Skip to main content

Tag: integrazione

VolksWagen minaccia chiusure – Come la guerra ha distrutto l’azienda più democratica dell’Occidente

Care zecche rosse, mi spiace deludervi, ma anche a questo giro le vostre gufate da invidiosi devono lasciare il passo all’Italia dell’amore e della prosperità: Record di occupati, titola Libero; il governo brinda. “L’Italia” – è il commento della nostra condottiera che sta traghettando il paese verso un nuovo rinascimento, ben più brillante e luminoso di quello che il compagno Renzi aveva intravisto nelle petromonarchie assolute del Golfo – “nonostante il rallentamento dell’economia mondiale e la delicata situazione internazionale, sta crescendo più delle altre nazioni europee, e PIL, occupazione, export e investimenti sono positivi”. Mi comincia a venire il sospetto che porti un po’ sfiga, porella: L’Italia arranca, titolava ieri La Stampa; il PIL si ferma allo 0,6%. “Si allontana l’obiettivo dell’1% entro l’anno”, ed è solo la punta dell’iceberg: Componentisti auto, titolava Il Sole 24 Ore domenica scorsa; in Italia uno su due rischia di finire in crisi. Ciononostante, Giorgiona continua a perculare: “Adesso” ha dichiarato “è fondamentale consolidare il quadro economico”. Certo: consolidare la recessione, effettivamente, mi sembra la scelta più adeguata – a meno che, quando parla di consolidare, non si riferisca ad altro; al suo nuovo paese d’adozione dove – chissà mai com’è – il rallentamento dell’economia mondiale (guarda caso) non lo stanno avvertendo poi tantissimo. “Raramente” scrive il Wall Street Journal “gli americani sono stati così entusiasti del mercato azionario”; “L’impennata del mercato azionario” continua l’articolo “ha coniato una quantità spropositata di nuovi milionari. Il numero di persone che ha un conto su un fondo pensione da oltre un milione di dollari è aumentato del 31% rispetto anche solo a un anno fa, attestandosi a quota 497 mila”: loro sì che dovrebbero votare Giorgiona! Che comunque, bisogna ammetterlo, su una cosa ha ragione: agli altri paesi europei non è che vada molto meglio. Già domenica Il Sole 24 Ore avvisava: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi e, alla fine, ieri la bomba atomica: VolksWagen sta prendendo in considerazione la chiusura di fabbriche in Germania”, titola Bloomberg, “è la prima volta in 87 anni di storia. Il livello e la rapidità con i quali avanza inesorabile la totale devastazione del vecchio continente nella passività più totale è qualcosa che studieranno sui libri di storia per i prossimi secoli, ma sui media mainstream italiani sembra un problema di qualche zero virgola da correggere con qualche micro-intervento da infilare in una manovra di politica economica da pochi miliardi, che alla nostra crisi – come si dice in francese – gli farà come il cazzo alle vecchie comunque venga declinata. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questa cronaca di una morte annunciata, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere anche oggi almeno la nostra piccola battaglia contro la dittatura distopica degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non ne impieghi John Elkann a mettere in cassa integrazione qualche migliaio di lavoratori a Mirafiori, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a provare a portare un po’ di consapevolezza tra i nostri concittadini, mentre i media provano a rincoglionirli con dosi da cavallo di anestetizzanti per le sinapsi.

La VolksWagen di Wolfsburg

Se qualcuno mi avesse mai chiesto come m’immaginavo l’azienda ideale nell’Europa del futuro, non avrei avuto dubbi: avrei risposto, senza alcun dubbio, VolksWagen (come, d’altronde, sostanzialmente qualsiasi cittadino tedesco); quando nell’agosto del 2015, poco prima dello scoppio del dieselgate, YouGov in un sondaggio aveva chiesto ai tedeschi quale considerassero il simbolo per eccellenza della Germania, due terzi risposero VolksWagen. Altro che Goethe, o la Merkel, o i wurstel! Nonostante sia stata fondata durante il nazismo per soddisfare il sogno di Hitler di avere anche in Germania un’auto del popolo, in realtà la produzione di massa in quel di Wolfsburg inizierà soltanto nel dicembre del 1945, a regime ormai sconfitto; l’impianto era controllato dai britannici che, però, decisero in fretta e furia di restituirlo ai tedeschi perché non riuscivano a trovare un acquirente privato: “Le auto VolksWagen sono poco attraenti per il consumatore medio” dichiarò sprezzante un pezzo grosso dell’industria automobilistica della regina. Insomma… Nell’arco di una generazione il Maggiolino divenne l’auto più venduta del pianeta e nel 1972 superò la Model T della Ford nella classifica delle auto più prodotte di tutti i tempi. Ma ancora più che le auto, la VolksWagen in questi quasi 90 anni ha prodotto lavoro: con oltre 680 mila addetti, ancora oggi VolksWagen è la quinta azienda privata al mondo per numero di impiegati (la seconda, se si restringe il cerchio alle sole aziende manifatturiere, dietro soltanto a Foxconn); posti di lavoro difesi con le unghie. Tra i grandi marchi dell’automotive occidentale, VolksWagen è l’azienda che in assoluto produce meno fatturato per singolo impiegato: 500 mila dollari; Stellantis viaggia a quota 800 mila, Ford e General Motors oltre 1 milione – nonostante molti di noi, prima di comprarsi una Ford o una General Motors, probabilmente preferirebbero spostarsi comodamente con una Graziella (o col calesse). Ciononostante, anche quest’anno i sindacati sono sul piede di guerra per ottenere aumenti salariali intorno al 7%. A garantire che la difesa dei posti di lavoro in Germania venisse prima di tutto, c’è la struttura aziendale: la metà dei seggi nel consiglio di sorveglianza dell’azienda, infatti, spetta ai rappresentanti dei lavoratori, che hanno sempre potuto contare sul sostegno di un azionista piuttosto importante. E’ lo Stato della Bassa Sassonia, che detiene il 20% delle azioni – e molto di più in termini di potere negoziale; un modello di governance che (ovviamente) non piace così tanto agli investitori internazionali, che l’unico tipo di vincolo sociale che sono abituati a tollerare sono le vaccate sulla responsabilità sociale che le aziende scrivono sulla carta igienica solo per farne parlare qualche giornalaccio mainstream. Anche perché quando, in passato, qualcuno ha provato a introdurre logiche che guardano più agli interessi degli azionisti che a quelli dei lavoratori, non ha fatto esattamente una bella fine: come ricorda Bloomberg, infatti “I manager che in passato hanno tentato di sfidare i lavoratori, hanno fatto tutti una pessima fine: precedenti scontri hanno posto fine o ridotto il mandato di alti dirigenti, tra cui l’ex amministratore delegato Bernd Pischetsrieder, l’ex capo del marchio VW Wolfgang Bernhard e Herbert Diess, il predecessore di Blume come amministratore delegato. Tutti e tre hanno cercato di ottenere efficienze, in particolare nelle operazioni nazionali tedesche di VW, ma hanno fallito miseramente”. Ecco perché l’annuncio di ieri di una possibile chiusura di qualche stabilimento in Germania rappresenta uno snodo epocale per la storia di VolksWagen e, a cascata, di tutta l’industria europea: “Viviamo in un mondo geopolitico difficile” ha commentato, sempre dalle pagine di Bloomberg, l’analista di CitiGroup specializzato nel settore automotive Harald Hendrikse e “anche VW è stata costretta a riconoscere la gravità della situazione”.
La crisi dell’industria tedesca è di una gravità senza precedenti: l’indice PMI di agosto per il settore manifatturiero s’è attestato a quota 42,4, perdendo quasi un altro punto intero rispetto al già disastroso 43,2 di luglio; a pesare, in particolare, il calo dei nuovi ordini. Vuol dire che le fabbriche non riescono a smaltire le scorte e non hanno intenzione di accumularne altre e, quindi, non ordinano beni intermedi; e non riguarda certo solo l’automotive: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi titolava domenica Il Sole 24 Ore. I conti di Thyssen-Krupp AG, proprietaria di Thyssen Krupp Steel Europe (che è il più grande produttore d’acciaio in Germania), nel terzo trimestre del 2024 sono andati in profondo rosso e il titolo ormai supera di poco i 3 euro; prima dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia e contro l’industria europea, viaggiava attorno ai 10 euro. Non se la passa molto meglio neanche la Salzgitter, che è la seconda azienda siderurgica tedesca; solo un anno fa era stata definita Il faro della transizione verde in Germania che però, da allora, si è spento: da inizio anno il titolo ha perso oltre il 50%, nonostante si siano intascati 1 miliardo di euro di finanziamenti pubblici (come, d’altronde, altri 2 miliardi di finanziamenti erano andati in cassa pure a Thyssen Krupp). E se poi nei lander più poveri la maggioranza di governo raggiunge a malapena il 15%, è stato “un colpo di Stato di Putin”, come l’ha definito davvero Politico.
Ma se non riescono a tenere in piedi i loro campioni nazionali in Germania, nonostante abbiano ancora parecchi soldi pubblici da regalargli senza che a Bruxelles gli venga una crisi isterica, pensate come stiamo messi noi… Più o meno, così: Stellantis agli operai: il lavoro c’è, ma in Polonia; “Stellantis” riporta Attilio Barbieri su Libero “propone di rientrare al lavoro a una decina di operai carrellisti dello stabilimento piemontese di Mirafiori. Ma non in Piemonte. In Polonia. Precisamente nello stabilimento di Thychy, nel voivodato della Slesia, l’impianto dove si producono la nuova Fiat 600, la Jeep Avenger e l’Alfa Romeo Junior”. D’altronde, in quel di Stellantis ormai fuggire dall’Italia è considerato proprio trendy: un po’ di tempo fa, venne a galla che i dirigenti Stellantis consigliavano ai fornitori di chiudere baracca e burattini per andare in Marocco; l’obiettivo era ridurre i costi fino al 40%. “La tecnologia elettrica, in Europa” aveva sottolineato Carlos Tavares durante un incontro nello stabilimento di Atessa “è del 40% più costosa. Se vogliamo rendere i veicoli elettrici accessibili dobbiamo digerire il 40% del costo addizionale. Che ci piaccia o no”; da lì in poi, le aziende di componentistica in Italia sono diminuite del 4,4% e la produzione è scesa del 18%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate della stessa identica percentuale: “In Piemonte siamo ai bollettini di guerra” commenta La Verità. “Tredici settimane di cassa in Prima Industrie di Collegno, altrettante all’ex Alcar di Vaie. Da lunedì, fino a fine anno, 200 lavoratori in cassa anche per la Novares. E poi ancora alle Officine Vica, alla Proma, al Gruppo Cornaglia e alla Denso”; di questo passo, secondo uno studio commissionato dall’associazione di categoria ad Alix Partners, nel 2030 la componentistica italiana avrà perso tra i 20 e i 40 mila posti di lavoro.
D’altronde, del milione di veicoli che Giorgia la patriota ha sempre garantito sarebbe riuscita a imporre di produrre a Stellantis – e che sono considerati la cifra minima indispensabile per non radere al suolo tutto l’indotto – alla fine dell’anno ne verranno prodotti poco più della metà, anche perché non ci sarebbe chi se li compra: di competitività internazionale, infatti, non se ne parla, e il mercato interno è al collasso. Dall’inizio dell’anno, la propensione al consumo degli italiani ha subito un crollo come non se ne vedevano da oltre 15 anni; d’altronde, come va l’economia lo sperimentano sulla loro pelle, non sui titoli della propaganda filo-governativa. E, ad esempio, si rendono benissimo conto che se negli ultimi anni l’economia italiana non dico che ha tenuto (perché sarebbe una bestemmia), ma almeno ha preso qualche scoppola in meno rispetto ai paesi vicini, è solo ed esclusivamente a causa del superbonus: “Senza l’apporto delle costruzioni” riconosce finalmente anche Repubblica, dopo anni passati a massacrare il superbonus per fare contenta Bruxelles e gettare merda a gratis su Giuseppi, “il PIL dell’Italia tra 2021 e primo trimestre 2024 sarebbe cresciuto solo del 10,5% anziché del 14,5%”; ed ecco così che gli italiani, senza più il becco d’un quattrino e senza una minima prospettiva per il futuro, le auto – molto banalmente – non se le comprano più. Ad agosto le vendite di auto hanno subito un calo di oltre il 13% rispetto all’anno scorso, e quelle di Stellantis addirittura di oltre il 30%.
Il problema, però, è che Stellantis non è solo un’azienda che ha il monopolio della nostra industria automotive, ma ha anche il monopolio dell’opposizione politica mainstream a questo governo, che usa con finalità che niente hanno a che vedere con gli interessi di chi ci lavora (e del 99%); ed ecco così che, immancabilmente, il suo poderoso apparato propagandistico scende in campo per dissimularne la fuga dall’Italia e lo fa rifugiandosi in un passato idilliaco: Torino conquista gli Stati Uniti, titola La Stampa; “La FIAT e lo sbarco negli USA: record Jeep grazie a Melfi”. L’articolo a piena pagina fa parte di una serie celebrativa pensata in occasione dei 125 anni di FIAT e riporta agli anni d’oro dell’innamoramento di massa (totalmente ingiustificato) nei confronti dell’allora CEO Sergio Marchionne: ricorda come quando FIAT è sbarcata a Detroit, su invito del premio Nobel per la pace Barack Obama, sembrava “un’ex metropoli bombardata nel centro” e che Marchionne era determinato a portare agli antichi splendori. Grazie a investimenti ed innovazione? Macché: grazie ad Eminem! L’articolo ricorda quando Olivier Francois incontrò l’agente di Eminem, il rapper bianco che aveva cantato la disperazione della città: “La proposta è incredibile” scrive enfaticamente l’ennesimo pennivendolo a libro paga degli Agnelli/Elkann: “Per qualche giorno Eminem non si è fatto trovare. Fino a quando ha accettato di ricevermi nel suo studio, ricorderà anni dopo il manager. Ecco come nasce il più lungo spot televisivo trasmesso nella notte del Super Bowl, il 7 febbraio 2011. Nove milioni di dollari per dire all’America che la Chrysler è tornata e soprattutto che Detroit non è più sinonimo di disperazione: Siamo andati all’inferno e siamo tornati, canta Eminem prima dello slogan finale, Imported from Detroit”. Tre anni dopo, Marchionne presenta al salone di Ginvera la Renegade, “il primo modello con marchio Jeep prodotto fuori dall’America, a Melfi. Quella che poco tempo prima sarebbe parsa una bestemmia negli Stati Uniti, diventa una realtà e un’opportunità. Il piccolo SUV viene esportato e venduto anche in Nord America. Le navi con le auto prodotte in Basilicata partono da Civitavecchia per attraversare l’Atlantico. Il marchio Jeep, guidato da Mike Manley, arriva a vendere da solo 2 milioni di auto all’anno”.
Poco dopo nasce FCA, per la precisione il 12 ottobre 2014; una “data non casuale” sottolinea l’articolo “che coincide con quella della scoperta dell’America” – certo non da parte dell’Italia, che anche a questo giro è assente: la nuova società ha sede ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra. E più che ai lavoratori FIAT e all’indotto, punta al portafoglio degli investitori di Wall Street: “Quello di oggi è un momento storico” afferma Elkann dopo aver suonato la campanellina che avvia le contrattazioni a Wall Street “perché sulle fondamenta di FIAT e Chrysler ci consente di affrontare da protagonisti il mercato automobilistico mondiale”; non è andata proprio benissimo – a parte forse per chi, allora come ora, continua a scrivere queste apologie propagandistiche e a spacciarle per articoli giornalistici. Sarebbe il caso di non affidargli l’unica opposizione a questo governo di scappati di casa e di provare a costruirci davvero, finalmente, un nostro media che invece che a Tavares e ad Elkann, dia voce al 99%. Per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Giannini

P.S.: appena finito di registrare questo video, mi sono dato la consueta sbirciatina ai listini delle borse USA, sempre in trepidante attesa del crollo definitivo che, ovviamente, non è arrivato manco stavolta; ma un contentino della buona notte me l’hanno voluto regalare lo stesso: dopo mesi e mesi di crescita stabile e ininterrotta di tutto quello che è quotabile, anche ieri, per la terza volta nel giro di pochissimi giorni, i listini USA hanno segnato un bel segno rosso, che è diventato particolarmente profondo per il Nasdaq, il regno per eccellenza dei nuovi feudatari. Nel frattempo Ukrainska Pravda annuncia che in Ucraina, in una botta sola, si sono dimessi la vicepremier, il vice capo dell’ufficio presidenziale, la ministra per la reintegrazione territoriale Iryna Vereshchuk e il ministro degli esteri Kuleba. Forse anche i 500 mila nuovi milionari USA dei quali parlava il Wall Street Journal farebbero bene a cominciare a porsi qualche domandina…

Disastro Meloni: record di poveri e di cassintegrati e risparmi ai minimi storici

LItalia che non ti aspetti: vi lamentate sempre che vi diamo solo cattive notizie e, allora, oggi abbiamo deciso di regalarvi un mercoledì da leoni insieme agli amici de Il Foglio, che ci danno la carica ricordandoci come il nostro paese “è uscito a razzo dalla pandemia, è cresciuto più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi, ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7 e batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del PIL pro capite”… No, spe’, forse mi avete frainteso: la buona notizia non è tanto questa che, molto banalmente, è una puttanata di dimensioni epiche; la buona notizia è che l’Italia è, ogni giorno di più, con le pezze al culo. Ma poteva andarci anche peggio: potevamo averci tra i coglioni ancora Renzi e il suo giglio magico.

Marco Fortis

A sciorinare sul Foglio “fatti e numeri che smentiscono l’eterna lagna nazionale”, infatti, è Marco Fortis, consigliere economico prima di Monti e poi di Renzi e che, nonostante i risultati economici disastrosi dei governi che sosteneva, da 12 anni, dal palco della Leopolda (sempre con un’abbronzatura invidiabile), c’invita a fregarcene della realtà che tutti noi abbiamo di fronte agli occhi e a inventarci un mondo parallelo fatto di lampade UVA di cittadinanza e una montagna di ingiustificato ottimismo; peccato, però, che a parte aver relegato il mondo della Leopolda e del Foglio all’irrilevanza che si meritano, ci sia ben poco di altro da festeggiare: giovedì scorso sul Sole 24 ore Luca Orlando ci ricordava come il 2023 sia stato un anno molto complicato, ma il 2024 è partito parecchio peggio. -1,2% di produzione industriale in un solo mese: un’ecatombe che asfalta, in un colpo solo, tutta la retorica sulla crescita immaginaria dell’occupazione. Cioè, l’occupazione aumenta anche, eh? E’ innegabile. E graziarcazzo: col part time involontario, un posto di lavoro diventano due che, in un paese in drammatico declino demografico, percentualmente contano parecchio; e se il contributo dei part time involontari non basta per trasformare la merda in cioccolata, basta aggiungerci una ciliegina che si chiama cassa integrazione.
Oltre a quelli che lavorano un’ora la settimana, infatti, per l’ISTAT sono occupati anche quelli che non ne lavorano manco mezza e che, però, prima di essere licenziati teniamo buoni per qualche mese con un assegno – e sono un esercito: a gennaio, infatti, l’INPS ha autorizzato la bellezza di oltre 49 milioni di ore di cassa integrazione tra ordinaria – e, cioè, quella che dovrebbe aiutare in momenti di difficoltà passeggeri – e, soprattutto, straordinaria – e, cioè, quella che viene utilizzata per crisi strutturali che, il più delle volte, non si ha la minima idea di come risolvere; una cifra spaventosa che segna un crescita di oltre il 16% rispetto anche soltanto al mese precedente e addirittura del 44,4% rispetto a 12 mesi prima. E’ la fine definitiva dell’onda lunga del superbonus che, al netto di tutte le critiche possibili immaginabili, ha rappresentato l’unica vera misura espansiva da parte di un governo da decenni a questa parte e che, a quanto pare, non è bastata: Record della povertà assoluta titola, infatti, La Repubblichina; dopo la piccola flessione dell’indice di povertà registrata nel 2019 grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza, infatti, il trend ha ripreso pari pari l’andamento avviato ormai nel lontano 2011 grazie alle politiche lungimiranti di Mariolino Spread Monti che, nell’arco di due anni, era riuscito nell’invidiabile record di aumentare del 70% i poveri in Italia. Da allora, l’aumento è stato incontenibile e se, nel 2010 , erano povere il 4,6% delle famiglie italiane, oggi siamo arrivati all’8,5 e quello che è ancora più grave è che circa la metà hanno un componente che lavora; e anche quelli che, oltre a un lavoro, hanno anche qualche bene di proprietà non è che se la passino proprio benissimo. Lo ricorda Attilio Barbieri su Libero: nel 2011 la ricchezza pro capite degli italiani ammontava alla bellezza di 159.600 euro, contro i 131 dei francesi e i 114 dei tedeschi; primi della classe! Da allora, la nostra ricchezza è cresciuta di appena il 10%, enormemente meno dell’inflazione non dico di questi oltre 10 anni, ma anche solo degli ultimi 2; quella dei francesi è cresciuta del 40%, quella dei tedeschi dell’85 e non credete che si siano ricoperti d’oro: molto semplicemente non hanno perso troppo, e noi siamo precipitati in fondo alla classifica.
Chi invece s’è ricoperto d’oro sono gli statunitensi: nel 2011 avevano, a testa, appena 4 mila euro di patrimonio in più rispetto agli italiani; oggi, ne hanno 230 mila in più. Ci saremo pure sbarazzati di Renzi, renzini e leopoldini vari, ma fino a che come amico del cuore ci continueremo a scegliere quelli che ci fregano i quattrini da sotto il culo alla luce del sole, ho come l’impressione che andremo poco lontano. Prima di continuare in questo viaggio nel cuore della disastrosa politica economica della destra cialtrona e svendipatria, però, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia contro gli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto magari, anche di iscrivervi a questo – come a tutti gli altri nostri canali sulle varie piattaforme – e attivare le notifiche; a voi non costa niente e a noi, invece, cambia parecchio.
“Il nuovo anno si è aperto nei peggiori dei modi” scrive Marco Togna su Collettiva all’inizio di una lunga e dettagliata lista di morti e feriti dell’industria italiana che, ovviamente, non può che iniziare dalla catastrofe Stellantis: 2.260 addetti in cassa integrazione dal 4 marzo al 20 aprile solo a Mirafiori; “Un segnale devastante” scrive la FIOM su un comunicato. Invece che “Made in Italy, qui siamo al destroy Italy”, a partire dall’indotto: tra le prime ad accusare il colpo c’era stata la Lear di Grugliasco, che alle Maserati e alle 500 di Mirafiori forniva i sedili e che, a dicembre, ha annunciato un anno di proroga di cassa straordinaria per tutti i suoi 410 dipendenti; poi è stato il turno della Delgrosso di Nichelino, ad appena 15 chilometri di distanza, 108 lavoratori che, dal 1951, producevano filtri per tutte le principali case automobilistiche italiane ed europee e che, nel 2009, era stata anche nominata da FIAT “miglior fornitore” e che ora si ritrovano pure senza ammortizzatori sociali. Due mesi di cassa integrazione ordinaria per calo di attività produttiva, invece, è quello che aspetta i 200 lavoratori della Maserati di Modena, mentre a 72 dipendenti su 163 della Tecopress di Ferrara che, dal 1971, produce componenti stampati in alluminio per i motori, è stato concesso un altro anno di cassa straordinaria in deroga.
Ma ancora più dell’automotive, in Emilia a preoccupare è il settore delle piastrelle; Meloni e Giorgetti fanno gli spavaldi con numeri farlocchi per cercare di farci dimenticare cosa comporti la fine del superbonus, ma i 6 mila addetti del settore per cui è stata approvata la richiesta di cassa integrazione su 26 mila in totale potrebbero pensarla diversamente. D’altronde, era piuttosto prevedibile: come ricorda sempre Luca Orlandi sul Sole 24 ore, il comparto delle piastrelle nel 2023 ha diminuito la produzione di oltre il 25% anche perché, oltre alla fine del superbonus, c’è anche la crisi della domanda di tutti i mercati più sviluppati, dal -25% della Francia al -30 della Germania, per arrivare agli USA che, nel 2023, hanno registrato 1 milione e 300 mila edifici in costruzione in meno rispetto all’anno precedente e, quindi, di piastrelle italiane non ne hanno più bisogno. E il comparto della ceramica non è manco quello messo peggio: nonostante la retorica sulla transizione ecologica e la mobilità dolce, infatti, un comparto che è sull’orlo del collasso è – inaspettatamente – quello delle bici che, per la prima volta dal 1975, scende sotto la soglia dei 2 milioni di pezzi, 1,3 milioni in meno rispetto ad appena 2 anni fa. Unica cosa a tenere è l’esportazione della gamma più alta “che ad esempio va alla grande in Cina” sottolinea Piero Nigrelli dell’associazione di categoria ANCMA: mica in Francia o negli USA.
In tutto, ricorda Orlando, “sono in calo 13 settori su 16”; a fare eccezione sono le armi, che segnano un bel +43%, e poi l’alimentare, ma è una vittoria di Pirro: appena +0,6%. Troppo poco, ad esempio, per salvare la Fiorucci di Santa Palomba, alle porte di Roma, anche se qui c’è una mezza buona notizia: l’azienda, infatti, ha ritirato la procedura di licenziamento collettivo per tutti i suoi 211 lavoratori; si limiterà a chiudere un pezzetto alla volta, dopo aver mandato un po’ di personale in prepensionamento e aver incentivato, con l’80% del salario per un anno, l’uscita volontaria degli altri. Insomma: una vera e propria ecatombe, che però non impedisce a Giancazzo Giorgetti, alla MadreCristiana e a tutti i pennivendoli che gli vanno appresso di sfrucugliarci le gonadi con gli annunci in pompa manga sull’occupazione record. Anzi!
Dall’anno scorso, infatti, Eurostat e ISTAT hanno introdotto un trucchettino contabile che prevede venga aggiunto agli occupati anche chi è in cassa integrazione per meno di 3 mesi l’anno e che a gennaio, appunto, erano il 44% in più di un anno prima, e non è l’unico inghippo: il solo calo demografico, infatti, di default, a bocce ferme, fa aumentare la percentuale di occupati di circa 0,3/0,4 punti; e poi, appunto, c’è il fenomeno ormai totalmente fuori controllo del part time involontario, che riguarda circa il 60% dei circa 4,3 milioni di lavoratori complessivi in part time. Risultato, appunto: il numero degli occupati è a livelli record; il numero delle ore lavorate, invece, è inferiore di quasi il 10% rispetto al 2008. Ecco spiegato com’è che le famiglie che sono sotto la soglia assoluta di povertà, nonostante un componente abbia un contratto regolare di lavoro dipendente, sono cresciute in un anno dall’8,3 al 9,1%: “Il lavoro povero, malpagato e con poche ore” sottolinea Valentina Conti su La Repubblichina “si conferma snodo cruciale e irrisolto del problema povertà in Italia”. E tutto questo rischia di essere solo l’antipasto: come ricorda Luca Orlando sul Sole 24 ore, infatti, il drastico calo della produzione industriale è dovuto in particolare al fatto che le aziende hanno i “magazzini saturi”, mentre la domanda è “generalmente debole, sia in Italia che all’estero”; questo significa che l’anno scorso, nonostante ci sia stato comunque un calo della produzione, le aziende sono state fin troppo ottimiste.
Insomma: al contrario di noi uccellacci del malaugurio, si sono letti gli editoriali de Il Foglio e si sono fatti trascinare dall’ottimismo dei vari Marco Fortis e non gli è andata esattamente benissimo; fino ad oggi, giustamente, ci siamo concentrati sugli imprenditori che non investono perché si spartiscono i dividendi e li vanno a giocare al casinò delle bolle speculative USA e anche sul pubblico che tira la cinghia perché è tornato il culto mistico dell’austerity. E va tutto bene. Qui però c’è un problemino in più: nonostante sia pubblico che privato non abbiano investito una cippa, quello che hanno prodotto nel 2023 gli è rimasto in magazzino. Non è un nodo da poco: a mancare è proprio la domanda, prima di tutto quella interna, con il doppio dei poveri di 15 anni fa e le famiglie che hanno dato fondo a tutti i risparmi accumulati da nonni e genitori quando l’Italia era una socialdemocrazia. Risultato: nella vendita al dettaglio siamo al ventesimo mese consecutivo di calo dei consumi. E poi anche nel resto del giardino ordinato, a partire, appunto, dal nostro principale mercato – che è la Germania – che, prima, ci ha trasformato in suoi subfornitori e, poi, ha deciso di far chiudere le aziende che fornivamo per far contenti gli americani, che inseguono il sogno della reindustrializzazione e che, magari, possono anche importare un po’ di più dall’Italia, soprattutto in alcune nicchie di mercato che non ritengono strategiche e che ci lasciano, gentilmente, in appalto.
Ma è un giochino che non può bastare; il punto è che l’Occidente collettivo nel suo complesso è condannato alla stagnazione e, in questo gioco a somma zero, la domanda sposta il suo baricentro a nostro sfavore: dal vecchio continente, che ci comprava diverse cosine, agli USA, che si limitano a comprarci due cazzate. Col resto del mondo, invece – quello che cresce -, abbiamo scelto di complicarci la vita tra decoupling o derisking; forse qualcuno non ha fatto proprio benissimo i suoi calcoli o, forse, sa che tanto tutte queste pippe stanno a zero e che il nostro padrone ha deciso che, nel futuro, ci dobbiamo solo occupare di costruire obici e cannoni per tenere impegnata la Russia. Di sicuro c’è che ci siamo infilati in un vicolo cieco e che non saranno gli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie a indicarci la strada per uscirne; abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto dalla radice e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

P.S.: un nutrito gruppo di ottoliner ha appena dato vita a MULTIPOPOLARE, l’associazione degli amici di Ottolina Tv che vogliono portare i nostri contenuti fuori dalla bolla distopica del mondo digitale e permettere a chi si riconosce nei nostri contenuti e nelle nostre modalità di costruire una vera e propria comunità fatta di persone in carne ed ossa; stanno organizzando iniziative di presentazione e di tesseramento in tutto il territorio. Se siete interessati a dare una mano e a mettervi in contatto, scriveteci a ottolinatv@gmail.com. Il primo evento è previsto per sabato 30 marzo a partire dalle 15 nella sede romana di Risorgimento Socialista, in viale Giotto 17.

E chi non aderisce è Paolo Mieli