LA GRANDE TRUFFA DELL’AUTO ITALIANA – Che fine hanno fatto i 220 miliardi regalati agli Agnelli?
“La famiglia miliardaria degli Agnelli, che con la sua casa automobilistica negli anni ‘70 impiegava oltre 170 mila persone” scrive il Financial Times “è stata una regalità industriale italiana per oltre un secolo, corteggiata da tutti i governi che si sono succeduti, attraverso incentivi e politiche di favore”; “adesso, non più”. Dopo la sfuriata contro gli extraprofitti delle banche, la Giorgiona nazionale, per la seconda volta, trova il coraggio di dire apertamente quello che ogni italiano che non abbia subito una lobotomia totale ha sempre pensato e – per la prima volta nella storia dei primi ministri di questo paese – si scaglia contro la stirpe più parassitaria della storia italiana contemporanea. Nel caso degli extraprofitti delle banche non finì proprio benissimo, diciamo: dopo una bella overdose di retorica da è finita la pacchia, giusto il tempo di far incassare qualche decina di milioni agli speculatori al ribasso ed ecco che la tassa veniva già abbondantemente ridimensionata fino a ridursi a una minchiata tale da non trovare neanche più spazio nella legge di bilancio; non c’è motivo di credere che, a questo giro, possa andare meglio. Ciononostante, inveire contro gli eredi di una stirpe che, da oltre un secolo, viene sommersa da aiuti e incentivi pubblici di ogni genere senza restituire mai una seganiente è sempre un esercizio benefico e liberatorio e quindi, con grande gioia, ci uniamo a gran voce al coro: GLI AGNELLI CI HANNO ROTTO IL CAZZO. Stellantis aveva promesso il ritorno a 1 milione di veicoli prodotti in Italia: sono fermi a 750 mila. Nel 2022 ha registrato profitti record e nei primi sei mesi del 2023 ancora un altro record: li hanno distribuiti come dividendi e c’hanno ricomprato le azioni, e non hanno investito un euro – manco per la carta igienica; a maggio a Pomigliano i lavoratori si sono dovuti fermare due ore perché, come riportava addirittura Bloomberg, “Lo stabilimento è sporco, i bagni puzzano e mancano pure le tute da lavoro: i lavoratori devono aspettare mesi per sostituire quelle vecchie e logore”. Nel frattempo non hanno fatto altro che elemosinare altri incentivi e altri favori e quando la nostra Giorgiona, giustamente, li ha mandati a cagare, Tavares su Bloomberg ha risposto con le minacce: “Se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mette a rischio il mercato italiano e i nostri impianti, a partire da Pomigliano e Mirafiori”. Detto fatto: a marzo 2260 operai di Mirafiori se ne andranno in cassa integrazione e potrebbe non essere una cosa passeggera; erano impiegati nelle linee della Maserati e dell’unico veicolo elettrico del gruppo costruito in Italia, la 500e. Per i nuovi modelli Maserati bisognerà aspettare anni e la 500e non è competitiva; senza un altro modello di grande consumo – è l’opinione unanime di tutti gli analisti – Mirafiori è spacciata.
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Però, in realtà, un investimento in Italia gli Agnelli l’hanno fatto: si sono comprati il gruppo GEDI. A differenza di Stellantis non produce profitti, ma ne vale la pena: tra Repubblica e La Stampa dell’addio all’Italia di Stellantis non c’è traccia. Al suo posto, questa roba vergognosa qua: “La nuova Lancia riparte dall’Italia”; “I nostri valori sono la storia, il design e una visione ambiziosa per il futuro”: è l’informazione mainstream ai tempi dell’editoria in mano agli oligarchi, una fabbrica di armi di distrazione di massa, opuscoli promozionali al posto delle notizie. Di fronte alla rivoluzione dell’elettrico l’automotive europeo si è fatto trovare completamente impreparato e, inevitabilmente, il primo anello a saltare è quello più debole: ci accontenteremo delle sparate inconcludenti della Meloni come per gli extraprofitti delle banche o, a questo giro, ci diamo finalmente una svegliata e ci prepariamo a vendere cara la pelle?
Nel 2023 produzione ferma a 750 mila veicoli titolava in prima pagina ieri Il Sole 24 Ore: “L’obiettivo del milione rischia di essere archiviato”. Lo smantellamento dell’automotive italiano, programmato scientificamente da Stellantis con la copertura dei media comprati ad hoc dalla famiglia Agnelli, procede inesorabile: la quota del milione di veicoli prodotti, infatti, non è stata fissata a caso; è la massa critica minima necessaria per tenere in piedi tutto il settore che, con poco oltre 160 mila persone impiegate in oltre 3 mila aziende, è il cuore di quel poco che rimane del nostro manifatturiero. “Siamo nati al fianco della FIAT nel 1980” ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato della Promax Spa Nicola Pino al Sole “e grazie a loro ci siamo internazionalizzati, ma questi volumi produttivi ci mettono in ginocchio”: tra Melfi e il Piemonte, la Promax, che produce sedili, occupa circa 1000 persone; erano 1.600 giusto una quindicina di anni fa. Tutto merito di Stellantis che copre il 60% delle commesse: “Un milione di veicoli è la cifra minima per provare almeno a risalire la china, anche se i buoi sono già scappati, e il terreno perso è difficilmente recuperabile”; “La questione” sottolinea Il Sole 24 Ore “è emersa con drammaticità a Melfi, dove le aziende della componentistica e le imprese dei servizi sono nate intorno allo stabilimento ex FIAT, e che ora si trovano a corto di commesse”.
A fare una bella e utile cronologia del massacro, sempre su Il Sole 24 Ore, ci pensa il sempre ottimo e puntualissimo Paolo Bricco; la sua ricostruzione parte dal 2004: all’epoca, ricorda Bricco, “la FIAT era tecnicamente decotta. E quando arriva Sergio Marchionne, il gruppo perde due milioni al giorno”. Dopo 5 anni arriva l’acquisizione di Chrysler, la più malconcia delle Big Three di Detroit: “L’operazione funziona” sostiene Bricco “ma il nuovo gruppo, FCA, è frastagliato, sconnesso, disomogeneo. E di sicuro il baricentro non è più italiano”; d’altronde, come sottolineava Marchionne, è “la fusione di due società povere”e, per risalire la china, non trova di meglio che cominciare a staccare dei pezzi che si spostano “a Londra per la migliore fiscalità” e “ad Amsterdam per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”. Questo è un aspetto fondamentale che molto spesso non viene citato: il codice civile olandese, infatti, stabilisce che una società per azioni può stabilire liberamente il numero di voti per ogni azione detenuta da determinati soci che, ovviamente, rappresenta un vantaggio gigantesco per gli azionisti più forti perché gli permette di controllare la società anche senza maggioranza, un altro dei dispositivi tecnici che, negli ultimi decenni, ha favorito la concentrazione del potere economico nelle mani di pochissimissimi. “IVECO – CNH, che fa trattori e macchine movimento terra” ricorda Bricco “è la prima”; seguiranno poi FCA, Exor, Ferrari e Magneti Marelli, il gioiello della componentistica che poi sarà ceduto al fondo KKR, quello che recentemente s’è comprato pure la rete digitale di Telecom grazie al lavoro diplomatico dell’ex direttore della CIA David Peatraues. Nel frattempo, ricorda Bricco, “in Italia accadono due cose”: la prima risale al 2010, quando viene annunciato il piano Fabbrica Italia – mica pizze e fichi, ma, come scrivevano nero su bianco Marchionne e John Elkann in una lettera agli azionisti, “Il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”, così straordinario che dopo poco più di un anno, senza che nel frattempo si fosse mossa foglia, veniva ritirato. Per la seconda tappa bisognerà poi aspettare il 2016 quando, sempre in pompa magna, viene annunciato il fantomatico Polo del lusso che, a partire dalla sinergia tra Alfa Romeo e Maserati, doveva attirare altri marchi internazionali di prestigio come Audi e Mercedes e proiettare nel futuro l’Italia dell’auto, ma – ricorda Bricco – “anche il polo del lusso non va bene. E un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”.
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Poi, appunto, c’è la vendita di Magneti Marelli: è il 2018 e FCA incassa la bellezza di 6,2 miliardi; i fondi speculativi sono predatori, ma a volte pagano bene. Sarebbero stati dei bei soldini per provare a rilanciare la produzione in Italia, ma è troppa fatica; gli azionisti di maggioranza di FCA, grazie anche proprio al voto multiplo permesso in Olanda, impongono una scelta lungimirante: i quattrini vengono spartiti come super dividendi, e dall’automotive finiscono chissà dove. Di fronte a questa cronologia impietosa, sostiene Bricco, quelli che oggi si scandalizzano per l’indifferenza degli Agnelli rispetto alle sorti dell’Italia (e che sono rimasti muti negli ultimi 15 anni) fanno abbastanza ridere; la storia degli Agnelli, da decenni, è – come titola il suo prezzo Bricco – una storia alla Prendi i soldi e vendi. Ma quanti soldi hanno preso? Una stima che circola spesso sono 220 miliardi, ma “probabilmente” sottolinea Bricco “sono molti di più”; nessuno, però, lo saprà mai perché, continua Bricco, “è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (e non solo la FIAT) si è più volte ristrutturata a spese del bilancio dell’INPS”. Di sicuro, conclude Bricco, c’è “che il Paese ha dato molto. E il bilancio è del tutto a favore della fu FIAT”. Con la fusione con PSA, ovviamente, le cose non potevano che peggiorare: mentre la Francia diventava un socio forte direttamente con le azioni detenute dallo Stato, a rappresentare gli interessi dell’Italia rimanevano, appunto, solo gli Agnelli; non esattamente una botte di ferro, diciamo, e in una fase che per il decotto automotive europeo – totalmente incapace di reggere la concorrenza cinese dove, nella transizione e nell’elettrificazione, si investono cifre spropositate da anni e anni e dove si sono raggiunte un’economia di scala e un’efficienza ineguagliabili – è di per se un discreto bordello. Risultato: quel poco che si mette sul tavolo per difendere gli insediamenti produttivi tradizionali va a tutelare la produzione francese, e quella italiana viene abbandonata. La nuova 600 elettrica si produce in Polonia, la Panda elettrica in Serbia, ma l’assemblaggio finale – per provare a reagire alla concorrenza cinese – non basta, ed ecco così che arriva la goccia che fa traboccare il vaso: come riporta Bloomberg, Stellantis avrebbe inviato una lettera ai suoi fornitori italiani nella quale segnalava le straordinarie opportunità di investimento in Marocco.
Non è un paese a caso; 11 novembre, South China Morning Post: “La Cina punta sul Marocco mentre la nazione nordafricana diventa il centro della rivoluzione dei veicoli elettrici”; “La vicinanza del Marocco all’Europa, l’abbondanza di minerali essenziali e gli incentivi fiscali” scrive la testata di Hong Kong “hanno posto il Marocco al centro del settore dei veicoli elettrici”. “Nell’ambito della tendenza globale al nearshoring” continua “per accorciare le catene di approvvigionamento le aziende cinesi si stanno ora schierando nel Paese nordafricano”: come vi abbiamo raccontato svariate volte negli ultimi mesi – al di là delle tesi strampalate di chi avversa l’elettrico perché gli piace il rombo del motore e altre segate varie – l’automotive del prossimissimo futuro è elettrico e l’unica speranza che ha l’Europa di non venire completamente esclusa dai giochi – come avvenuto con i microchip e le piattaforme digitali e come sta avvenendo di nuovo, in modo ancora più preoccupante, con l’intelligenza artificiale – è trovare il modo di integrare le catene del valore con l’unica superpotenza manifatturiera mondiale, e cioè la Cina; il resto sono chiacchiere, soprattutto da quando gli USA hanno deciso che per giocarsi la loro partita era tornato il tempo del protezionismo più feroce, e se le istituzioni e la politica europea non fanno i conti con questo dato materiale incontrovertibile, vorrà dire che i produttori europei l’integrazione coi cinesi la faranno fuori da casa nostra. E in questo processo l’Italia, che è l’anello debole del vecchio continente, non poteva che fare da apripista.
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Ingaggiare qualche dissing contro gli Agnelli, che ormai l’Italia l’hanno abbandonata da mo’, sicuramente fa sempre piacere e sicuramente – giustamente – esalta un pezzo di elettorato, ma se continui a fare lo zerbino di Bruxelles e di Washington nella loro guerra ideologica contro Pechino, finito il piacere per l’industria italiana, a casa, comunque, non hai portato nulla, esattamente come per la tassa sugli extraprofitti delle banche. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce: da una parte, al netto di tutte le contraddizioni, ci sono pace, investimenti e sviluppo; dall’altra, oligarchie predatorie e venti di guerra e, al di là di qualche battuta anche simpatica, la Giorgiona nazionale da che parte sta l’ha sempre fatto capire piuttosto chiaramente. Contro la sua propaganda abbiamo bisogno di un vero e proprio media che perculi gli Agnelli come Giorgia e più di Giorgia, ma che al contrario di Giorgia stia dalla parte del mondo nuovo che avanza e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è John Elkann