In piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.
“Considero legittima la lotta armata dei palestinesi”. Era il 6 giugno, 1985, e con queste parole Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, affrontava davanti alla Camera dei Deputati la questione palestinese. Oggi, le stesse parole pronunciate da un’alta carica dello stato verrebbero immediatamente etichettate come il delirio di un fanatico filo-hamas e determinerebbero la fine della sua carriera politica. Questo, nonostante a riconoscere la legittimità di un popolo alla lotta armata in caso di occupazione straniera sia la stessa Onu e sia sempre la stessa Onu a chiedere a Israele di fermare la sua invasione e riconoscere il diritto dei palestinesi ad un loro Stato nazionale con la stessa dignità di tutti gli altri. Nulla da fare, in Italia in questi giorni anche solo definire territori occupati territori effettivamente, da ogni punto di vista, occupati, o addirittura pretendere che la comunità internazionale faccia pressione su Israele affinchè si ritiri nei propri confini, comporta automaticamente l’accusa di connivenza con il terrorismo e se non con l’anti-semitismo.
Non è sempre stato così.
Durante la guerra fredda, quando l’Italia conservava ancora un pò di dignità nazionale e mostrava un minimo di indipendenza rispetto agli interessi geopolitici americani, la questione palestinese non era affrontata nei termini ideologici e farneticanti con cui viene affrontata oggi. In questa nuova puntata di pill8lina ripercorriamo la storia dei rapporti diplomatici tra il popolo italiano e quello palestinese, e di come il nostro Paese, da essere lo Stato occidentale più vicino e solidale alla lotta di indipendenza palestinese, si sia trasformato negli ultimi trent’anni in un acritico sostenitore del fanatismo e dell’imperialismo.
Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. Negli anni 50’, anche se la politica estera italiana aveva un margine di manovra limitato nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il governo cercò di avere un ruolo attivo nel mediterraneo approfittando della propria posizione favorevole di “ponte” tra l’Europa e il vicino oriente. Da un lato, laDemocrazia Cristiana, primo partito italiano, voleva dare priorità alle politiche di integrazione europea e basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici e industriali stavano creando relazioni forti e durature nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la corrente di sinistra interna alla DC, erano convinti che una forte presenza dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda. Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza tra il neonato stato di Israele e la causa palestinese ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60 con risultati controversi:
durante la crisi di Suez del 1956, ad esempio, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: non solo condannò l‘invasione da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò diplomaticamente per mettere fine alle tensioni. Undici anni dopo, durante la guerra del ‘67, nonostante la dialettica interna alla maggioranza di governo, l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e lega araba, ma poi decise di convergere verso il piano di “pace” americano, con ripercussioni negative sui nostri rapporti economici con gli Stati Arabi. Ma fu negli anni ’70 che l’Italia virò più decisamente verso una posizione pro-palestinese. Sotto la guida dell’allora Primo Ministro Aldo Moro, e nonostante le critiche degli Stati Uniti, l’Italia promosse diverse iniziative a favore della Palestina.
Insieme alla Francia, sostenne la partecipazione di Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, e poi lo accolse pure in visita ufficiale in Italia.
Il sostegno aumentò ulteriormente nel decennio successivo.
Nel 1985, l’Italia rifiutò di concedere l’estradizione ai dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. È l’anno del discorso di Craxi citato all’inizioe ispirato niente popodimeno che alla figura di Giuseppe Mazzini: “Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere”, dichiarava enfaticamente Craxi, “lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia”, continuava Craxi, “e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”.
Tre anni prima, l’opinione pubblica italiana aveva reagito con sdegno unanime al massacro di Sabra e Shatila e L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva energicamente condannato il massacro durante il Messaggio di Fine Anno agli Italiani del 1983. “Una volta”, dichiarò Pertini, “furono gli ebrei a conoscere la “diaspora”. Vennero cacciati dal Medio oriente e dispersi nel mondo; adesso lo sono invece i palestinesi”, che “hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli israeliti”
“Se vi sono nazioni in cui i diritti civili ed umani sono annullati”, continuava Pertini condannando Israele , “non vi è che un provvedimento da prendere contro queste nazioni: l’espulsione dall’Onu. Non valgono le proteste, se le porta via il vento. Non valgono le polemiche. Siano espulse dalla Organizzazione delle Nazioni Unite. Sia dato loro il bando, siano indicate all’umanità come colpevoli”. Ma verso la fine degli anni ‘80, qualcosa è cominciato a cambiare. I motivi, li spiega magistralmente la ricercatrice dell’università di Oxfors Mjriam Abu Samra. Il primo è la totale integrazione dell’Italia, dopo la guerra fredda, all’interno della sfera politica e culturale americana. Un’appiattimento, che ha cambiato anche la narrazione dei media, che negli anni hanno tentato in tutti i modi di sradicare ogni forma di simpatia nei confronti della causa Palestinese dall’opinione pubblica italiana. Il secondo, riassume sempre Abu Samra “è costituito dai lenti ma inesorabili cambiamenti delle pratiche organizzative palestinesi e della loro visione politica, cristallizzata dagli Accordi di Oslo”. Secondo Abu Samra infatti, “Non solo l‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è trasformata da movimento rivoluzionario in apparato quasi statale che privilegia la diplomazia rispetto all’attivismo popolare, ma la frammentazione politica dell’organizzazione ha avuto anche un impatto negativo sull’attivismo popolare, causando una paralisi senza precedenti delle attività sociali, culturali e politiche dei palestinesi in Italia”. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: in Italia ormai sostenere qualcosa di diverso dalla linea ufficiale decretata da Washington e Tel Aviv è tabù, il tutto nel nome dell’affinità culturale con quella che con sprezzo per il pericolo e sezna senso del ridicolo continuiamo a definire “l’unica democrazia del medio oriente”. Nei media e nelle dichiarazioni dei politici, lotta per la liberazione e l’indipendenza di un popolo è stato derubricato da un lato dai finto progressisti a semplice problema umanitario, e dall’altro, dalla destra reazionaria, addirittura a tassello della narrazione razzista e suprematista dello “scontro di civiltà”. Supportata da questa propaganda, la politica Italiana ha di fatto sostenuto le politiche imperialiste israeliane anche quando venivano ufficialmente condannate dall’Onu e da tutte le più importanti organizzazioni internazionali, fino ad arrivare ad una prima impensabile identificazione tra un immaginario “noi” di cui Israele farebbe parte, contrapposto a un “loro” che include i palestinesi. In questo quadro, la vittoria democratica di Hamas alle elezioni dell‘Autorità Nazionale del 2006 è stata sfruttata per rietichettare la lotta di liberazione palestinese come uno dei tanti fronti aperti dal “terrorismo islamico”. Ed ecco così che dalla solidarietà e la capacità di svolgere un ruolo di mediazione, indispensabile anche per difendere i nostri interessi nazionali, siamo passati alle bandiere israeliane proiettate e sventolate in questi giorni sui nostri edifici istituzionali. Le bandiere di uno Stato, ribadiamo, condannato ripetutamente dall’Onu per invasione, annessione, e violazione dei diritti umani. Una svolta oltretutto, che testimonia in modo plateale anche un vero e proprio cambio di paradigma culturale: negli anni dopo l’occupazione nazi-fascista e memori della resistenza infatti, era diffusa in Italia l’idea che le tecniche di guerriglia adottate da un popolo occupato fossero politicamente giustificate, e che la responsabilità morale dei massacri e delle stragi commesse da entrambe le parti dovesse ricadere sempre su gli invasori e non sugli invasi .
Oggi invece, in piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale. Contro il coro unanime della propaganda, per ricominciare a vedere il mondo dal punto di vista di chi è oppresso, e non di chi opprime, abbiamo bisogno di un vero e proprio media libero e indipendente
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Fermi un attimo, fermi un attimo perchè qui veramente siamo di fronte a un capolavoro da manuale della propaganda suprematista occidentale.
Venerdi scorso all’Havana si è tenuta una piccola riunioncina, na cosa ‘e niente, proprio.
Appena centotrentaquattro Paesi, che rappresentano l’80% della popolazione mondiale e che all’unisono hanno detto una cosuccia che forse non è proprio esattamente irrilevante: il vecchio ordine globale è morto, finito.
È arrivato il momento di Cambiare alla Radice le Regole del Gioco, e porre fine una volta per tutte a secoli e secoli di dominio attraverso la violenza e lo sfruttamento economico da parte di una piccola minoranza su tutto il resto del pianeta.
Ripeto. raissumendo: l’80% della popolazione mondiale si è riunita e ha detto all’unanimità che l’occidente ha rotto il cazzo.
A me sembra una notizia che dovrebbe occupare paginate su paginate nei quotidiani, e ore e ore di palinsesto e invece…
Ora, quello che mi chiedo è: quanto a lungo permetteremo ancora alla propaganda suprematista di sfrucugliarci le gonadi con la descrizione di un mondo vecchio che ormai esiste soltanto nelle fantasie psichedeliche di un esercito di pennivendoli analfoliberali?
Non è certo la prima volta che l’eroica Repubblica rivoluzionaria cubana ottiene un clamoroso successo diplomatico. Nonostante le innumerevoli e impacciate operazioni propagandistiche della propaganda suprematista di ogni colore politico come la gigantesca merda che pestò il sempre pessimo Roberto Saviano un paio di anni fa.
Non so se vi ricordate. Stremate dalle conseguenze dell’utilizzo politico che gli USA stavano facendo della crisi pandemica per infliggere un’altra mazzata alla popolazione cubana, vi furono alcune mobilitazioni contro il Governo rivoluzionario. Sempre tutte cose ultraminoritarie, che il sostegno popolare alla rivoluzione cubana, nonostante le gigantesche difficoltà economiche dovute all’embargo illegale da parte dell’imperialismo USA, rimane quasi unanime.
Ma evidentemente, abbastanza per far arrapare il suprematismo analfoliberale, che è convinto che a Cuba non ambiscano ad altro che poter leggere liberamente la repubblichina e a eleggere presidente Lia Quartapelle. Tra loro, appunto, il nostro Robertino:
“Cuba finalmente insorge contro la dittatura del partito comunista cubano”, avevo twittato. “Cuba merita democrazia e la conquisterà”. D’altronde, è un’affermazione coerente col Saviano pensiero: uno che decanta le lodi e definisce democrazia il regime di apartheid di Tel Aviv, non può che coerentemente spregiare l’eroica resistenza popolare antimperialista del popolo cubano.
Basta però, per lo meno, che si scelga i testimonial giusti. Nel tweet di Saviano infatti c’era allegata anche questa foto
secondo Saviano, un’icona della rivolta democratica e filooccidentale contro il regime.
Insomma…
La persona ritratta nella foto infatti si chaima Betty Pairol Quesada e come la stragrande maggioranza dei suoi concittadini, è una sostenitrice accanita del Governo rivoluzionario cubano, e quando è stata scattata questa foto, stava partecipando a una manifestazione contro El Bloqueo, contro l’embargo illegale imposto a Cuba dalle potenze democratiche che tanto piacciono a Saviano.
La nostra Betty s’è accorta della cosa, e ha diffidato i suprematisti analfoliberali alla Saviano dall’utilizzare la sua immagine per legittimare le proteste di quelle che lei definisce apertamente “delinquenti e vandali”.
Saviano, senza scusarsi, ha sconigliato quatto quatto e ha rimosso l’immagine. Due anni dopo, il suo account twitter è sempre attivissimo e seguitissimo, ed è l’ennesimo importante strumento della peggiore propaganda woke imperiale. Quello della povera Betty invece appare temporaneamente limitato.
Non fosse mai che si azzardasse a far fare qualche altra colossale figura di merda a qualche propagandista.
Nonostante la potenza di fuoco della propaganda suprematista comunque, Cuba non è nuova ai successi diplomatici. Negli ultimi trenta anni ogni anno l’assemblea generale delle Nazioni Unite mette ai voti una mozione per chiedere agli USA la fine dell’embargo. La prima volta fu il 1992, e votarono a favore in appena 59. Anno dopo anno quei voti sono progressivamente sempre aumentati, e da una quindicina di anni abbondanti ad approvare la mozione è sempre invariabilmente sostanzialmente la totalità dei 193 Paesi rappresentati alle nazioni unite. A votare contro infatti sono sempre e solo in due: Stati Uniti e Israele, i due stati canaglia della comunità Internazionale. A loro si affiancano sempre due o tre Paesi che optano per l’astensione. Prima erano gli Stati fantoccio insulari del Pacifico, come Palau e le Isole Marshall. Poi si sono rotti il cazzo pure loro, ma sono stati sostituiti per un periodo dal Brasile del presidente fascioterrapiattista Jair Bolsonaro e da un paio di anni dall’Ucraina, che vale la pena sottolineare, visto che la propaganda suprematista Occidentale parla sempre del presunto isolamento di Putin: l’Ucraina all’ONU vota da sola con altri 3 paesi contro tutto il resto del mondo. Dal punto di vista dell’autonomia geopolitica, l’Ucraina appunto, è come erano Palau e le Isole Marshall una decina di anni fa. Questa volta però Cuba è andata oltre, perchè a questo giro non si trattava semplicemente di votare contro un embargo palesemente criminale e illegale. Questa volta si trattava di andare all’Havana, e non solo dimostrare simbolicamente la propria doverosa solidarietà nei confronti della rivoluzione castrista, ma di sedere al fianco di Cuba in un’organizzazione multilaterale che, proprio a partire dall’appello di ormai una ventina di anni fa di Fidel Castro in persona, ha deciso di marciare unita per porre fine al dominio del nord globale.
“Una vittoria diplomatica contro il bloqueo”, la definisce senza mezzi termini People dispatch, che sottolinea come la storica riunione dell’Havana si sia tenuta giusto pochi giorni dopo la proroga di un altro anno da parte della democratica amministrazione Biden non solo dell’embargo criminale che è in piedi da oltre sessant’anni, ma anche dell’ulteriore ondata di sanzioni aggiuntive introdotte dall’amministrazione ultrareazionaria ed esplicitamente suprematista di Donald Trump.
Ma lo straordinario successo diplomatico di Cuba è soltanto un pezzetto della storia.
Per capirne il resto, non rimane che leggere attentamente i 47 punti della dichiarazione finale sottoscritta all’unanimità da tutti i paesi partecipanti. Il primo fondamentale punto è la richiesta di democratizzazione delle Nazioni Unite come istituzione. Ma attenzione, non contro lo spirito della carta delle Nazioni Unite e del diritto Internazionale, ma proprio nell’ottica di una loro reale attuazione.
“Riaffermiamo il pieno rispetto degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sottolineano esplicitamente nel comunicato. Chi non li rispetta, evidentemente, sono le Nazioni Unite stesse, per come sono oggi. L’assemblea generale infatti non ha nessun potere reale che è tutto esclusivamente nelle mani del consiglio di sicurezza, che però è di un’altra epoca. Appena cinque potenze, o meglio tre. Tra i cinque infatti ci sono Gran Bretagna e Francia, che ormai sono piccole potenze subregionali a sovranità limitata, e completamente allineati agli USA. In pratica, quindi, il consiglio di sicurezza è composto da tre paesi, con uno che conta più degli altri due messi assieme. Che nel 2023 non vengano rappresentati in nessun modo l’Africa, l’America Latina, il sud ed il sud est asiatico è una cosa semplicemente ridicola e da sabato è chiaro che gli unici che tentano di ostacolare quello che è evidentemente ineluttabile, sono i rappresentanti di quel 20% scarso della popolazione globale che continuano a vivere in una bolla anacronistica tutta loro.
Il continuo richiamo da parte di tutte le organizzazioni multilaterali del sud globale alla riaffermazione dello spirito della carta delle Nazioni Unite ricorda molto da vicino il continuo richiamo delle forze popolari dell’Europa occidentale alle carte Costituzionali emanate dopo la seconda guerra mondiale.
D’altronde, sono i due lati della stessa medaglia. Le carte Costituzionali nazionali e la carta delle Nazioni Unite, nascono nel momento di massima affermazione della democrazia moderna, ed hanno lo stesso identico impianto concettuale. Cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista le hanno trasformate entrambe in lettera morta. Compito delle forze realmente democratiche è riaffermarne lo spirito sia a livello dei singoli Paesi, sia su scala internazionale. Questa rivendicazione assume un significato ancora più urgente proprio oggi, mentre a New York si scaldano i motori per il principale evento annuale nell’agenda delle Nazioni Unite: l’assemblea generale che avrà inizio tra poche ore e dove sarà difficile riuscire a ottenere qualche risposta concreta: dei cinque Paesi del consiglio di sicurezza, soltanto i padroni di casa, gli USA, hanno garantito la partecipazione del presidente, che è anche il principale bersaglio delle critiche del G77.
“Rigettiamo tutti i tipi di misure economiche coercitive”, si legge nella dichiarazione dell’Havana, “a partire dalla sanzioni unilaterali contro i paesi in via di sviluppo, per le quali chiediamo l’eliminazione immediata”.
Come dimostra in modo evidente questo grafico,
il ricorso allo strumento illegale dal punto di vista del diritto internazionale delle sanzioni economiche unilaterali negli ultimi anni è diventata una vera e propria barzelletta. Sostanzialmente ormai è sufficente non essere completamente allineati agli obiettivi strategici di Washington per vedersi applicare una qualche forma di sanzione, alla quale poi il resto del mondo è costretto ad adeguarsi. Se fino a qualche anno fa si cercava per lo meno di confondere un po’ le acque, tirando in ballo qualche fantomatica violazione dei diritti umani che vale sempre e solo per gli altri, ma che almeno fa dormire tranquilli i fintoprogressisti suprematisti delle ztl di tutto il nord globale, con l’acuirsi del conflitto tecnologico con la Cina ormai il Re è completamente nudo, e le sanzioni vengono utilizzate sistematicamente anche solo per ostacolare lo sviluppo economico altrui. Ed è proprio il contrasto a questo utilizzo arbitrario dello strumento delle sanzioni per impedire l’autonomia tecnologica della Cina e di tutto il sud globale, a nostro avviso, a rappresentare l’aspetto più importante della risoluzione dell’Havana.
I paesi del g77, schierandosi apertamente con la Cina nella guerra tecnologica a forza di sanzioni con l’impero USA, affermano infatti di rifiutare categoricamente “i monopoli tecnologici e altre pratiche sleali che ostacolano lo sviluppo tecnologico dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati che detengono il monopolio e il dominio nell’ambiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non dovrebbero utilizzare i progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come strumenti per contenere e reprimere il legittimo sviluppo economico e tecnologico di altri Stati”
È la critica fondamentale al cuore pulsante del neocolonialismo. Durante la fase coloniale infatti i paesi del nord globale, e cioè i difensori della democrazia di sto cazzo riuniti oggi nel g7, hanno accumulato un vantaggio tecnologico enorme sul resto del pianeta attraverso il semplice esercizio della forza bruta. Quando il dislivello è diventato sufficentemente ampio, dalle politiche coloniali, che comunque comportavano anche una lunga serie di costi e di disagi, sono passati a quelle neocoloniali che consistono semplicemente nello sfruttare questo gap per impedire strutturalmente al sud globale di recuperare terreno. Fino a che il sud globale è totalmente dipendente tecnologicamente dai Paesi ricchi, si può anche far finta di essere per il libero mercato, che non fa che aumentare il vantaggio di partenza dei paesi più sviluppati. Con loro grande disappunto però c’è chi non è fatto infinocchiare, e quando ha messo a disposizione dei capitali stranieri la forza del suo stato, la manodopera a basso costo della sua popolazione e anche la salubrità del suo ambiente naturale, ha chiesto però una cosa in cambio: il trasferimento di tecnologia.
È esattamente quello che ha fatto la Cina. Col tempo, grazie a questo trasferimento iniziale di tecnologia, la Cina è stata in grado di ridurre il gap con l’Occidente, e quindi di guadagnare la sua indipendenza, che è esattamente quello che adesso chiedono di fare tutti i Paesi del sud globale, mutuando completamente da questo punto di vista il modello di sviluppo del dragone. Contro questa prospettiva, ecco allora che per il nord globale diventa prioritario ostacolare con ogni mezzo necessario la capacità del sud del mondo di emanciparsi tecnologicamente dai paesi più avanzati, anche a costo nell’immediato di rimetterci economicamente. Un po’ come succede anche con l’austerity: la priorità è mantenere i rapporti gerarchici di forza tra capitale e lavoro, e per riaffermare il dominio del capitale sul lavoro la stagnazione economica, se non addirittura la recessione, sono un costo che vale la pena affrontare. Per ostacolare l’autonomia tecnologica del sud globale, gli USA e i suoi vassalli non si limitano a introdurre sanzioni unilaterali contro la Cina, che è il competitor diretto, ma tentano di impedire a tutti gli altri di usufruire degli sviluppi tecnologici che la CIna ha già conseguito.
La gigantesca e ipercompetitiva capacità produttiva cinese infatti sta permettendo anche ai Paesi più poveri di cominciare a intraprendere la strada dello sviluppo tecnologico, ad esempio attraverso la infrastrutture di rete di Huawei.
Le sanzioni contro Huawei quindi hanno una doppia valenza: ostacolare il superamento della Cina come produttore di tecnologia da un lato e ostacolare i primi passi del resto del sud globale come acquirenti di tecnologia cinese. Una strategia che però forse non sta funzionando alla perfezione. Huawei ha continuato a sviluppare tecnologia autoctona colmando sempre più gap, prima con lo sviluppo di infrastrutture 5g e l’implementazione a livello industriale dell’intelligenza artificiale su una scala che l’Occidente manco si sogna, e ultimamente anche con i microchip. Dall’altro lato, l’atteggiamento punitivo e predatorio del nord globale non ha fatto che saldare ulteriormente l’alleanza tra la Cina e il resto del sud globale. La risoluzione dell’Havana è proprio il risultato di questo completo allineamento tra gli interessi di Paesi che nella realtà hanno livelli di sviluppo molto diversi tra loro.
“Ai paesi in via di sviluppo”, si legge infatti chiaramente nella risoluzione, “non dovrebbero essere imposte restrizioni all’accesso ai materiali, alle attrezzature e alla tecnologia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione al fine di mantenere uno sviluppo sostenibile”
Da questo punto di vista, il g77 dell’havana oltre ad essere un piccolo capolavoro diplomatico della Repubblica rivoluzionaria cubana, è un ulteriore capolavoro anche della diplomazia cinese, ed è anche una piccola speranza per la pace. Ultimamente, infatti, parlando della creazione di un nuovo ordine realmente multipolare, abbiamo posto l’accento sulla dedollarizzazione. Eppure di dollaro nella risoluzione non si parla. Si parla di riforma dell’architettura finanziaria e di democratizzazione delle istituzioni finanziarie globali, ma c’è una bella differenza. La democratizzazione delle istituzioni finanziarie, come la banca mondiale e il fondo monetario internazionale infatti, si riferiscono semplicemente a una maggiore rappresentanza del sud globale e a un uso meno predatorio dei finanziamenti allo sviluppo, che fino ad oggi sono stati utilizzati per imporre l’agenda della globalizzazione neoliberista in lungo e in largo. Ma a differenza della dedollarizzazione, queste riforme non rappresentano una minaccia esistenziale immediata per gli USA. La fine del dollaro come valuta di riserva globale infatti significa di per se la fine dell’imperialismo finanziario USA per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni, che si fonda proprio sulla necessità da parte dei paesi esportatori di accumulare dollari come riserve, sotto forma di titoli di stato USA. Sostanzialmente obbliga tutto il Mondo che produce, a finanziare il debito crescente e anche le bolle speculative che sole giustificano questo livello di ricchezza in un Paese che ormai sostanzialmente produce poco o niente. Da questo punto di vista l’egemonia del dollaro per gli USA rappresenta una redline invalicabile, e la minaccia di un suo declino non può che spingere gli USA verso il conflitto, a prescindere da quali siano le possibili conseguenze, con buona pace del pacifismo più moralista e naif.
La riforma graduale delle istituzioni finanziarie multilaterali invece, ovviamente comporta un ulteriore spinta al graduale declino dell’egemonia USA, ma non una minaccia esistenziale. Aver spostato in questa fase il focus della rivolta del sud globale contro il vecchio ordine unipolare dalla dedollarizzazione alla guerra tecnologica, rappresenta quindi un importante gesto distensivo. La Cina e il sud globale sono convinti in questa fase di poter continuare a colmare il gap con il mondo sviluppato anche nell’ambito di un’architettura finanziaria globale ancora incentrata sul dollaro, proprio come d’altronde la Cina ha già fatto negli ultimi trent’anni, a patto però di rimuovere gli ostacoli introdotti per impedire il loro ulteriore sviluppo tecnologico. Il processo della dedollarizzazione è inarrestabile e nel frattempo proseguirà, ma il suo ritmo dipenderà anche molto dalle prossime mosse statunitensi: se continueranno ad utilizzare le sanzioni contro chiunque in modo sistematico, il processo si velocizzerà, se invece faranno un bagno di realtà e realizzeranno di non avere più il coltello dalla parte del manico, il processo potrebbe proseguire anche molto lentamente.
Da questo punto di vista, la risoluzione dell’Havana e il rafforzamento di un organo come quello del g77 non rappresentano soltanto una presa di coscienza della forza che il sud globale se davvero unito può avere e dei diritti che può rivendicare, ma anche la speranza, per quanto flebile, che questa unità possa allontanare lo spettro di una guerra totale che continua a sembrare allo stesso tempo tanto inconcepibile, quanto ineluttabile. Che questa dialettica fondamentale per il destino stesso dell’umanità non trovi minimamente spazio nel nostro ecosistema mediatico, a me non sapete quanto mi fa girare il cazzo!
Allo stesso tempo però mi fa anche credere che quello che stiamo provando a fare non è solo utile, ma necessario anche se, ovviamente, del tutto insufficiente.
Contro la putrescenza dei vecchi media, per raccontare il nuovo mondo che avanza, mai come adesso abbiamo bisogno di un nuovo media che stia dalla parte della pace e del 99%