengono stanziati per la cooperazione e lo sviluppo: Antonelli ricorda come, ogni anno, per la cooperazione e lo sviluppo vengono stanziati circa 4,5 miliardi dei quali, però, soltanto il 40% è destinato all’Africa; “d’ora in avanti invece” annuncia entusiasta “ben 2 miliardi dei 4,5 andranno nel continente nero” e cioè esattamente il 40%, come prima. “Facile immaginare come cambierà la musica” commenta, con disprezzo per ogni forma di autostima: il bello è che una fetta di questi soldi per la cooperazione in realtà, secondo quanto denunciato dalle opposizioni, andavano e continueranno ad andare molto semplicemente direttamente ad ENI per progetti legati allo sfruttamento delle risorse fossili in Africa.
Oltre agli stessi identici soldi che abbiamo sempre mandato in Africa con scarsissimi risultati, comunque, quello che manca – invece – verrà preso dal fondo per il clima e tra l’altro, ricorda il ministero dell’ambiente, sono spalmati su più anni: 840 milioni l’anno dal 2022 al 2026 e altri 40 dal 2027 in poi; ma la cosa divertente è che erano soldi che dovevano servire ad accelerare la transizione ecologica e, quindi, a ridurre almeno in minima parte il gap che abbiamo accumulato in termini di investimenti per le energie rinnovabili e che invece, grazie al piano Mattei, vengono stornati su progetti che riguardano le fonti fossili. Che siano in Africa, diciamo, è secondario: se erano in Sardegna, per dire, lo facevano in Sardegna; come sottolineano quei troll favolosi di Libero di scrivere minchiate “la sinistra s’indigna, perché vorrebbe spenderli per inseguire gli obiettivi fissati negli accordi internazionali per la decarbonizzazione” che però, commentano, sono “del tutto inutili finché Cina e India non si impegneranno a fare altrettanto”. “Dirottare quei finanziamenti in Africa per costruire infrastrutture destinate a produrre e trasportare energia di cui beneficerà anche l’Italia” concludono “è molto più intelligente”. Insomma, tutto questo rumore per un piano che non esiste, che non è accompagnato da nessun progetto concreto, dove manca totalmente una lista dei risultati attesi, senza un euro in dotazione e portato avanti senza consultare la controparte: come svolta epocale un po’ pochino, diciamo. Forse la speranza era – molto banalmente – che quelle che temo continuino a considerare le solite vecchie faccette nere, non se accorgessero; d’altronde, vai a sapere come ragionano questi che vivono fuori dal nostro giardino ordinato.

Moussa Faki

A quanto pare però, incredibilmente, si sbagliavano: “l’Africa non si accontenta più di semplici promesse che poi non vengono mantenute” ha sottolineato nel suo intervento sempre Moussa Faki che poi, rivolgendosi direttamente al nostro prestigioso ministro degli esteri Antonio Tajani, ha ribadito “Sette anni fa mi sono presentato al Parlamento Europeo da Lei presieduto, e oggi trasmetto lo stesso concetto”. Insomma, carissimo Antonio, ‘ste chiacchiere son 10 anni che le sentiamo: cambia il packaging, ma la fuffa è sempre la stessa. E Moussa Faki almeno a Roma c’è venuto. La lista delle defezioni, infatti, è abbastanza pesante: l’Algeria, che è il primo partner commerciale dell’Italia nel continente e dove, recentemente, si sono recati di persona sia Mario Draghi che la Meloni, si è limitato a inviare la ministra degli esteri; l’Egitto, quella per la cooperazione internazionale. Per la Libia, secondo partner commerciale dell’Italia nel continente, il premier c’era pure, ma molto probabilmente quello sbagliato: mentre il debolissimo Dabaiba era a Roma, infatti, l’uomo forte della Cirenaica – quello che ha le chiavi delle risorse fossili del paese, il generale Haftar – si incontrava a Bengasi con il vice ministro della difesa russo Yunus-Bek Yevkurov. Solo che, invece di parlare di piani immaginari e di quattrini fantasma, parlavano di un accordo per una megabase navale a Tobruk. E la Libia di Haftar non è certo l’unico paese che privilegia i rapporti con la Russia rispetto alla fuffa meloniana: a mancare infatti, com’era più che prevedibile, erano anche Mali, Burkina Faso e Niger, i 3 paesi al centro della grande decolonizzazione dell’Africa occidentale. Dopo aver vissuto ognuno il suo golpe patriottico, sono stati minacciati di interventi militari dai vicini riuniti nell’ECOWAS e dai francesi: “Anche se i governanti militari del Niger chiedessero il ritiro delle truppe francesi, come è già accaduto nei vicini Mali e Burkina Faso” dichiarava nell’agosto 2023 alla PBS la portavoce del ministero degli esteri francese Anne-Claire Legendre “ciò non farebbe alcuna differenza. Non rispondiamo ai golpisti. Riconosciamo un solo ordine costituzionale e una sola legittimità, quella del presidente Bazoum”. E, invece, non solo alla fine i francesi sono stati cacciati, ma i tre paesi sono usciti dall’ECOWAS, hanno formato un’alleanza formale, stanno lavorando in prospettiva per una vera e propria confederazione e stanno rafforzando le relazioni con la Russia: pochi giorni fa, infatti, sono sbarcati in Burkina i primi 100 soldati dell’Africa Corps russo che, rivela Bloomberg, saranno presto seguiti da altri 200 uomini che contribuiranno all’addestramento delle forze armate. Intanto consiglieri russi sono già presenti da tempo in Mali e, secondo RT, il 17 gennaio sarebbe arrivato a Mosca il presidente della giunta nigerina e i due paesi avrebbero “concordato di sviluppare la cooperazione militare e di lavorare insieme per stabilizzare la sicurezza della regione” e ora questi tre paesi, scrive ancora il sempre lucidissimo Claudio Antonelli, “sono un problema per il piano Mattei”. Antonelli nella sua eterna confusione mentale, anche a questo giro, involontariamente, svela alcune delle riflessioni inconfessabili che attraversano il nostro governo di svendipatria e fintosovranisti al soldo di Washington: l’umiliazione della Francia nell’area ha sottratto alle ex potenze coloniali il loro avamposto ed ha lasciato “un buco geopolitico”; ora in quel buco si stanno insinuando le potenze, a partire dalla Russia, che sostengono e difendono la sovranità di questi governi multipolaristi. L’Italia, sostiene in sostanza Antonelli, è piazzata bene per cercare di diventare il cocco di Washington nell’area, molto meglio anche della Francia che, oltre ad essere ormai universalmente odiata, ogni tanto qualche velleità sovranista e di indipendenza – al contrario nostro – ancora ha provato a mantenerla; ovviamente, però, la situazione è tesa e quindi, sostiene Antonelli, “serviranno più fondi alla difesa, più elasticità in capo allo stato maggiore e” UDITE UDITE “un passo avanti nel campo della guerra ibrida” fino a “dotare l’Italia e l’Europa di compagnie militari private che tutelino secondo regole locali gli sforzi delle aziende italiane”.
Insomma, alla faccia del nuovo paradigma: visto dagli occhi dei sostenitori del governo il piano Mattei altro non è che il ritorno delle vecchie pulsioni coloniali, solo che questa volta sono in nome di Washington che ormai, però, come sponsor probabilmente non è manco più che sia tutto sto granché: mentre a Roma erano assenti i paesi sovranisti del Sahel, infatti, anche il loro più acerrimo amico c’aveva judo. Si chiama Bola Tinubu ed è il presidente della Nigeria che non solo è la prima potenza economica e demografica della regione, ma che era stato anche il primo artefice delle minacce d’intervento militare contro i golpe patriottici in nome dell’ECOWAS ma, a questo giro, sulla sete di vendetta ha avuto la meglio lo charme parigino: Tinubu, infatti, a Roma ha bucato pur non avendo nessun impegno; era, molto banalmente, in vacanza oltralpe. Alla Meloni non è rimasto che attaccarsi a Macky Sall, il presidente del Senegal, così amato nel suo paese e nell’intera regione che per piazzare uno dei suoi alle prossime elezioni di febbraio in Senegal ha dovuto sostanzialmente mettere in galera tutti gli oppositori e senza che, in questo caso, dalle nostre parti a nessuno venisse in mente di parlare di golpe.
Ormai siamo i Bernie Madoff della politica internazionale: le nostre iniziative sono solo schemi Ponzi che poggiano solo sui titoli della stampa filogovernativa, che nessuno legge. Sarebbe arrivata l’ora di costruire una vera alternativa, a partire da un vero e proprio media che dia voce al mondo nuovo che avanza, e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani