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VolksWagen minaccia chiusure – Come la guerra ha distrutto l’azienda più democratica dell’Occidente

Care zecche rosse, mi spiace deludervi, ma anche a questo giro le vostre gufate da invidiosi devono lasciare il passo all’Italia dell’amore e della prosperità: Record di occupati, titola Libero; il governo brinda. “L’Italia” – è il commento della nostra condottiera che sta traghettando il paese verso un nuovo rinascimento, ben più brillante e luminoso di quello che il compagno Renzi aveva intravisto nelle petromonarchie assolute del Golfo – “nonostante il rallentamento dell’economia mondiale e la delicata situazione internazionale, sta crescendo più delle altre nazioni europee, e PIL, occupazione, export e investimenti sono positivi”. Mi comincia a venire il sospetto che porti un po’ sfiga, porella: L’Italia arranca, titolava ieri La Stampa; il PIL si ferma allo 0,6%. “Si allontana l’obiettivo dell’1% entro l’anno”, ed è solo la punta dell’iceberg: Componentisti auto, titolava Il Sole 24 Ore domenica scorsa; in Italia uno su due rischia di finire in crisi. Ciononostante, Giorgiona continua a perculare: “Adesso” ha dichiarato “è fondamentale consolidare il quadro economico”. Certo: consolidare la recessione, effettivamente, mi sembra la scelta più adeguata – a meno che, quando parla di consolidare, non si riferisca ad altro; al suo nuovo paese d’adozione dove – chissà mai com’è – il rallentamento dell’economia mondiale (guarda caso) non lo stanno avvertendo poi tantissimo. “Raramente” scrive il Wall Street Journal “gli americani sono stati così entusiasti del mercato azionario”; “L’impennata del mercato azionario” continua l’articolo “ha coniato una quantità spropositata di nuovi milionari. Il numero di persone che ha un conto su un fondo pensione da oltre un milione di dollari è aumentato del 31% rispetto anche solo a un anno fa, attestandosi a quota 497 mila”: loro sì che dovrebbero votare Giorgiona! Che comunque, bisogna ammetterlo, su una cosa ha ragione: agli altri paesi europei non è che vada molto meglio. Già domenica Il Sole 24 Ore avvisava: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi e, alla fine, ieri la bomba atomica: VolksWagen sta prendendo in considerazione la chiusura di fabbriche in Germania”, titola Bloomberg, “è la prima volta in 87 anni di storia. Il livello e la rapidità con i quali avanza inesorabile la totale devastazione del vecchio continente nella passività più totale è qualcosa che studieranno sui libri di storia per i prossimi secoli, ma sui media mainstream italiani sembra un problema di qualche zero virgola da correggere con qualche micro-intervento da infilare in una manovra di politica economica da pochi miliardi, che alla nostra crisi – come si dice in francese – gli farà come il cazzo alle vecchie comunque venga declinata. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questa cronaca di una morte annunciata, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere anche oggi almeno la nostra piccola battaglia contro la dittatura distopica degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non ne impieghi John Elkann a mettere in cassa integrazione qualche migliaio di lavoratori a Mirafiori, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a provare a portare un po’ di consapevolezza tra i nostri concittadini, mentre i media provano a rincoglionirli con dosi da cavallo di anestetizzanti per le sinapsi.

La VolksWagen di Wolfsburg

Se qualcuno mi avesse mai chiesto come m’immaginavo l’azienda ideale nell’Europa del futuro, non avrei avuto dubbi: avrei risposto, senza alcun dubbio, VolksWagen (come, d’altronde, sostanzialmente qualsiasi cittadino tedesco); quando nell’agosto del 2015, poco prima dello scoppio del dieselgate, YouGov in un sondaggio aveva chiesto ai tedeschi quale considerassero il simbolo per eccellenza della Germania, due terzi risposero VolksWagen. Altro che Goethe, o la Merkel, o i wurstel! Nonostante sia stata fondata durante il nazismo per soddisfare il sogno di Hitler di avere anche in Germania un’auto del popolo, in realtà la produzione di massa in quel di Wolfsburg inizierà soltanto nel dicembre del 1945, a regime ormai sconfitto; l’impianto era controllato dai britannici che, però, decisero in fretta e furia di restituirlo ai tedeschi perché non riuscivano a trovare un acquirente privato: “Le auto VolksWagen sono poco attraenti per il consumatore medio” dichiarò sprezzante un pezzo grosso dell’industria automobilistica della regina. Insomma… Nell’arco di una generazione il Maggiolino divenne l’auto più venduta del pianeta e nel 1972 superò la Model T della Ford nella classifica delle auto più prodotte di tutti i tempi. Ma ancora più che le auto, la VolksWagen in questi quasi 90 anni ha prodotto lavoro: con oltre 680 mila addetti, ancora oggi VolksWagen è la quinta azienda privata al mondo per numero di impiegati (la seconda, se si restringe il cerchio alle sole aziende manifatturiere, dietro soltanto a Foxconn); posti di lavoro difesi con le unghie. Tra i grandi marchi dell’automotive occidentale, VolksWagen è l’azienda che in assoluto produce meno fatturato per singolo impiegato: 500 mila dollari; Stellantis viaggia a quota 800 mila, Ford e General Motors oltre 1 milione – nonostante molti di noi, prima di comprarsi una Ford o una General Motors, probabilmente preferirebbero spostarsi comodamente con una Graziella (o col calesse). Ciononostante, anche quest’anno i sindacati sono sul piede di guerra per ottenere aumenti salariali intorno al 7%. A garantire che la difesa dei posti di lavoro in Germania venisse prima di tutto, c’è la struttura aziendale: la metà dei seggi nel consiglio di sorveglianza dell’azienda, infatti, spetta ai rappresentanti dei lavoratori, che hanno sempre potuto contare sul sostegno di un azionista piuttosto importante. E’ lo Stato della Bassa Sassonia, che detiene il 20% delle azioni – e molto di più in termini di potere negoziale; un modello di governance che (ovviamente) non piace così tanto agli investitori internazionali, che l’unico tipo di vincolo sociale che sono abituati a tollerare sono le vaccate sulla responsabilità sociale che le aziende scrivono sulla carta igienica solo per farne parlare qualche giornalaccio mainstream. Anche perché quando, in passato, qualcuno ha provato a introdurre logiche che guardano più agli interessi degli azionisti che a quelli dei lavoratori, non ha fatto esattamente una bella fine: come ricorda Bloomberg, infatti “I manager che in passato hanno tentato di sfidare i lavoratori, hanno fatto tutti una pessima fine: precedenti scontri hanno posto fine o ridotto il mandato di alti dirigenti, tra cui l’ex amministratore delegato Bernd Pischetsrieder, l’ex capo del marchio VW Wolfgang Bernhard e Herbert Diess, il predecessore di Blume come amministratore delegato. Tutti e tre hanno cercato di ottenere efficienze, in particolare nelle operazioni nazionali tedesche di VW, ma hanno fallito miseramente”. Ecco perché l’annuncio di ieri di una possibile chiusura di qualche stabilimento in Germania rappresenta uno snodo epocale per la storia di VolksWagen e, a cascata, di tutta l’industria europea: “Viviamo in un mondo geopolitico difficile” ha commentato, sempre dalle pagine di Bloomberg, l’analista di CitiGroup specializzato nel settore automotive Harald Hendrikse e “anche VW è stata costretta a riconoscere la gravità della situazione”.
La crisi dell’industria tedesca è di una gravità senza precedenti: l’indice PMI di agosto per il settore manifatturiero s’è attestato a quota 42,4, perdendo quasi un altro punto intero rispetto al già disastroso 43,2 di luglio; a pesare, in particolare, il calo dei nuovi ordini. Vuol dire che le fabbriche non riescono a smaltire le scorte e non hanno intenzione di accumularne altre e, quindi, non ordinano beni intermedi; e non riguarda certo solo l’automotive: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi titolava domenica Il Sole 24 Ore. I conti di Thyssen-Krupp AG, proprietaria di Thyssen Krupp Steel Europe (che è il più grande produttore d’acciaio in Germania), nel terzo trimestre del 2024 sono andati in profondo rosso e il titolo ormai supera di poco i 3 euro; prima dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia e contro l’industria europea, viaggiava attorno ai 10 euro. Non se la passa molto meglio neanche la Salzgitter, che è la seconda azienda siderurgica tedesca; solo un anno fa era stata definita Il faro della transizione verde in Germania che però, da allora, si è spento: da inizio anno il titolo ha perso oltre il 50%, nonostante si siano intascati 1 miliardo di euro di finanziamenti pubblici (come, d’altronde, altri 2 miliardi di finanziamenti erano andati in cassa pure a Thyssen Krupp). E se poi nei lander più poveri la maggioranza di governo raggiunge a malapena il 15%, è stato “un colpo di Stato di Putin”, come l’ha definito davvero Politico.
Ma se non riescono a tenere in piedi i loro campioni nazionali in Germania, nonostante abbiano ancora parecchi soldi pubblici da regalargli senza che a Bruxelles gli venga una crisi isterica, pensate come stiamo messi noi… Più o meno, così: Stellantis agli operai: il lavoro c’è, ma in Polonia; “Stellantis” riporta Attilio Barbieri su Libero “propone di rientrare al lavoro a una decina di operai carrellisti dello stabilimento piemontese di Mirafiori. Ma non in Piemonte. In Polonia. Precisamente nello stabilimento di Thychy, nel voivodato della Slesia, l’impianto dove si producono la nuova Fiat 600, la Jeep Avenger e l’Alfa Romeo Junior”. D’altronde, in quel di Stellantis ormai fuggire dall’Italia è considerato proprio trendy: un po’ di tempo fa, venne a galla che i dirigenti Stellantis consigliavano ai fornitori di chiudere baracca e burattini per andare in Marocco; l’obiettivo era ridurre i costi fino al 40%. “La tecnologia elettrica, in Europa” aveva sottolineato Carlos Tavares durante un incontro nello stabilimento di Atessa “è del 40% più costosa. Se vogliamo rendere i veicoli elettrici accessibili dobbiamo digerire il 40% del costo addizionale. Che ci piaccia o no”; da lì in poi, le aziende di componentistica in Italia sono diminuite del 4,4% e la produzione è scesa del 18%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate della stessa identica percentuale: “In Piemonte siamo ai bollettini di guerra” commenta La Verità. “Tredici settimane di cassa in Prima Industrie di Collegno, altrettante all’ex Alcar di Vaie. Da lunedì, fino a fine anno, 200 lavoratori in cassa anche per la Novares. E poi ancora alle Officine Vica, alla Proma, al Gruppo Cornaglia e alla Denso”; di questo passo, secondo uno studio commissionato dall’associazione di categoria ad Alix Partners, nel 2030 la componentistica italiana avrà perso tra i 20 e i 40 mila posti di lavoro.
D’altronde, del milione di veicoli che Giorgia la patriota ha sempre garantito sarebbe riuscita a imporre di produrre a Stellantis – e che sono considerati la cifra minima indispensabile per non radere al suolo tutto l’indotto – alla fine dell’anno ne verranno prodotti poco più della metà, anche perché non ci sarebbe chi se li compra: di competitività internazionale, infatti, non se ne parla, e il mercato interno è al collasso. Dall’inizio dell’anno, la propensione al consumo degli italiani ha subito un crollo come non se ne vedevano da oltre 15 anni; d’altronde, come va l’economia lo sperimentano sulla loro pelle, non sui titoli della propaganda filo-governativa. E, ad esempio, si rendono benissimo conto che se negli ultimi anni l’economia italiana non dico che ha tenuto (perché sarebbe una bestemmia), ma almeno ha preso qualche scoppola in meno rispetto ai paesi vicini, è solo ed esclusivamente a causa del superbonus: “Senza l’apporto delle costruzioni” riconosce finalmente anche Repubblica, dopo anni passati a massacrare il superbonus per fare contenta Bruxelles e gettare merda a gratis su Giuseppi, “il PIL dell’Italia tra 2021 e primo trimestre 2024 sarebbe cresciuto solo del 10,5% anziché del 14,5%”; ed ecco così che gli italiani, senza più il becco d’un quattrino e senza una minima prospettiva per il futuro, le auto – molto banalmente – non se le comprano più. Ad agosto le vendite di auto hanno subito un calo di oltre il 13% rispetto all’anno scorso, e quelle di Stellantis addirittura di oltre il 30%.
Il problema, però, è che Stellantis non è solo un’azienda che ha il monopolio della nostra industria automotive, ma ha anche il monopolio dell’opposizione politica mainstream a questo governo, che usa con finalità che niente hanno a che vedere con gli interessi di chi ci lavora (e del 99%); ed ecco così che, immancabilmente, il suo poderoso apparato propagandistico scende in campo per dissimularne la fuga dall’Italia e lo fa rifugiandosi in un passato idilliaco: Torino conquista gli Stati Uniti, titola La Stampa; “La FIAT e lo sbarco negli USA: record Jeep grazie a Melfi”. L’articolo a piena pagina fa parte di una serie celebrativa pensata in occasione dei 125 anni di FIAT e riporta agli anni d’oro dell’innamoramento di massa (totalmente ingiustificato) nei confronti dell’allora CEO Sergio Marchionne: ricorda come quando FIAT è sbarcata a Detroit, su invito del premio Nobel per la pace Barack Obama, sembrava “un’ex metropoli bombardata nel centro” e che Marchionne era determinato a portare agli antichi splendori. Grazie a investimenti ed innovazione? Macché: grazie ad Eminem! L’articolo ricorda quando Olivier Francois incontrò l’agente di Eminem, il rapper bianco che aveva cantato la disperazione della città: “La proposta è incredibile” scrive enfaticamente l’ennesimo pennivendolo a libro paga degli Agnelli/Elkann: “Per qualche giorno Eminem non si è fatto trovare. Fino a quando ha accettato di ricevermi nel suo studio, ricorderà anni dopo il manager. Ecco come nasce il più lungo spot televisivo trasmesso nella notte del Super Bowl, il 7 febbraio 2011. Nove milioni di dollari per dire all’America che la Chrysler è tornata e soprattutto che Detroit non è più sinonimo di disperazione: Siamo andati all’inferno e siamo tornati, canta Eminem prima dello slogan finale, Imported from Detroit”. Tre anni dopo, Marchionne presenta al salone di Ginvera la Renegade, “il primo modello con marchio Jeep prodotto fuori dall’America, a Melfi. Quella che poco tempo prima sarebbe parsa una bestemmia negli Stati Uniti, diventa una realtà e un’opportunità. Il piccolo SUV viene esportato e venduto anche in Nord America. Le navi con le auto prodotte in Basilicata partono da Civitavecchia per attraversare l’Atlantico. Il marchio Jeep, guidato da Mike Manley, arriva a vendere da solo 2 milioni di auto all’anno”.
Poco dopo nasce FCA, per la precisione il 12 ottobre 2014; una “data non casuale” sottolinea l’articolo “che coincide con quella della scoperta dell’America” – certo non da parte dell’Italia, che anche a questo giro è assente: la nuova società ha sede ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra. E più che ai lavoratori FIAT e all’indotto, punta al portafoglio degli investitori di Wall Street: “Quello di oggi è un momento storico” afferma Elkann dopo aver suonato la campanellina che avvia le contrattazioni a Wall Street “perché sulle fondamenta di FIAT e Chrysler ci consente di affrontare da protagonisti il mercato automobilistico mondiale”; non è andata proprio benissimo – a parte forse per chi, allora come ora, continua a scrivere queste apologie propagandistiche e a spacciarle per articoli giornalistici. Sarebbe il caso di non affidargli l’unica opposizione a questo governo di scappati di casa e di provare a costruirci davvero, finalmente, un nostro media che invece che a Tavares e ad Elkann, dia voce al 99%. Per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Giannini

P.S.: appena finito di registrare questo video, mi sono dato la consueta sbirciatina ai listini delle borse USA, sempre in trepidante attesa del crollo definitivo che, ovviamente, non è arrivato manco stavolta; ma un contentino della buona notte me l’hanno voluto regalare lo stesso: dopo mesi e mesi di crescita stabile e ininterrotta di tutto quello che è quotabile, anche ieri, per la terza volta nel giro di pochissimi giorni, i listini USA hanno segnato un bel segno rosso, che è diventato particolarmente profondo per il Nasdaq, il regno per eccellenza dei nuovi feudatari. Nel frattempo Ukrainska Pravda annuncia che in Ucraina, in una botta sola, si sono dimessi la vicepremier, il vice capo dell’ufficio presidenziale, la ministra per la reintegrazione territoriale Iryna Vereshchuk e il ministro degli esteri Kuleba. Forse anche i 500 mila nuovi milionari USA dei quali parlava il Wall Street Journal farebbero bene a cominciare a porsi qualche domandina…

Italiani rapinati: perché il governo Meloni ha deciso di regalare il nostro tfr alla finanza USA

Il Sole 24 Ore, 21 agosto: Panetta al meeting di Rimini: il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico. La Verità, 23 agosto: Ai fondi pensione il 25% del tfr. Domani, 23 agosto: Stellantis scappa da Torino. Libero, 24 agosto: Giorgetti a Rimini: il PNRR mi ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Non c’è che dire: se eravate alla ricerca di indizi su quanto tutte le famiglie politiche della classe dirigente italiana siano impegnate giorno e notte nel rendere il declino economico del paese il più rapido e irreversibile possibile, l’ultima settimana dovrebbe avervi lautamente ricompensati; dal ritorno dell’austerity alla sottomissione forzata dei lavoratori italiani alle logiche della grande finanza, passando per l’incedere inesorabile della deindustrializzazione e il culto fuori tempo massimo delle magnifiche sorti e progressive del mercato che si autoregola, bisogna ammettere che non ci siamo fatti mancare assolutamente niente. Ad aprire le danze c’ha pensato, appunto, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con un intervento che sembrava arrivare direttamente dal 2009, quando tutto l’establishment economico dell’Occidente collettivo parlava di austerità espansiva prima di scoprire, conti alla mano, che l’austerità non solo distrugge l’economia, ma alla fine inevitabilmente fa anche aumentare il debito. Tutto rimosso: “Il debito elevato” afferma Panetta con un contorsionismo da psichiatria “sottrae risorse alle politiche anticicliche”; cioè Panetta stesso – che c’avrà sì anche lui i suoi limiti, ma non al livello di uno youtuber di Liberi Oltre o un giornalista de Il Foglio – riconosce ovviamente che quando l’economia va di merda, a intervenire dev’essere lo Stato per aumentare, facendo spesa in deficit, la domanda aggregata. Al che uno pensa che quindi ammetterà che ora c’è bisogno di allentare i cordoni della borsa; d’altronde, gli ultimi dati confermano che il valore della produzione industriale in un anno è diminuito di un altro 4% e che in 4 anni i salari reali degli italiani più fortunati (quelli che hanno un contratto regolare) hanno perso circa il 10% del loro potere d’acquisto, ad essere generosi: più crisi di così, cosa vuoi? Una carestia? Eppure – non si capisce bene in base a quale logica – Panetta sostiene che proprio ora i cordoni della borsa è il caso di stringerli il più possibile, così magari in futuro, quando arriverà un’altra crisi, avremo sufficienti margini di manovra per fare un po’ di spesa pubblica. Tipo il 32 agosto del duemilacredici o dopo che saremo tutti morti per un olocausto nucleare. Evidentemente c’è qualcosa che non torna e quello che non torna è che a brevissimo bisognerà cominciare a mettere mano alla manovra economica; e la direzione deve essere chiara: non cominciate a venir fuori con idee strampalate su come far ripartire produzione e consumi in Italia, che qui ancora questi zucconi conservatori tirchioni degli italiani non hanno capito che i loro risparmi devono essere dati in mano ai grandi gestori di patrimoni per gonfiare la principale fonte di rendita di chi i soldi ce li ha già, e cioè la bolla finanziaria.
Ed ecco così che arriviamo al secondo indizio, che è il più succulento: la proposta di legge della Lega che introdurrebbe l’obbligo di destinare almeno il 25% dell’accantonamento del tfr ai fondi pensione; da anni, tutti – e quando dico tutti intendo letteralmente tutti, di sinistra, di destra, di sopra, di sotto – provano a convincere gli italiani ad aderire ai fondi integrativi, ma con risultati non esattamente del tutto soddisfacenti. Non rimane quindi che la via di imporlo con la forza anche se, come sostiene ad esempio Alberto Brambilla, già sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali del secondo governo Berlusconi (e quindi non esattamente un pericoloso bolscevico), “Imporre ai lavoratori di impegnare parte della loro retribuzione in un fondo pensione non è costituzionale. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria”. D’altronde, però, a mali estremi, estremi rimedi e qui c’è bisogno di garantire ai nostri giovani pensioni dignitose per il futuro, soprattutto dal momento che ormai un lavoro vero, con un contratto vero full time a tempo indeterminato e con un salario superiore alla soglia di povertà, è un lusso per pochi. L’unica speranza, allora, è affidare quei pochi risparmi che mettiamo da parte – a partire dal tfr – a qualcuno che li investe in borsa e che li sa far fruttare come si deve: come ribadisce Gianluca Baldini, l’obiettivo della misura non può che essere “garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori” e “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre” (e sottolineo SEMPRE) “di più rispetto a lasciare il tfr in azienda”. Ma è proprio così?

A vedere da questo grafico pubblicato da Morningstar ormai oltre un anno fa, a dire il vero, tutto sommato, sembrerebbe di no: per quanto riguarda il 2022 ad esempio (secondo il grafico), mentre chi aveva i soldi in un fondo pensione si è visto svalutare il suo patrimonio del 9,8 o addirittura del 10,7% – a seconda che si trattasse di fondi riservati ai lavoratori di determinati settori o di fondi aperti a tutti – quei tirchioni cacasotto che li avevano lasciati fermi immobili nel tfr se li sono visti rivalutare dell’8,3%. Eh vabbeh, direte; stai a fa il solito cherry picking. Sei andato a scegliere proprio l’anno del tracollo dei titoli azionari legato alla crisi pandemica. E’ vero, solo che proprio quell’anno lì è bastato da solo a smontare, dati alla mano, l’idea che appunto “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il tfr in azienda” che quindi, molto banalmente, è una fake news bella e buona, una pubblicità ingannevole al servizio della grande finanza; a causa dell’annus horribilis 2022, infatti, chi ha lasciato i suoi soldi nel tfr ha guadagnato rispetto a chi li ha dati in affidamento ai fondi anche se allarghiamo la finestra temporale: nell’arco degli ultimi 3 anni, infatti, chi ha messo i soldi nei fondi ha perso dallo 0,7 allo 0,8%, mentre il tfr si rivalutava del 4,3%. E nell’arco degli ultimi 5 la differenza diminuisce un po’, ma il senso non cambia: il patrimonio messo nei fondi si è rivalutato dallo 0,2 allo 0,4%, mentre quello rimasto a dormire nel tfr del 3,3. E per quanto effettivamente il 2022 sia stato un anno anomalo per l’andamento dei titoli azionari, il punto è che questi anni anomali, nel tempo, sono diventati sempre più frequenti: per trovare un altro caso, infatti, non bisogna risalire al 1929, ma basta tornare al 2008, o al 2001, o al 1987.
Quindi – sostanzialmente – la politica economica del governo Meloni consisterebbe nel fatto di scommettere al Casino con i pochissimi quattrini che un’economia in declino da 40 anni ancora ci ha lasciato in tasca, ma c’è di più, perché almeno questa roba servisse a dare un po’ di risorse finanziarie alle nostre PMI messe in ginocchio dalla crisi economica e dai tassi di interesse da usura… Macché: in realtà, anche da questo punto di vista è una gigantesca fregatura; da un lato, infatti, dei soldi che affidiamo ai fondi solo il 16% rimane in Italia, mentre oltre il 60% viene trasferito direttamente oltreoceano senza passare dal via. Dall’altro, in questo modo colpiamo direttamente la liquidità proprio delle nostre PMI che – soprattutto in questa fase, dove le banche di finanziamenti ne concedono pochini e quelli che concedono se li fanno pagare a peso d’oro – hanno visto nel tfr accantonato in azienda una fondamentale ancora di salvezza; insomma: si tolgono con la forza soldi ai lavoratori e alle aziende italiane per darli alla grande finanza d’oltreoceano. Per un governo di patrioti – bisogna ammettere – niente male, e gli effetti si vedono eccome: Frena il mercato del lavoro titolava La Repubblichina martedì scorso: “Forte aumento a luglio delle richieste di cassa integrazione e dell’utilizzo dei fondi di solidarietà da parte delle aziende”; in totale, riporta l’ultimo Osservatorio dell’INPS, le ore di cassa integrazione autorizzate a luglio sono state 36,6 milioni, segnando un + 3,71%, ma soprattutto un insostenibile + 27,9% rispetto al luglio del 2023 . A fare ancora più impressione è il dato disaggregato relativo alla sola industria, dove le richieste di ore di cassa integrazione durante i primi 6 mesi del 2024 hanno visto un aumento di un incredibile 51,3% rispetto all’anno precedente.
E – indovinate un po’ – tra i settori che soffrono di più, “incredibilmente” c’è l’automotive: “Stellantis dà il bentornato in fabbrica agli operai dello stabilimento di Pomigliano annunciando altri 5 giorni di cassa integrazione a settembre” riporta Il Fatto Quotidiano. E non è solo un problema degli operai: come ricordava venerdì scorso Maurizio Pagliassotti su Domani, il tramonto ormai è arrivato anche – ad esempio – per lo storico centro ricerche FIAT di Orbassano che a partire dagli anni ‘70 si era imposto come “uno dei cuori pulsanti della ricerca in campo automobilistico in tutto il vecchio continente”; nel tempo, ha sfornato la bellezza di oltre 3000 brevetti – dal motore turbodiesel multijet a iniezione diretta al common rail. Ancora nel 2002 impiegava oltre 1000 dipendenti super-specializzati, che poi sono diventati 770 nel 2012 e 500 nel 2021; oggi sono poco più di 150, troppo pochi per tenerlo ancora in vita. Ma FIAT a parte, la vera tragedia si sta abbattendo su scala ancora maggiore su tutto l’indotto che da FIAT dipendeva e, anche qui, paghiamo lo scotto della nostra sottomissione a Washington e della guerra che i suoi vassalli sono stati costretti a dichiarare alla Repubblica Popolare cinese: lo ha spiegato in modo sorprendentemente chiaro ed esplicito Federico Visentin, il presidente di Federmeccanica, in occasione del lungo viaggio della Meloni a Pechino a fine luglio scorso; in una breve (ma molto significativa) intervista al Corriere della Sera, Visentin spiega in maniera esemplare quello che sosteniamo continuamente da oltre un anno. Primo punto: per tenere in piedi la filiera dell’automotive italiano bisogna che vengano prodotti in Italia almeno 1 milione e mezzo di autoveicoli. Due: questi numeri non si possono sostenere producendo solo auto di alta gamma o costose; bisogna produrre utilitarie economicamente accessibili. Tre: “Gli unici in questo momento con le tecnologie adatte a produrre utilitarie elettriche a basso costo, dai 10 ai 12 mila euro, sono i cinesi”; altro che le vaccate della propaganda imperialista e guerrafondaia sulle politiche commerciali scorrette della Cina, tanto che anche l’intervistatore del Corriere deve essere rimasto un po spiazzato e chiede: “Ma allora davvero i cinesi sono più avanti sull’auto elettrica?”. “lo sono” risponde perentorio Visentin “e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo. Sulle batterie sono arrivati alla quinta generazione”.
Ma noi nel frattempo eravamo troppo impegnati a capire come far arrivare i nostri quattrini sui mercati finanziari d’oltreoceano dove, invece che alla quinta generazione di batterie, sono arrivate alla quindicesima di prodotti finanziari che non fanno altro che rendere più ricco l’1% e destinare alla miseria tutti gli altri. Cosa concretamente si potrebbe e si dovrebbe fare per tornare a creare ricchezza in questo paese non è un mistero: per farlo, però, ci dovremmo prima di tutto liberare dal partito unico degli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie e dai loro organi di propaganda. Costruire un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99% è il primo indispensabile passo; aiutaci a portarlo a termine: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Meloni a Pechino cerca di approfittare del caos negli USA e in Europa per rimediare i danni fatti

Come una D’Alema qualsiasi, appena salita al potere Giorgiona la Svendipatria, per accreditarsi al padrone di Washington, ha mantenuto la promessa fatta quando aveva chiesto il via libera al suo governo di non rinnovare il memorandum per l’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative. Dietro le quinte, comunque, alcuni funzionari che non sono completamente rimbambiti come i rappresentanti politici del partito unico della guerra e degli affari, hanno cercato di mantenere i rapporti con la più grande potenza economica del pianeta. Quel lavoro dietro le quinte sta alla base della lunga trasferta della Meloni a Pechino, durante la quale la Giorgiona ha provato a cospargersi un po’ di cenere sul capo per provare a rimediare il rimediabile. D’altronde, l’occasione è d’oro: la debolezza dell’asse franco-tedesco e l’impasse statunitense alla vigilia del voto delle presidenziali di novembre, potenzialmente permetterebbero all’Italia di ritagliarsi margini di manovra prima insperati. Saranno in grado i nostri analfosovranisti di approfittarne? Oppure si comporteranno come degli analfoliberali qualunque? Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco, cofondatore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e corrispondente da Shanghai per Il Domani.

L’Italia torna nella Via della Seta? – Giorgia Meloni a Pechino

video a cura di Davide Martinotti

Il sentimento della Via della Seta è stato presente durante l’incontro tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il leader cinese Xi Jinping. Meloni è la prima leader italiana a visitare ufficialmente la Cina dal 2019, dopo Giuseppe Conte, che aveva firmato per l’adesione dell’Italia al progetto della Via della Seta. Meloni, però, ha scelto di far uscire l’Italia dal progetto, sostituendolo con un partenariato strategico con la Cina, alla ricerca di un equilibrismo diplomatico. Seguendo questo solco, in questi giorni la Meloni ha firmato 6 memorandum di intesa e un piano d’azione per il rafforzamento del Partenariato Strategico Globale Italia-Cina.

🖋️ Il vecchio Memorandum sulla Via della Seta (2019-2024): https://www.governo.it/sites/governo….

Il governo Meloni abolisce il reato di abuso d’ufficio – ft. Claudia Candeloro

Oggi i nostri Irene e Gabriele intervistano Claudia Candeloro (avvocata del lavoro) riguardo alla riforma dell’abuso di ufficio voluta dal governo Meloni. La riforma permetterà ai singoli ufficiali pubblici una maggiore libertà di movimenti, al limite dell’abuso; particolarmente gravi le implicazioni che questa potrebbe avere sulla sicurezza pubblica. Come al solito i governi sovranisti di cartapesta confondono lo smantellamento della burocrazia con la creazione di zone grigie nel diritto, dalle conseguenze imprevedibili. Buona visione!

#AbusoDiUfficio #RiformaMeloni #Sicurezza #legalità

G7: i Big della terra banchettano mentre il mondo va alla deriva – ft. Alberto Fazolo

Per il consueto appuntamento del sabato Gabriele e Alberto Fazolo si concentrano su quanto sta accadendo al G7 di Fasano. I grandi della terra sono rinchiusi in un prato verde, mentre attorno il territorio arde nella calura estiva, mai migliore metafora dello scippo delle risorse a cui i grandi del mondo sottopongono il resto della popolazione mondiale. Spicca la prima visita di un Pontefice al G7: di cosa parlerà Papa Francesco? Cosa chiederà ai grandi del mondo? Scopriamolo assieme.

#G7 #PapaFrancesco #Meloni #capitalismo

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Disastro G7: l’Europa a guida Meloni prende ordini da Biden e dichiara guerra a Russia, Cina ed Euro

Negli ultimi giorni ne sono successe di ogni: proviamo ad andare, più o meno, in ordine cronologico. Lunedì scorso l’Arabia Saudita ha ufficialmente messo fine all’accordo, siglato ormai ben 50 anni fa, con gli USA che, in cambio della protezione militare a stelle e strisce, le imponeva di prezzare e commerciare petrolio esclusivamente in dollari; abbandonata la convertibilità in oro su cui si era fondata la centralità del dollaro da Bretton Woods in poi, la nascita dei petrodollari era stata la principale garanzia che gli USA avrebbero potuto stampare denaro all’infinito – e tutti i problemi che questo creava potevano essere agilmente scaricati sul resto del mondo. L’emancipazione del mercato del petrolio dalla dittatura del dollaro era già in corso dal tempo, ma – fino ad oggi – era ostacolata da questo accordo e si fondava su vari sotterfugi; con questo ultimo atto formale, il processo di dedollarizzazione subisce un’accelerazione (anche simbolica) epocale e comincia a rivelarsi in tutta la sua irreversibilità. Mercoledì scorso, invece, la Commissione europea ha annunciato la sentenza preliminare a seguito dell’indagine sugli aiuti di stato cinesi all’industria dell’automotive elettrico e che prevede l’introduzione di dazi aggiuntivi fino al 38,1% sui veicoli elettrici cinesi importati a partire da luglio. Come denuncia il Global Times “Questa cosiddetta indagine si è fondata sin dal principio sulla presunzione di colpevolezza, ed è stata condotta con modalità che non rispettano le regole del WTO”; nonostante questo, “L’industria automobilistica cinese ha collaborato attivamente all’indagine”, ma “la parte europea ha scelto selettivamente le società campione, ha ampliato arbitrariamente la portata dell’indagine e ha gravemente distorto i suoi risultati”. Come si spiega tanta manipolazione, soprattutto visto che l’industria dell’auto europea si opponeva a questa conclusione? Semplice: come sapete, meno di un mese fa papà Biden aveva deciso di superare in protezionismo i toni della campagna elettorale di Trump e aveva inaspettatamente aumentato, di punto in bianco, le tariffe sui veicoli elettrici cinesi dal 25 al 100%; l’Europa senza sovranità e senza dignità ha messo il pilota automatico, ha recepito il messaggio e si è affrettata a fare altrettanto, con la differenza che negli USA, comunque, hanno il dollaro e finanziano la reindustrializzazione a suon di mille miliardi di nuovo debito ogni 100 giorni. Noi invece c’abbiamo l’euro. E l’austerity.
L’euro arretra a livello globale titolava ieri Milano Finanza: “Nel 2023” sottolineava l’articolo “le banche centrali hanno ridotto di 100 miliardi gli asset in moneta unica”. La notizia è particolarmente grave visto che, nonostante la crisi economica, la BCE ha mantenuto tassi di interesse altissimi; ovviamente, tassi di interesse alti dovrebbero attirare capitali e, invece, il capitale continua a migrare tutto contento verso il nostro carissimo alleato a stelle e strisce, che rilancia: come riportava, sempre ieri, il Financial Times infatti, “I funzionari della Federal Reserve americana hanno annunciato che prevedono di tagliare i tassi di interesse solo una volta quest’anno, assumendo una posizione aggressiva sull’inflazione”. Quindi, come da mesi ormai sottolineiamo insieme ad Alessandro Volpi, al contrario delle aspettative del mainstream la guerra dei tassi continua e le vittime e i feriti sul campo siamo noi europei; ed è solo l’antipasto: le agenzie di stampa che ieri provenivano dal G7, infatti, davano come sostanzialmente conclusa la partita del furto degli asset congelati russi. Congelati sin dall’inizio del conflitto, 325 miliardi di asset russi generano ogni anno 3 miliardi di dollari di interessi: ora questi 3 miliardi dovrebbero essere usati per prendere un prestito da 50 miliardi da dare all’Ucraina per prolungarne un po’ l’agonia; il punto, però, è che – caso più unico che raro – questi 325 miliardi di asset russi non stanno negli USA o nel Regno Unito, ma nell’Unione europea, in Belgio per l’esattezza. Dimostrare, dati alla mano, che se porti le tue riserve in Europa e non sei simpatico a Joe Biden poi l’Europa li usa per armare i tuoi nemici, potrebbe non essere esattamente la migliore pubblicità possibile per attrarne di altri; quindi, riassumendo, proprio mentre c’è una gigantesca fuga dall’euro dovuta alle politiche monetarie del nostro alleato USA, noi decidiamo di accelerare ulteriormente la fuga dall’euro per rimanere fedeli alla guerra voluta dagli USA stessi contro la Russia e contro l’Europa. E – è bene sempre sottolinearlo – a prendersi il merito di questo capolavoro è stata la regina dei patrioti e dei sovranisti, Giorgia Meloni, fresca fresca di un più che buono risultato alle urne che ha deciso di spendere subito per essere eletta reginetta della svendita degli interessi dell’intero continente al padrone che non solo è statunitense, ma pure democratico; ci siamo lamentati per decenni di quanto fossero fessi gli elettori di sinistra che continuavano a votare il partito della lotta di classe dall’alto contro il basso per eccellenza come il PD, convinti di votare l’erede del PCI e della sinistra DC, ma bisogna ammettere che, rispetto agli elettori patrioti e nazionalisti che continuano a votare la più grande svenditrice della patria di sempre, erano comunque dei dilettanti allo sbaraglio.
Nel frattempo, Nikkei Asia ieri c’ha graziato con un’altra notizia bella succulenta; nel primo trimestre del 2024, infatti, gli USA sono diventati la prima destinazione delle esportazioni dei paesi dell’ASEAN, sorpassando la Cina e manco di poco: 67 miliardi contro 57. Oh, lo vedi? Decoupling e friendshoring funzionano! Beh, se continuano a crederci a noi certo non ci dispiace, perché la realtà è diametralmente opposta; la settimana precedente, infatti, erano usciti i dati sull’export cinese: Il boom dell’export cinese verso il Sud globale continua titolava il solito David Goldman su Asia Times; “Il meme occidentale sulla sovracapacità cinese” scrive Goldman “non funziona bene nel Sud del mondo, dove la domanda di infrastrutture di telecomunicazioni cinesi, veicoli elettrici a basso costo, pannelli solari e acciaio è in crescita”. Il processo suicida messo in moto dal suprematismo del centro imperiale – e dai fintisovranisti europei che gli vanno dietro – lo abbiamo raccontato svariate volte e ogni giorno che passa si consolida di più: in sostanza gli USA, invece che importare dalla Cina, importano merci cinesi (o che comunque contengono una marea di componentistica cinese) dai paesi che considerano amici, ma che, giustamente e inevitabilmente, più che essere amici dell’imperialismo USA sono semplicemente amici di se stessi. L’esempio del Vietnam è paradigmatico, come si vede da questo grafico:

da quando Trump ha avviato le politiche protezionistiche, l’import USA dal Vietnam è esploso, ma quello vietnamita dalla Cina è esploso ancora di più e ancora più rapidamente; risultato? Il Vietnam è ancora più legato alle catene del valore cinesi e la Cina non ha fatto che aumentare la sua influenza economica.
Un’altra notizia piuttosto succulenta che dà un segno preciso dei tempi riguarda Apple: da poco Apple, infatti, aveva annunciato che tutti i suoi mega investimenti nel campo dell’intelligenza artificiale non avevano portato, sostanzialmente, a una sega niente; questo fallimento si andava a sommare al crollo sui mercati cinesi, al che Warren Buffet – che è un finanziere, si, ma un po’ old school e investe fondamentalmente in aziende che crede abbiano ampi margini di crescita, come dimostra la sua partecipazione nel colosso cinese dell’automotive elettrico BYD – ha venduto un po’ di azioni. Ma il mondo non funziona più come è abituato a pensare Warren Buffet: nonostante il doppio fallimento, le azioni di Apple, alla fine, sono tornate a crescere; com’è possibile? Le risposte sono due: lo Schema Ponzi della finanza USA e il regime monopolistico del tecno-feudalesimo. Lo Schema Ponzi funziona che non importa se sei un’azienda del cazzo che non ne coglie una e butti via più soldi del Corpo Forestale in Calabria: i monopoli finanziari hanno deciso che le tue azioni devono valere tot e le tue azioni quello valgono, anche se sei sull’orlo della bancarotta. Il regime monopolistico del tecno-feudalesimo, invece, funziona che proprio grazie alla quantità senza senso di risorse finanziarie che ti vengono garantite dai fondi, se qualcosa non la sai fare (o, almeno, non sei all’altezza di competere), molto semplicemente te la compri, che è proprio quello che ha annunciato Apple: non siamo in grado di sviluppare intelligenza artificiale in modo competitivo come azienda? Vorrà dire che compreremo quella di OpenAI; che problema c’è? La differenza tra Apple e il servizio informatico del comune di Pizzo Calabro, stringi stringi, è che c’hanno li sordi; anzi, meglio ancora: manco gli servono li sordi. Come ricordava ieri Bloomberg, infatti, “Apple pagherà OpenAI per ChatGPT attraverso la distribuzione, non in contanti”: cioè, siccome c’hanno il monopolio delle app con gli App store proprietari, se vuoi conquistare il mercato devi passare da loro e paghi il dazio, come il fiorino in Non ci resta che piangere, un sistema feudale che bisogna difendere con ogni mezzo necessario.
Nel week end, subito dopo il G7 pugliese, in Svizzera si terrà il fantomatico Summit per la Pace in Ucraina, un summit piuttosto eccentrico dal momento che non vedrà la partecipazione di una delle due parti in causa e, a cascata, di nessun paese che più o meno è allineato a quello che Bloomberg ieri definiva l’asse della resistenza russo-cinese. Ovviamente i paesi del Nord globale parteciperanno, ma (a quanto ci è dato sapere) tra questi paesi la pace c’è già; a cosa dovrebbe servire quindi? Come sottolinea su Asia Times Jon Richardson della Australian National University, “Il principale target dell’Ucraina dovrebbero essere tutti gli altri paesi del Sud del mondo” e, cioè, quelli non più o meno esplicitamente schierati con Mosca, vale a dire la stragrande maggioranza. L’idea, appunto, sarebbe quella di provare a strappare un po’ di sostegno ai paesi che fino ad oggi hanno optato per farsi gli stracazzi loro e, laddove era possibile, hanno approfittato della situazione per strappare qualche fornitura di petrolio a prezzi di saldo, oppure hanno fatto qualche spicciolo triangolando merci e beni altrimenti preclusi ai russi: ora si tratterebbe di spiegargli che le sanzioni secondarie – cioè quelle che gli USA impongono con la forza del loro imperialismo finanziario a tutto il mondo contro la sua volontà – diventeranno mano a mano sempre più severe e inaggirabili; convincerli che Putin – come titolava ancora ieri il suo articolo Dan Altman della Georgia State University su Foreign Affairs – comunque perderà e che questa è l’ultima chance per salire sul carro del vincitore. A quanto pare, però, questa narrazione non è risultata esattamente molto convincente: “Non è chiaro” infatti, sottolinea sempre Richardson, “quanti dei maggiori attori, come Brasile, India, Indonesia, Turchia e Sud Africa, saranno rappresentati – o se invieranno funzionari anziché leader o ministri. E ci sono indicazioni che l’Arabia Saudita e il Pakistan, tra gli altri, non saranno presenti, il che non potrà che deludere amaramente l’Ucraina”.
Insomma: come abbiamo sottolineato milioni di volte, gli USA, a parte l’arroganza dei monopoli finanziari, non hanno più niente da offrire; nel Sud del mondo lo sanno e a fatica, giorno dopo giorno, cercano (e a volte di più, a volte di meno, trovano) il modo di sganciarsi. Se in Europa ci fosse una classe dirigente minimamente rappresentativa dei nostri interessi, sarebbe un’occasione straordinaria per cominciare ad emanciparci come mai siamo riusciti fino ad ora; certo, con patrioti come la Meloni e progressisti come Elly Schlein e alleati verdi e sinistri, diciamo che questo è un piano sul quale proprio non si arriva nemmeno concettualmente. Figurarsi concretamente! Per costruire dal basso una classe dirigente all’altezza dei tempi bisogna studiare, discutere e lottare e, per farlo, c’è bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walter Veltroni

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Al G7 Giorgia riceve l’incarico da Biden di trascinare l’Europa in guerra contro la Cina

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

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Contro il governo del partito unico liberal-imperialista – ft. Michela Arricale, Marta Collot, Giorgio Cremaschi

Oggi il nostro Gabriele intervista Michela Arricale, Marta Collot e Giorgio Cremaschi per parlare con loro del partito unico liberal-liberista che dal governo all’opposizione amministra con continuità da decenni il nostro paese. Mentre le elezioni sono roventi e piene di parole forti, le scelte politiche del centrodestra e del centrosinistra sembrano mirate tutte a compiacere le classi dirigenti e gli Stati Uniti. Mentre tutti parlano di pace, pochi discutono l’adesione del paese alla NATO, le sanzioni all’Ucraina o il supporto ad Israele; queste politiche scellerate si associano a decenni di deindustrializzazione, attacco al mondo del lavoro, alla nostra Costituzione antifascista e al welfare state. Per questo motivo, varie associazioni si sono date appuntamento il 1 giugno a Roma, a piazza Vittorio Emanuele alle ore 14.30 per protestare contro il governo Meloni e il suo portato ideologico radicalmente conservatore, liberista e guerrafondaio. Vi aspettiamo numerosi! Buona visione!

#Meloni #1giugno #manifestazione

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Meloni e Giorgetti curatori fallimentari svendono l’Italia a BlackRock

Fra una notizia e una dritta sul cavallo migliore del giorno, torna l’appuntamento del venerdì con il formidabile, imprevedibile ed inossidabile Nencio.

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Rimbambiden benedice la Le Pen e affida alla destra reazionaria il compito di svendere l’Europa

Oohhh, ora sì! Ne sentivamo veramente il bisogno! Come titolava a 6 colonne Libero ieri, finalmente Nasce la nuova destra: “Salvini e Le Pen” riporta la testata di Angelucci, il KingMaker della destra arraffona e svendipatria italiana, “rompono con i tedeschi di AfD, rimuovendo l’ultimo ostacolo per la formazione di una grande alleanza anti-sinistra che punti a governare l’Europa”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso delle tensioni fra ultradestra italiana e francese e quella tedesca in ascesa sarebbe stata nientepopodimeno che l’intervista pubblicata sabato scorso su La Repubblichina all’uomo indicato dall’AfD come il suo candidato alla presidenza della commissione europea, Maximilian Krah: “Non dirò mai che chi aveva un uniforme delle SS era automaticamente un criminale” aveva affermato. Non aspettavano altro: nell’arco di poche ore, Rassemblement National della Le Pen ha annunciato ufficialmente di aver tagliato definitivamente i ponti con l’AfD e che nel parlamento che verrà ridisegnato con le elezioni europee del 9 giugno non siederà più nello stesso gruppo parlamentare degli ex amici tedeschi; e, subito dopo, immancabilmente gli ha fatto eco la Lega di Matteo Salvini.
E’ l’esito scontato, anche se probabilmente più rapido e repentino del previsto, delle parole pronunciate la settimana scorsa dal portavoce delle oligarchie euroatlantiche, il presidente del parlamento europeo in carica Charles Michel, che avevamo già riportato in quest’altro video qua: “Nei partiti che vengono definiti di estrema destra” aveva dichiarato “vi sono personalità con cui si può collaborare”; il parametro da adottare per fare la selezione alla porta ovviamente non ha niente a che vedere con il nazifascismo e le SS che, anzi, negli ultimi due anni sono stati ripetutamente sdoganati tra leggende metropolitane sui lettori di Kant e vecchi stragisti antisemiti salutati come eroi della patria in giro per i parlamenti dell’Occidente collettivo. Quella è semplicemente la scusa: una trappola ben architettata che hanno teso all’impresentabile Maximilian Krah e nella quale, da sprovveduto quale è, è precipitato serenamente senza rendersene minimamente conto. Il discrimine vero, ovviamente, è tutt’altro e l’aveva sottolineato esplicitamente Michel stesso: l’importante, aveva affermato, è che siano “pronti a collaborare per sostenere l’Ucraina, e a rendere l’Ue più forte” che, tradotto, significa “che siano schierati dalla parte giusta nella guerra che l’imperialismo ha dichiarato ai paesi sovrani di tutto il mondo e che siano pronti a rinunciare ancora di più alla sovranità dei rispettivi paesi (dove – nonostante tutto – vigono ancora sistemi almeno parzialmente democratici) per trasferire ancora più potere a una struttura sovranazionale completamente post democratica come l’Unione europea e mettere, così, definitivamente al sicuro l’adesione all’agenda ultra-atlantista senza rischiare che venga messa almeno parzialmente in discussione dal voto popolare”; due paletti che l’AfD, al momento, non sembra essere troppo propensa a rispettare.

Maximilian Krah

Ed ecco quindi, casualmente, che arriva il casus belli e l’opportunità per fare, come titolava il suo editoriale di ieri sempre su Libero Mario Sechi, “la mossa giusta per contare di più” che, sostanzialmente, significa fare a livello europeo quello che Giorgia lamadrecristiana ha già portato a termine nel laboratorio politico italiano: sostituirsi alla sinistra ZTL come la fazione del partito unico della guerra e degli affari più affidabile agli occhi dell’imperialismo a guida USA e delle sue oligarchie in questa lunga stagione di guerra totale contro il resto del mondo. Ma prima di provare a capire cosa significa e cosa può comportare questo epocale spostamento del baricentro politico dell’intero vecchio continente, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra di guerra (quella contro la dittatura degli algoritmi) e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutte le nostre pagine social e attivare tutte le notifiche; un’operazione che a voi costa pochi secondi di tempo, ma che per noi può fare davvero la differenza e aiutarci a costruire un vero e proprio media che, invece di fare da cassa di risonanza alle boiate della sinistra ZTL e della destra svendipatria, dà voce agli interessi del 99%.
“La mossa di Le Pen e Salvini è giusta” scrive Mario Sechi nel suo editoriale di ieri che trasuda entusiasmo da tutti i pori: “è un’opportunità, tutta da costruire e con poco tempo per spiegarla. Il risultato lo vedremo presto: siamo nella fase in cui si fanno le scommesse, siamo tra il razionale e l’irrazionale. E’ il fascino del voto, fate il vostro gioco” (Mario Sechi, Libero). La quantità di fuffa messa sul tavolo dai pennivendoli della destra fintosovranista per cercare di dare una qualche forma di nobiltà alle spericolate acrobazie politiche che sta cercando di compiere per accreditarsi come il più fedele dei cani da guardia dell’impero agli occhi del padrone di Washington, ricorda i tempi migliori delle supercazzole di Vendola e Bertinotti; ci manca giusto la mossa del cavallo e abbiamo fatto l’en plein. Un parallelismo che non dovrebbe sorprendere troppo, tutto sommato: proprio come allora, infatti, la sinistra cosiddetta radicale si doveva inventare teorie astruse per giustificare il sostegno a governi che, con la loro foga riformatrice in chiave ferocemente neoliberista, ne contraddicevano alla radice la stessa ragion d’essere; ora la mission impossible di dover giustificare – a suon di parabole e frasi ad effetto – il sostegno a un’ipotesi di governo in netto contrasto con l’euroscetticismo e il Pivot to Russia professato fino ad oggi, tocca alla destra fintosovranista e svendipatria.
Come sottolineiamo continuamente, nell’ambito dell’imperialismo unitario, tanto nel centro imperiale USA quanto – a maggior ragione – nella periferia europea, non c’è nessunissima alternativa concreta di governo che possa essere espressa dalle urne; lo stato profondo dell’imperialismo unitario ha optato, per ragioni strutturali che ci sforziamo continuamente di sviscerare, per una guerra totale contro il resto del mondo e le elezioni non possono che essere una sorta di concorso interno al partito unico della guerra e degli affari per decidere quale fazione dovrà governare questa lunga e travagliata fase. Di default, il referente più accreditato sarebbe quel guazzabuglio della maggioranza Ursula, un’accozzaglia talmente informe da garantire che non venga mai messo in discussione il pilota automatico che guida la politica della colonia europea; il vecchio e paludato establishment, con il suo sterminato curriculum in tema di utilizzo di doppi standard, presenta inoltre anche l’innegabile vantaggio di conoscere il galateo e di avere un volto presentabile, requisito piuttosto utile per poter continuare a ricorrere alla barzelletta dello scontro tra società aperte e responsabili, da un lato, e sconsiderati e feroci regimi autoritari dall’altro. Fino ad oggi, questa favoletta per analfoliberali ha sempre rappresentato un potente dispositivo egemonico che faceva credere a una parte consistente di popolazione che anche se era chiamata a sopportare giganteschi sacrifici (mentre le sue élite economiche non facevano che arricchirsi) alla fine, perlomeno, era per una buona causa; ma questo dispositivo egemonico – e, cioè, questo artificio retorico che fa credere a chi è bastonato che, alla fine, sia per il suo bene – nonostante tutti gli sforzi della propaganda, mano a mano che le bastonate diventavano più forti non ha fatto che perdere il suo appeal. Ma non solo: per quanto, con ogni probabilità, del tutto velleitarie nel cuore stesso della sinistra delle ZTL, mano a mano che la totale subordinazione all’agenda delle oligarchie USA ne faceva precipitare i consensi si sono cominciate a vedere alcune crepe.
Il primo ministro socialdemocratico tedesco, ad esempio, spinto dai malumori crescenti di una fetta consistente della sua borghesia nazionale, prima ha opposto qualche flebilissima resistenza all’invio delle armi più distruttive in Ucraina – dai Leopard ai Taurus – e poi ha anche abbozzato qualche forma di dialogo con il nemico pubblico numero 1, la Repubblica Popolare Cinese; qualche mal di pancia, poi, è emerso per il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini palestinesi perpetrato dal regime fasciosionista di Tel Aviv: prima, in particolare, da parte del governo di centrosinistra spagnolo e poi, addirittura, dall’amministrazione del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron che, giusto ieri, ha espresso il suo sostegno alla richiesta da parte del procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aja di un mandato di cattura per Bibi Sterminator Netanyahu e il suo fedele ministro dello sterminio, Yoav Gallant. Ma soprattutto – come abbiamo sottolineato a più riprese – nel caso specifico di Macron, questo sussulto di dignità sulla questione genocidio non è un episodio isolato: il protagonismo degli ultimi mesi del sempre pimpantissimo Manuelino, infatti, non è passato certo inosservato; in principio furono le parole che Manuelino pronunciò nel viaggio di ritorno dalla Cina, quando Manuelino si azzardò a sottolineare che “Per troppo tempo l’Europa” non avrebbe perseguito con sufficiente convinzione la strada per la costruzione di una sua “autonomia strategica”, che non dovremmo farci coinvolgere “in una logica di blocco contro blocco“ e che non dovevamo lasciarci coinvolgere in scenari di “crisi che non sono nostre”, alludendo chiaramente alle tensioni nel Pacifico e nello Stretto di Taiwan. Poi c’è stata la sparata sull’invio di truppe in Ucraina, che in molti hanno letto come un atto di fedeltà suprema alla guerra USA contro la Russia, ma in realtà, molto probabilmente, anche qui la realtà è decisamente più complessa: dopo essere stato – in assoluto – il paese europeo che ha mandato meno aiuti a Kiev, la fuga in avanti sull’invio di truppe, in realtà, poteva anche essere letta come un tentativo di forzare la creazione di una difesa comune europea con la Francia e il suo ombrello nucleare al centro e in grado di garantire, appunto, una certa autonomia strategica. Dopo ancora è arrivato il famoso rapporto di Enrico Baionetta Letta, uomo legato a doppio filo alle élite d’oltralpe che, sostanzialmente, invocava la creazione di un monopolio finanziario privato autonomo europeo, ovviamente a guida francese; traiettoria che, subito dopo, il sempre pimpantissimo Manuelino ha ribadito aprendo all’ipotesi di operazioni di fusione e acquisizione tra grandi banche europee con un occhio di riguardo, in particolare, a operazioni che vedano coinvolti gruppi spagnoli e francesi.
Intendiamoci: non si tratta certo di atti di insubordinazione sovranista all’imperialismo unitario. Lo schema all’interno del quale si muove Macron è comunque sempre quello della globalizzazione neoliberista e della finanziarizzazione spinta dell’economia a favore delle oligarchie transnazionali; e infatti il suo nuovo protagonismo ha trovato grande risalto nella grande stampa finanziaria internazionale che gli ha dedicato prime pagine su prime pagine, da Bloomberg all’Economist, che oltre ad aver sottolineato più volte tutte le sue perplessità nei confronti della svolta neoprotezionista degli Stati Uniti, ricordiamo essere anche legata a doppio filo proprio alla finanza francese in quanto di proprietà della Exor della famiglia Agnelli/Elkann, tra i principali azionisti – tra l’altro – della ormai sostanzialmente francese Stellantis. Ciononostante, appunto, segnala una qualche ripresa della volontà di grandeur francese e, in continuità con il gaullismo (che, comunque, rappresenta una componente importante dello stato profondo francese), anche di volontà – appunto – di ritagliarsi un posto al sole in un sistema imperialistico riformato e non completamente appiattito sulle esigenze di Washington e di Wall Street. Ora, intendiamoci, si tratta chiaramente, in buona parte, di ambizioni velleitarie: ciononostante, per una Washington che comunque – nonostante il suo fondamentalismo eccezionalista – non può non riconoscere il progressivo declino del sistema superimperialista incentrato sul suo dominio, sicuramente rappresentano motivo di più di qualche preoccupazione, soprattutto in prospettiva; l’attivismo del sempre pimpantissimo Manuelino, infatti, può anche essere letto come la necessità di costruire una exit strategy sostenibile per le sue oligarchie nazionali – e non solo nel caso il gigantesco schema Ponzi che è l’economia ultra-finanziarizzata degli USA (e che sta in piedi se e solo se nessuno riesce a mettere in discussione l’egemonia globale del dollaro) a un certo punto dovesse crollare: d’altronde, per capire che aleggi questo retropensiero basta guardare al cambio repentino di una rivista come Limes che, ormai, parla di fine dell’impero USA in termini quasi più perentori di quanto non facciamo noi e che, non a caso, è degli stessi proprietari dell’Economist.

Emmanuel Macron

Mettere fine a questo rinnovato protagonismo di Macron e smorzare le ambizioni indipendentiste francesi è quindi, con ogni probabilità, uno degli obiettivi di Washington; ed ecco così che, improvvisamente, la Le Pen – contro la quale per decenni tutto l’establishment europeo, al momento della bisogna, si è sempre compattato senza sbavature – magicamente diventa potabile. Per diventarlo, ovviamente, ha dovuto superare alcune prove di fedeltà: la prima risale ormai a un paio di mesi fa, quando la Marine ha spiazzato tutti annunciando il suo “appoggio incondizionato all’eroica resistenza ucraina”; un cambio di atteggiamento che però da solo, ovviamente, non poteva bastare. Bisognava che Marine ricalcasse la traiettoria già intrapresa dalla prima della classe del trasformismo della destra fintosovranista europea, la nostra Giorgia Nazionale, e che tagliasse in modo eclatante i ponti con quelle forze che ai dictat di Washington continuano ostentatamente a non volersi sottomettere, a partire, appunto, dall’AfD.
L’AfD, infatti, rappresenta per Washington uno dei principali spauracchi politici del vecchio continente e, da un certo punto di vista, è anche un bene, perché se è vero che ai tempi del declino dell’impero il fintoliberalismo globalista è il nemico principale, i danni che può fare una forza politica che non ha fatto nemmeno i conti col nazifascismo in una Germania in crisi e sotto attacco economico come tra le due guerre mondiali sono sinceramente incalcolabili. Ma, ovviamente, non è questa cautela a muovere i leader del mondo libero; d’altronde, il nazifascismo – in soldoni – altro non è che l’espressione più feroce delle logiche comuni a tutte le forze imperialiste e, al netto dei deliri ideologici, deve il suo sovrappiù di ferocia, in buona misura, al fatto di essersi fatto strada quando le altre potenze si erano già spartite il pianeta. Alla Germania e ai suoi alleati allora non rimaneva che trasformare in loro colonie il mondo slavo che però, rispetto a un qualsiasi paese africano o dell’estremo Oriente, aveva due svantaggi: il primo era che ci assomigliano un po’ di più; e quindi per noi che, volenti o nolenti, siamo ancora comunque profondamente razzisti, vedere le stesse identiche violenze che gli altri hanno perpetrato contro popoli non bianchi, di default ci fa più impressione. Il secondo è che erano armati (altrimenti li avevano già colonizzati) e quindi il tentativo di conquista coloniale, da un semplice massacro di popoli considerati inferiori, si è trasformato in una guerra di dimensioni spaventose. E, tra l’altro, oggi il sacrificio di quelle popolazioni noi manco lo riconosciamo: facciamo finta che a combattere e vincere la guerra siano stati gli USA e celebriamo solo le vittime che ci tornano più comode – che tra l’altro, a ben vedere, a livello ideologico (che conta il giusto, ma qualcosa pur sempre conta) è anche il motivo per cui ai postfascisti de noantri (a partire dalle bimbe di Benito come La Russa & company) la svolta filoatlantista, che d’altronde ha radici piuttosto lontane, non è che sia costata poi tanto. Dalla parte dell’imperialismo più feroce erano allora e dalla parte dell’imperialismo più feroce stanno oggi; tutto sommato, da questo punto di vista, so’ pure coerenti (anche quando, magicamente, superano in filosionismo i colleghi della sinistra ZTL).
Il superomismo amorale ti fa anche cambiare idea su chi è da considerare umano e chi, invece, appartiene agli untermensch. Il problema di fondo con l’AfD – come, a suo tempo, fu anche con la Lega che, per essere ammessa nella compagine di governo, ha visto il compagno Adolfo Urso recarsi di persona a Washington per fornire personalmente la garanzia che, al momento del bisogno, si sarebbero comunque sempre schierati dalla parte dell’imperialismo – è che rappresenta un blocco sociale che, strutturalmente, dalla guerra delle oligarchie contro la Russia e contro l’economia europea ha tutto da perdere e che è ben disposta a scendere a patti con i protagonisti del nuovo ordine multipolare pur di continuare a difendere l’economia reale tedesca; fatti fuori loro, gli altri partiti dell’ultradestra europea si sono guadagnati la benedizione di Washington che, in un’ipotetica nuova maggioranza politica fondata sull’alleanza tra l’ultradestra e la destra conservatrice dei popolari, vede alcuni vantaggi importanti. In primis, il fatto che, mano a mano che il declino dell’impero continuerà a far sentire i suoi effetti, anche le garanzie prettamente formali delle democrazie liberali cominceranno ad essere percepite come troppo vincolanti per il ricorso alla forza bruta contro i sempre crescenti malumori delle masse popolari; insomma: ci sarà da menare forte e la destra destra potrebbe risultare meglio attrezzata.
Il punto è come pensiamo di organizzarci noi per reagire, senza cadere di nuovo nella trappola della sinistra delle ZTL che utilizza questi timori (che, più che legittimi, a questo punto sono doverosi) per portare avanti la stessa identica agenda fondata su guerra e rapina, solo magari con qualche nozione di galateo in più. Quello che, di sicuro, ci serve come il pane è un vero e proprio media che sia in grado di contrastare la propaganda che ci rifilano per giustificare questa discesa verso gli inferi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Francesco Lollobrigida

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Meloni e Le Pen: la destra atlantista contro Macron, l’AfD e ogni rischio di sovranità europea

Appuntamento della rassegna stramba del mercoledì con non uno, ma ben due Giuliano! Appuntamento alle 08.30 per raccontarvi le notizie del giorno.

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