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Contro Limes; il turbo-atlantismo è nel nostro interesse nazionale?

La rivista di geopolitica Limes ha recentemente ufficializzato una propria proposta strategica per l’Italia: nel numero “Una certa idea d’Italia”, il direttore Lucio Caracciolo e l’analista Federico Petroni, sicuramente mossi solo dal nobile intento di invertire il nostro declino geopolitico e tornare ad essere protagonisti nelle nostre potenziali aree di influenza, scrivono che l’Italia dovrebbe stipulare un nuovo accordo bilaterale con Gli Stati Uniti, dando vita da una sorta di rapporto speciale tra i due paesi che ci legherebbe ancora più saldamente all’agenda strategica e al comparto militare industriale americano in cambio di una loro maggiore copertura militare e al supporto ai nostri interessi nazionali nella regione mediterranea: “Un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti” si legge nell’editoriale “[…ri]costituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”. Il ragionamento è questo: visto che, volenti o nolenti, siamo provincie del loro impero e da Washington hanno deciso che la Russia e la Cina devono essere trattati come nemici dell’Occidente, l’unica cosa che possiamo fare noi per salvarci è invocare ancora maggiore dipendenza strategica dall’America in cambio di una maggiore copertura e di un po’ più di autonomia tattica nel Mediterraneo, una regione comunque secondaria nel conflitto tra USA, Russia e Cina che potrebbe permetterci di battere la concorrenza di nostri competitor regionali agguerriti come la Francia e la Turchia. L’idea è, insomma, che potremmo sfruttare meglio di quanto non stiamo facendo il nostro comunque inemendabile status di nazione occupata per portare avanti i nostri interessi nazionali nel nostro estero vicino; come vedremo in questa puntata, quella di Limes, per quanto ragionata e argomentata , appare una proposta miope da tanti punti di vista. E su La Fionda è uscito un interessantissimo articolo di Mimmo Porcaro, Il limite di Limes e il nostro, che analizza nel dettaglio la proposta della rivista del gruppo Gedi facendone emergere tutte le contraddizioni e avanzando un’altra possibile proposta strategica che si pone, invece, come chiaro obiettivo non la rassegnazione alla sudditanza – che è anche quanto di più lontano dal nostro interesse nazionale -, ma la lotta per la riconquista di una sovranità popolare e democratica e di una politica estera finalmente all’altezza della nostra storia e di questo compito.

Mimmo Porcaro

Come sottolinea giustamente Porcaro nell’articolo de La Fionda, Limes è un importante riferimento culturale per chi si occupa di geopolitica in Italia e per quanto riguarda gli articoli dedicati al nostro paese dà spesso voce ad interventi assai condivisibili che cercano di comprendere le cause strutturali del nostro declino e di indicare obiettivi politici realistici per invertire la tendenza: dalla ridiscussione dell’euro alla reindustrializzazione del paese, al rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, alle politiche demografiche, alla politica scolastica, alla gestione dell’immigrazione, ecc. Il pezzo forte dell’ultimo numero dedicato all’Italia, però, riguarda la politica estera e la collocazione del nostro paese nel grande conflitto geopolitico in atto – quella che a Limes piace chiamare La guerra grande – e sia nell’editoriale di Caracciolo che nell’articolo di Federico Petroni leggiamo, in sintesi, questo ragionamento: dato che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più controllare tutte le aree critiche del pianeta e dato che una difesa comune europea è una prospettiva più mitologica che politica, l’Italia, per non rimanere indifesa, dovrebbe operare in stretta connessione con gli Stati Uniti una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana. Insomma: in questo clima di guerra degli Usa nei confronti di Russia e Cina che vedrà come area di conflitto anche il Mediterraneo (anche se solo come area secondaria), l’Italia deve ribadire con ancora più forza il proprio allineamento e la propria fedeltà al blocco atlantico svolgendo il ruolo di unico vero campione degli interessi americani nel mare nostrum, così da sfruttare questo rapporto privilegiato con il padrone a scapito, magari, delle altre potenze regionali vicine. Come sottolinea giustamente Porcaro, nonostante venga presentata come unica opzione possibile per assicurarci un ruolo di maggiore autonomia e potenza del paese nel nostro estero vicino, questa tesi deve essere respinta con decisione: “Prima di tutto” scrive Porcaro, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime o, comunque, a confondersi con esse, soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali.”
Uno dei problemi fondamentali di questa proposta, insomma, è che non siamo agli inizi degli anni 2000 e nemmeno a 10 anni fa, quando la pax americana ancora grossomodo reggeva e la guerra grande non era ancora cominciata: “Se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo” continua Porcaro “non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti contro-effetti nel Mediterraneo stesso”. Auspicare di prendere parte ad un conflitto mondiale potenzialmente devastante schierandosi, senza se e senza ma, con una delle due parti in causa non sembra – a dirla tutta – una strategia granché lungimirante e spacciarla per mero realismo politico e interesse nazionale appare addirittura irrazionale e contraddittorio; come spiega Porcaro, infatti, la tendenza in America a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è molto più forte di quello che traspare dagli articoli di analisti statunitensi, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Come diciamo poi spesso ad Ottolina, più che politico-culturale, è una questione strutturale: il capitalismo finanziario americano può sopravvivere in questa forma e con questa costante crescita solo attraverso l’egemonia espansionistica militare degli USA a scapito del resto del mondo; un nuovo ordine multipolare o policentrico implicherebbe, invece, un’inevitabile implosione delle proprie bolle finanziarie, scenario molto più apocalittico per le oligarchie economiche americane rispetto ad una guerra, magari lontana dal proprio territorio, contro le altre superpotenze. “Il nodo essenziale è questo” scrive Porcaro: “per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso militare-industriale). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo”; indipendentemente da Clinton, Bush od Obama, sono stati questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’open door, ossia del libero mercato mondiale inteso come penetrazione economica degli USA nel resto del mondo, in prima istanza grazie agli investimenti, ma sempre sotto la tutela delle armi.
E anche il recente protezionismo di Trump e di Biden, con annessa maggiore aggressività economica e militare nei confronti dei paesi non allineati, non è che un aggiornamento della politica imperialista del capitale alla luce della ormai ingestibile capacità economico-industriale cinese: “Stando così le cose” conclude il ragionamento Porcaro “stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del popolo eletto) a comportamenti potenzialmente controproducenti”; affidarsi, insomma, completamente al popolo eletto – subordinando, oltretutto, ad esso in maniera quasi irreversibile la nostra industria militare – potrebbe non essere una scelta molto saggia in quanto non se ne ricaverebbe affatto una maggiore autonomia, sovranità e profondità strategica, ma soltanto un collaborazionismo ancora più servile e autolesionistico ad una potenza strutturalmente guerrafondaia pronta a sacrificarci senza troppi problemi qualora questo giovasse al loro interesse nazionale e magari, chissà, come estrema ratio a trascinarci negli inferi insieme a lei. Una proposta quindi paradossale, tanto che anche Petroni, nel suo articolo Per una relazione speciale con gli Stati Uniti, sottolinea come gli italiani non avrebbero alcun interesse a fare la guerra alla Russia e alla Cina e come la nostra idea di Occidente sostanzialmente fatto e finito e quella americana, in costante imperialistica espansione, non coincidano affatto: “A tutto voler concedere” scrive Porcaro “la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (segreto) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima” e cioè che, ripetiamo, è finita l’epoca in cui il massimo pericolo per l’Italia era la concorrenza nel Mediterraneo di altre potenze NATO, come Grecia o Francia e Turchia, e lo strapotere economico tedesco nell’area euro da cercare di bilanciare in qualche modo, ma siamo nell’epoca, come Limes riconosce, della guerra grande e, cioè, in una fase in cui la nostra potenza occupante e l’imperiale di riferimento si è resa conto che per mantenere la propria egemonia non può che fare la guerra ai propri nemici, a loro volta armati di bombe atomiche. La maggiore indipendenza ventilata da questo rapporto speciale sarebbe quindi solo un’illusione anche perché, come scrive Porcaro, “In guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.” Insomma: in questa impossibilità a staccarsi (forse sentimentalmente) dagli Stati Uniti sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale.
Pur senza fare i conti in tasca alla rivista e concedendo un’assoluta indipendenza e onestà intellettuale al progetto editoriale, è chiaro che, per qualche motivo, manca il coraggio di porre come prospettiva di medio-lungo periodo una ritrovata sovranità democratica del nostro paese, che pure è l’unica prospettiva che coincide veramente con il nostro interesse nazionale; come raggiungere questo obiettivo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare e su cui Limes dovrebbe maggiormente discutere: rispetto a questo obiettivo strategico di medio-lungo periodo, tutto il resto è tattica e strategia e, magari, anche stipulare dei nuovi accordi di vassallaggio con gli Stati Uniti in determinate circostanze potrebbe avere senso, ma queste circostanze oggi ci dicono l’esatto opposto e, quindi, di questo collaborazionismo implicito (spacciato per disincantato realismo) non abbiamo davvero più bisogno. “Per Limes infatti” scrive Porcaro (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) “l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi”. “Ma noi cosa proponiamo?” si chiede infine Porcaro, intendendo con “noi” tutti coloro che rivendicano il nesso tra sovranità nazionale e democrazia e non si fanno attrarre da qualche snobistica prospettiva pseudo-realista; quando si passa alle proposte alternative concrete, spesso tra questi “noi” ci si limita agli slogan – fuori dalla NATO, fuori dall’euro – e non sappiamo andare oltre la pur giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare. Ma quale posto spetterebbe all’Italia in questo nuovo equilibrio? E come fare a raggiungerlo? “Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un blocco BRICS?” si domanda Porcaro; “Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.”
Tra gli obiettivi di Ottolina Tv c’è senz’altro quello di stimolare un dibattito serio e ragionato che possa superare tanto il collaborazionismo implicito di Limes quanto gli slogan di protesta privi di contenuto e chiarire le possibili prospettive strategiche alternative per il nostro paese. Per prima cosa, ragiona Porcaro, i principi guida dovrebbero essere due: “1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente linea di tiro, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi, sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale.” Nelle condizioni attuali, un pur affascinante polo mediterraneo appare irrealizzabile o, quantomeno, non è più perseguibile come strategia principale: “Il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fatti assai più deboli, economicamente e politicamente (il piano Mattei senza la potenza dell’industria di Stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra”; cosa resta quindi, conclude Porcaro? “Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti”. Quello che rimane da chiarire in questa condivisibile suggestione strategica di Porcaro è, però, cosa si intende con alleanza europea e soprattutto quali Stati ne dovrebbero fare parte: si intende un un’improbabile nuova alleanza tra i 27 Stati membri dell’Unione europea? Oppure – cosa forse più verosimile e gestibile – un nucleo europeo composto dagli Stati occidentali? Rispetto a questa condivisibile proposta strategica, benché ancora tutta da definire, si pongono allora allora due questioni primarie: “Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed unitarie”. Quanto alla seconda questione, ricorda Porcaro, bisogna sempre ricordare che in politica e, soprattutto, in politica estera, si raggiunge lo scopo prefissato solo attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche; pertanto, per quanto riguarda questa nuova alleanza europea, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della NATO e dell’Unione europea “ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione”.
Insomma: la chiarezza negli obiettivi strategici di medio-lungo periodo, fondamentali per la sopravvivenza della Nazione e quindi per il recupero della sovranità democratica, deve essere la premessa fondamentale per orientare la nostra azione politica; i piani e le svolte tattiche che saremo costretti a valutare per raggiungerli sono, in parte, imprevedibili. Quello che è sicuro è che di alcune posizioni servili e, nella sostanza, antinazionali (anche quando fatte con buona fede) sono oggi, per tutto quello che abbiamo detto, francamente irricevibili. E se anche vuoi contribuire a costruire un media veramente libero e indipendente che si occupi di proposte strategiche nazionali e in vista dell’emancipazione del 99 per cento, aderisci alla campagna di sottoscrizioni di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Italia per sempre schiava? Come la sindrome del suddito si è impossessata del nostro Paese

Nel nuovo mondo multipolare e con il prossimo disimpegno politico e militare americano in molte aree a noi vicine, enormi possibilità e opportunità si aprono per il nostro paese – opportunità che, però, rischiamo di non cogliere a causa di una grave malattia che ormai ci affligge da decenni, la malattia forse più grave che possa colpire una comunità nazionale: è la cultura del vincolo esterno – o anche detta la sindrome del suddito – e, cioè, l’idea che gli italiani sarebbero incapaci per natura di autogovernarsi, che la nostra salvezza dipenderebbe sempre da un salvatore esterno e che, in fondo, il nostro destino non può che essere quello di essere colonie di un qualche superpotenza a cui bisogna leccare il più possibile i piedi nella speranza di ricevere in cambio un affettuoso gesto di approvazione.

Ovviamente non c’è nessuna ragione storica e culturale per pensare che questo debba essere il nostro destino, anzi! Gran parte della nostra storia ci dice l’esatto contrario; ed è però il classico esempio di profezia che si autoavvera: più noi la pensiamo così, più diventiamo davvero sempre più incapaci di mobilitarci e trasformare le cose ed educhiamo intere generazioni a disprezzare lo Stato, a respingere la propria comunità e a non lottare per i propri diritti al lavoro, alla casa, alle cure… È, questo, il risultato più preoccupante di 70 anni di dominio militare e culturale americano e degli anni di egemonia culturale della finta sinistra esterofila e anti – italiana della ZTL, ossia l’aver interiorizzato la mentalità dei servi a tal punto da pensare che la nostra incapacità di governare sia una nostra caratteristica antropologica, nonché l’avere sviluppato una vera e propria fobia nei confronti dell’indipendenza e della libertà. Nel suo ultimo articolo pubblicato su Limes, Il vincolo esterno (non) è un destino, Giuseppe De Ruvo, filosofo e analista geopolitico, ripercorre la storia e le ragioni di questo mito tutto italiano e ci indica anche possibili vie per finalmente liberarsi da questa atmosfera tossica e autodistruttiva, utile solo a chi, tra le oligarchie economiche nostrane e le potenze straniere, si approfitta della nostra ignoranza e inconsapevolezza nazionale.
Con la crisi dell’impero americano e l’emergere di nuove potenze che stanno trasformando il mondo, per il nostro paese – così come per tutti i paesi europei – si aprono spazi geopolitici e geostrategici prima impensabili che nuove classi dirigenti che si lasciassero, finalmente, alle spalle gli ultimi 30 anni di politiche suicide, potrebbero sfruttare. La prossima vittoria di Trump, in particolare, potrebbe segnare la definitiva scelta di campo americana riguardo alle proprie priorità strategiche e, cioè, quella di concentrare tutte le risorse e mezzi possibili nell’Asia – Pacifico in ottica anticinese, disimpegnandosi cosi in Europa e lasciandoci maggiore margine di manovra. In aree come il Medioceano e il Mediterraneo – fondamentali per la nostra sopravvivenza – l’Italia avrebbe, ad esempio, tutte le potenzialità per imporsi come importante soggetto regionale; inoltre, l’espulsione della Francia dalle sue colonie africane ci candida automaticamente a potenziale soggetto geopolitico eurafricano: “Non avendo un passato coloniale paragonabile a quello francese” scrive De Ruvo “potremmo proporci come partner alla pari dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci in inaggirabile hub energetico e logistico.” Infine, la profonda crisi economica e industriale tedesca potrebbe aprire degli spiragli per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità e il pareggio di bilancio in Costituzione; precondizione fondamentale per sfruttare queste opportunità è, però, lasciarci alle spalle la cultura esterofila ed autodistruttiva del vincolo esterno che è, oggi, un’atmosfera culturale che mina alla base i fondamenti e i legami della nostra comunità democratica, delegittimando l’idea stessa di Stato e nazione italiana, anche perché ad essere più colpite da questa atmosfera – che si ripercuote in un’opinione pubblica e in una classe dirigente collaborazionista con chi, di questo stato di cose, se ne approfitta – sono, come sempre, le classi popolari, ossia le classi che hanno di più da perdere dall’indebolimento dello Stato, dalle politiche predatorie delle oligarchie economiche nostrane e delle potenze straniere che si approfittano di questa debolezza – e dal venir meno dei legami comunitari.

Giuseppe De Ruvo

Il problema fondamentale però, riflette De Ruvo, è che dopo la seconda guerra mondiale l’Italia ha sostanzialmente basato la sua costituzione geopolitica sul concetto stesso di vincolo esterno: “Abbiamo sovrapposto i nostri interessi a quelli americani e a quelli europei” scrive De Ruvo “convinti che gli altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Abbiamo creduto all’ideologia della Pax Americana più degli americani stessi, nonostante – dopo la fine della guerra fredda – il nostro estero vicino abbia conosciuto più volte la guerra (Jugoslavia e Libia). Abbiamo considerato l’Unione Europea un fine in sé, mentre tutti gli altri la trattavano per quello che è: un utile mezzo per promuovere specifici interessi nazionali.” In più, in preda ad uno strano delirio masochistico, invece di porci come obiettivo la nostra rinnovata auto – determinazione, nel nostro immaginario abbiamo associato ai soggetti del nostro vincolo esterno tutte le qualità positive che a noi non apparterrebbero e, quindi, da una parte noi siamo populisti e incompetenti e, dall’altra, l’Unione Europea è neutra e competente; e quindi, da una parte, il nostro stile di vita è retrogrado e provinciale e, dall’altra, lo stile di vita americano è invece assolutamente desiderabile. Insomma: secondo questa moda culturale esterofila, che nella storia ritroviamo spesso in comunità occupate e colonizzate, l’Italia dovrebbe essere un paese fondamentalmente passivo che, per salvarsi, deve affidarsi a mani più sagge e competenti e questo perché i padroni benevoli saprebbero sicuramente fare il nostro interesse nazionale meglio di noi.
L’esperienza del fascismo ha giocato sicuramente un ruolo fondamentale in tutto questo e negli anni successivi alla caduta del regime si assiste addirittura alla diffusione di tesi sull’illegittimità storico – politica del popolo italiano: “Nel dopoguerra” scrive De Ruvo “il ventennio fascista era visto come una macchia indelebile, che poteva essere lavata solo in due maniere: o considerandolo un qualcosa di estraneo, una parentesi, o legandolo indissolubilmente a una certa italianità che andava estirpata e rimossa […]; la prima – crociana – è caratterizzata dal rifiuto di storicizzare il fascismo, mentre la seconda lega, in qualche modo, l’esperienza fascista a una certa antropologia, al modus vivendi dell’homo italicus, caratterizzato dall’indifferenza e dal me ne frego e, secondo questa prospettiva, per evitare che il mitologico fascismo eterno alla Umberto Eco torni a impossessarsi degli italiani, ci sarà sempre bisogno di un vincolo esterno capace di limitare i nostri istinti più bassi e accompagnarci per mano in un futuro migliore. Come ha scritto anche l’ex governatore di Banca Italia Guido Carli nelle sue memorie, la progressiva adesione del belpaese ai vincoli europei “nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo paese”.
Arrivati a questo punto, l’errore – quindi – più grave che possiamo fare è quello di interpretare queste leggende metropolitane sull’italianità tossica e sulla nostra incapacità di governarci, diffusesi in questa precisa congiuntura storica a causa dal nostro status coloniale, come tratti antropologici eterni del nostro carattere nazionale; purtroppo capita spesso, invece, di sentire anche in televisione qualche intellettuale un po’ snob riempirsi la bocca con esempi storici per dimostrare che l’Italia è sempre stata terra di conquista e di gente egoista e pavida, sempre felice di sottostare a quella o quell’altra dominazione straniera. Ma senza scomodare l’impero romano – che può sembrare un esempio iperbolico – in epoca contemporanea basta pensare al periodo risorgimentale in cui migliaia di persone sono morte per la nostra libertà e indipendenza, o anche alla prima parte del novecento, per capire che in realtà si tratta di pura ideologia funzionale ad interessi ben precisi, un’ideologia che però, grazie alla nostra classe di intellettuali e politici collaborazionisti, è diventata quasi una sorta di pedagogia anti – nazionale propinata fin dalle scuole primarie.
Infine, la cosa che più di tutte forse dovremmo infilarci in testa è che non esistono padroni benevoli, non esistono vincoli buoni: esistono solo padroni che fanno i loro interessi che ogni tanto, per puro caso e per un periodo di tempo limitato, possono anche coincidere con i nostri. Ma, alla lunga, credo basti il buon senso per capire che una comunità non libera di perseguire i propri interessi nei modi e con i mezzi che ritiene più opportuni non può che andare incontro alla propria distruzione. Per uscire da questa atmosfera culturale decadente e corrosiva, De Ruvo indica alcune questioni da affrontare in maniera dirimente: “Intanto, l’Italia deve tornare a definire chiaramente i propri interessi nazionali e non può più permettersi di rinunciare alla sua sovranità nella (in)fondata speranza che anche gli altri lo facciano.” Scrive De Ruvo “[…] Non possiamo più nasconderci dietro alla foglia di fico dell’Europa o affidarci toto corde al Veltro americano: abbiamo dei chiari interessi nazionali dai quali dipendiamo esistenzialmente e dobbiamo avere la capacità di farli rispettare”; inoltre, continua, “Gli italiani devono prendere coscienza della loro unità e uniformità nazionale. È incomprensibile che gli abitanti del belpaese si considerino più disuniti dei francesi o dei tedeschi. Questo dato è semplicemente falso: per cultura, modo di vivere e di stare al mondo gli italiani sono molto più uniti di quanto amino raccontarsi.”
Come ci ha insegnato Marx, la cultura di una collettività dipende, in gran parte, dalla sua struttura politico – economica in quel determinato momento storico ed è quindi prima di tutto su questo piano che la nostra battaglia deve indirizzarsi per cambiare le cose; ma anche l’informazione e il senso comune possono giocare la propria parte nello sfatare ideologie false e autodistruttive e su questo tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo fare la differenza: la lotta di classe, infatti, si unisce oggi inevitabilmente anche alla lotta per l’indipendenza nazionale ed europea, senza la quale rischia di annacquarsi in un astratto internazionalismo. Per vincere avremo bisogno di un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda delle oligarchie americane e dei nostri intellettuali collaborazionisti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni