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VolksWagen minaccia chiusure – Come la guerra ha distrutto l’azienda più democratica dell’Occidente

Care zecche rosse, mi spiace deludervi, ma anche a questo giro le vostre gufate da invidiosi devono lasciare il passo all’Italia dell’amore e della prosperità: Record di occupati, titola Libero; il governo brinda. “L’Italia” – è il commento della nostra condottiera che sta traghettando il paese verso un nuovo rinascimento, ben più brillante e luminoso di quello che il compagno Renzi aveva intravisto nelle petromonarchie assolute del Golfo – “nonostante il rallentamento dell’economia mondiale e la delicata situazione internazionale, sta crescendo più delle altre nazioni europee, e PIL, occupazione, export e investimenti sono positivi”. Mi comincia a venire il sospetto che porti un po’ sfiga, porella: L’Italia arranca, titolava ieri La Stampa; il PIL si ferma allo 0,6%. “Si allontana l’obiettivo dell’1% entro l’anno”, ed è solo la punta dell’iceberg: Componentisti auto, titolava Il Sole 24 Ore domenica scorsa; in Italia uno su due rischia di finire in crisi. Ciononostante, Giorgiona continua a perculare: “Adesso” ha dichiarato “è fondamentale consolidare il quadro economico”. Certo: consolidare la recessione, effettivamente, mi sembra la scelta più adeguata – a meno che, quando parla di consolidare, non si riferisca ad altro; al suo nuovo paese d’adozione dove – chissà mai com’è – il rallentamento dell’economia mondiale (guarda caso) non lo stanno avvertendo poi tantissimo. “Raramente” scrive il Wall Street Journal “gli americani sono stati così entusiasti del mercato azionario”; “L’impennata del mercato azionario” continua l’articolo “ha coniato una quantità spropositata di nuovi milionari. Il numero di persone che ha un conto su un fondo pensione da oltre un milione di dollari è aumentato del 31% rispetto anche solo a un anno fa, attestandosi a quota 497 mila”: loro sì che dovrebbero votare Giorgiona! Che comunque, bisogna ammetterlo, su una cosa ha ragione: agli altri paesi europei non è che vada molto meglio. Già domenica Il Sole 24 Ore avvisava: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi e, alla fine, ieri la bomba atomica: VolksWagen sta prendendo in considerazione la chiusura di fabbriche in Germania”, titola Bloomberg, “è la prima volta in 87 anni di storia. Il livello e la rapidità con i quali avanza inesorabile la totale devastazione del vecchio continente nella passività più totale è qualcosa che studieranno sui libri di storia per i prossimi secoli, ma sui media mainstream italiani sembra un problema di qualche zero virgola da correggere con qualche micro-intervento da infilare in una manovra di politica economica da pochi miliardi, che alla nostra crisi – come si dice in francese – gli farà come il cazzo alle vecchie comunque venga declinata. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questa cronaca di una morte annunciata, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere anche oggi almeno la nostra piccola battaglia contro la dittatura distopica degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non ne impieghi John Elkann a mettere in cassa integrazione qualche migliaio di lavoratori a Mirafiori, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a provare a portare un po’ di consapevolezza tra i nostri concittadini, mentre i media provano a rincoglionirli con dosi da cavallo di anestetizzanti per le sinapsi.

La VolksWagen di Wolfsburg

Se qualcuno mi avesse mai chiesto come m’immaginavo l’azienda ideale nell’Europa del futuro, non avrei avuto dubbi: avrei risposto, senza alcun dubbio, VolksWagen (come, d’altronde, sostanzialmente qualsiasi cittadino tedesco); quando nell’agosto del 2015, poco prima dello scoppio del dieselgate, YouGov in un sondaggio aveva chiesto ai tedeschi quale considerassero il simbolo per eccellenza della Germania, due terzi risposero VolksWagen. Altro che Goethe, o la Merkel, o i wurstel! Nonostante sia stata fondata durante il nazismo per soddisfare il sogno di Hitler di avere anche in Germania un’auto del popolo, in realtà la produzione di massa in quel di Wolfsburg inizierà soltanto nel dicembre del 1945, a regime ormai sconfitto; l’impianto era controllato dai britannici che, però, decisero in fretta e furia di restituirlo ai tedeschi perché non riuscivano a trovare un acquirente privato: “Le auto VolksWagen sono poco attraenti per il consumatore medio” dichiarò sprezzante un pezzo grosso dell’industria automobilistica della regina. Insomma… Nell’arco di una generazione il Maggiolino divenne l’auto più venduta del pianeta e nel 1972 superò la Model T della Ford nella classifica delle auto più prodotte di tutti i tempi. Ma ancora più che le auto, la VolksWagen in questi quasi 90 anni ha prodotto lavoro: con oltre 680 mila addetti, ancora oggi VolksWagen è la quinta azienda privata al mondo per numero di impiegati (la seconda, se si restringe il cerchio alle sole aziende manifatturiere, dietro soltanto a Foxconn); posti di lavoro difesi con le unghie. Tra i grandi marchi dell’automotive occidentale, VolksWagen è l’azienda che in assoluto produce meno fatturato per singolo impiegato: 500 mila dollari; Stellantis viaggia a quota 800 mila, Ford e General Motors oltre 1 milione – nonostante molti di noi, prima di comprarsi una Ford o una General Motors, probabilmente preferirebbero spostarsi comodamente con una Graziella (o col calesse). Ciononostante, anche quest’anno i sindacati sono sul piede di guerra per ottenere aumenti salariali intorno al 7%. A garantire che la difesa dei posti di lavoro in Germania venisse prima di tutto, c’è la struttura aziendale: la metà dei seggi nel consiglio di sorveglianza dell’azienda, infatti, spetta ai rappresentanti dei lavoratori, che hanno sempre potuto contare sul sostegno di un azionista piuttosto importante. E’ lo Stato della Bassa Sassonia, che detiene il 20% delle azioni – e molto di più in termini di potere negoziale; un modello di governance che (ovviamente) non piace così tanto agli investitori internazionali, che l’unico tipo di vincolo sociale che sono abituati a tollerare sono le vaccate sulla responsabilità sociale che le aziende scrivono sulla carta igienica solo per farne parlare qualche giornalaccio mainstream. Anche perché quando, in passato, qualcuno ha provato a introdurre logiche che guardano più agli interessi degli azionisti che a quelli dei lavoratori, non ha fatto esattamente una bella fine: come ricorda Bloomberg, infatti “I manager che in passato hanno tentato di sfidare i lavoratori, hanno fatto tutti una pessima fine: precedenti scontri hanno posto fine o ridotto il mandato di alti dirigenti, tra cui l’ex amministratore delegato Bernd Pischetsrieder, l’ex capo del marchio VW Wolfgang Bernhard e Herbert Diess, il predecessore di Blume come amministratore delegato. Tutti e tre hanno cercato di ottenere efficienze, in particolare nelle operazioni nazionali tedesche di VW, ma hanno fallito miseramente”. Ecco perché l’annuncio di ieri di una possibile chiusura di qualche stabilimento in Germania rappresenta uno snodo epocale per la storia di VolksWagen e, a cascata, di tutta l’industria europea: “Viviamo in un mondo geopolitico difficile” ha commentato, sempre dalle pagine di Bloomberg, l’analista di CitiGroup specializzato nel settore automotive Harald Hendrikse e “anche VW è stata costretta a riconoscere la gravità della situazione”.
La crisi dell’industria tedesca è di una gravità senza precedenti: l’indice PMI di agosto per il settore manifatturiero s’è attestato a quota 42,4, perdendo quasi un altro punto intero rispetto al già disastroso 43,2 di luglio; a pesare, in particolare, il calo dei nuovi ordini. Vuol dire che le fabbriche non riescono a smaltire le scorte e non hanno intenzione di accumularne altre e, quindi, non ordinano beni intermedi; e non riguarda certo solo l’automotive: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi titolava domenica Il Sole 24 Ore. I conti di Thyssen-Krupp AG, proprietaria di Thyssen Krupp Steel Europe (che è il più grande produttore d’acciaio in Germania), nel terzo trimestre del 2024 sono andati in profondo rosso e il titolo ormai supera di poco i 3 euro; prima dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia e contro l’industria europea, viaggiava attorno ai 10 euro. Non se la passa molto meglio neanche la Salzgitter, che è la seconda azienda siderurgica tedesca; solo un anno fa era stata definita Il faro della transizione verde in Germania che però, da allora, si è spento: da inizio anno il titolo ha perso oltre il 50%, nonostante si siano intascati 1 miliardo di euro di finanziamenti pubblici (come, d’altronde, altri 2 miliardi di finanziamenti erano andati in cassa pure a Thyssen Krupp). E se poi nei lander più poveri la maggioranza di governo raggiunge a malapena il 15%, è stato “un colpo di Stato di Putin”, come l’ha definito davvero Politico.
Ma se non riescono a tenere in piedi i loro campioni nazionali in Germania, nonostante abbiano ancora parecchi soldi pubblici da regalargli senza che a Bruxelles gli venga una crisi isterica, pensate come stiamo messi noi… Più o meno, così: Stellantis agli operai: il lavoro c’è, ma in Polonia; “Stellantis” riporta Attilio Barbieri su Libero “propone di rientrare al lavoro a una decina di operai carrellisti dello stabilimento piemontese di Mirafiori. Ma non in Piemonte. In Polonia. Precisamente nello stabilimento di Thychy, nel voivodato della Slesia, l’impianto dove si producono la nuova Fiat 600, la Jeep Avenger e l’Alfa Romeo Junior”. D’altronde, in quel di Stellantis ormai fuggire dall’Italia è considerato proprio trendy: un po’ di tempo fa, venne a galla che i dirigenti Stellantis consigliavano ai fornitori di chiudere baracca e burattini per andare in Marocco; l’obiettivo era ridurre i costi fino al 40%. “La tecnologia elettrica, in Europa” aveva sottolineato Carlos Tavares durante un incontro nello stabilimento di Atessa “è del 40% più costosa. Se vogliamo rendere i veicoli elettrici accessibili dobbiamo digerire il 40% del costo addizionale. Che ci piaccia o no”; da lì in poi, le aziende di componentistica in Italia sono diminuite del 4,4% e la produzione è scesa del 18%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate della stessa identica percentuale: “In Piemonte siamo ai bollettini di guerra” commenta La Verità. “Tredici settimane di cassa in Prima Industrie di Collegno, altrettante all’ex Alcar di Vaie. Da lunedì, fino a fine anno, 200 lavoratori in cassa anche per la Novares. E poi ancora alle Officine Vica, alla Proma, al Gruppo Cornaglia e alla Denso”; di questo passo, secondo uno studio commissionato dall’associazione di categoria ad Alix Partners, nel 2030 la componentistica italiana avrà perso tra i 20 e i 40 mila posti di lavoro.
D’altronde, del milione di veicoli che Giorgia la patriota ha sempre garantito sarebbe riuscita a imporre di produrre a Stellantis – e che sono considerati la cifra minima indispensabile per non radere al suolo tutto l’indotto – alla fine dell’anno ne verranno prodotti poco più della metà, anche perché non ci sarebbe chi se li compra: di competitività internazionale, infatti, non se ne parla, e il mercato interno è al collasso. Dall’inizio dell’anno, la propensione al consumo degli italiani ha subito un crollo come non se ne vedevano da oltre 15 anni; d’altronde, come va l’economia lo sperimentano sulla loro pelle, non sui titoli della propaganda filo-governativa. E, ad esempio, si rendono benissimo conto che se negli ultimi anni l’economia italiana non dico che ha tenuto (perché sarebbe una bestemmia), ma almeno ha preso qualche scoppola in meno rispetto ai paesi vicini, è solo ed esclusivamente a causa del superbonus: “Senza l’apporto delle costruzioni” riconosce finalmente anche Repubblica, dopo anni passati a massacrare il superbonus per fare contenta Bruxelles e gettare merda a gratis su Giuseppi, “il PIL dell’Italia tra 2021 e primo trimestre 2024 sarebbe cresciuto solo del 10,5% anziché del 14,5%”; ed ecco così che gli italiani, senza più il becco d’un quattrino e senza una minima prospettiva per il futuro, le auto – molto banalmente – non se le comprano più. Ad agosto le vendite di auto hanno subito un calo di oltre il 13% rispetto all’anno scorso, e quelle di Stellantis addirittura di oltre il 30%.
Il problema, però, è che Stellantis non è solo un’azienda che ha il monopolio della nostra industria automotive, ma ha anche il monopolio dell’opposizione politica mainstream a questo governo, che usa con finalità che niente hanno a che vedere con gli interessi di chi ci lavora (e del 99%); ed ecco così che, immancabilmente, il suo poderoso apparato propagandistico scende in campo per dissimularne la fuga dall’Italia e lo fa rifugiandosi in un passato idilliaco: Torino conquista gli Stati Uniti, titola La Stampa; “La FIAT e lo sbarco negli USA: record Jeep grazie a Melfi”. L’articolo a piena pagina fa parte di una serie celebrativa pensata in occasione dei 125 anni di FIAT e riporta agli anni d’oro dell’innamoramento di massa (totalmente ingiustificato) nei confronti dell’allora CEO Sergio Marchionne: ricorda come quando FIAT è sbarcata a Detroit, su invito del premio Nobel per la pace Barack Obama, sembrava “un’ex metropoli bombardata nel centro” e che Marchionne era determinato a portare agli antichi splendori. Grazie a investimenti ed innovazione? Macché: grazie ad Eminem! L’articolo ricorda quando Olivier Francois incontrò l’agente di Eminem, il rapper bianco che aveva cantato la disperazione della città: “La proposta è incredibile” scrive enfaticamente l’ennesimo pennivendolo a libro paga degli Agnelli/Elkann: “Per qualche giorno Eminem non si è fatto trovare. Fino a quando ha accettato di ricevermi nel suo studio, ricorderà anni dopo il manager. Ecco come nasce il più lungo spot televisivo trasmesso nella notte del Super Bowl, il 7 febbraio 2011. Nove milioni di dollari per dire all’America che la Chrysler è tornata e soprattutto che Detroit non è più sinonimo di disperazione: Siamo andati all’inferno e siamo tornati, canta Eminem prima dello slogan finale, Imported from Detroit”. Tre anni dopo, Marchionne presenta al salone di Ginvera la Renegade, “il primo modello con marchio Jeep prodotto fuori dall’America, a Melfi. Quella che poco tempo prima sarebbe parsa una bestemmia negli Stati Uniti, diventa una realtà e un’opportunità. Il piccolo SUV viene esportato e venduto anche in Nord America. Le navi con le auto prodotte in Basilicata partono da Civitavecchia per attraversare l’Atlantico. Il marchio Jeep, guidato da Mike Manley, arriva a vendere da solo 2 milioni di auto all’anno”.
Poco dopo nasce FCA, per la precisione il 12 ottobre 2014; una “data non casuale” sottolinea l’articolo “che coincide con quella della scoperta dell’America” – certo non da parte dell’Italia, che anche a questo giro è assente: la nuova società ha sede ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra. E più che ai lavoratori FIAT e all’indotto, punta al portafoglio degli investitori di Wall Street: “Quello di oggi è un momento storico” afferma Elkann dopo aver suonato la campanellina che avvia le contrattazioni a Wall Street “perché sulle fondamenta di FIAT e Chrysler ci consente di affrontare da protagonisti il mercato automobilistico mondiale”; non è andata proprio benissimo – a parte forse per chi, allora come ora, continua a scrivere queste apologie propagandistiche e a spacciarle per articoli giornalistici. Sarebbe il caso di non affidargli l’unica opposizione a questo governo di scappati di casa e di provare a costruirci davvero, finalmente, un nostro media che invece che a Tavares e ad Elkann, dia voce al 99%. Per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Giannini

P.S.: appena finito di registrare questo video, mi sono dato la consueta sbirciatina ai listini delle borse USA, sempre in trepidante attesa del crollo definitivo che, ovviamente, non è arrivato manco stavolta; ma un contentino della buona notte me l’hanno voluto regalare lo stesso: dopo mesi e mesi di crescita stabile e ininterrotta di tutto quello che è quotabile, anche ieri, per la terza volta nel giro di pochissimi giorni, i listini USA hanno segnato un bel segno rosso, che è diventato particolarmente profondo per il Nasdaq, il regno per eccellenza dei nuovi feudatari. Nel frattempo Ukrainska Pravda annuncia che in Ucraina, in una botta sola, si sono dimessi la vicepremier, il vice capo dell’ufficio presidenziale, la ministra per la reintegrazione territoriale Iryna Vereshchuk e il ministro degli esteri Kuleba. Forse anche i 500 mila nuovi milionari USA dei quali parlava il Wall Street Journal farebbero bene a cominciare a porsi qualche domandina…

Fiat – Alfa Romeo – Lancia: come ti distruggo l’industria automobilistica made in Italy

Oggi ad Ottolina Tv abbiamo Dionisio Masella (CUB) e Delio Fantasia (lavoratore Stellantis di Cassino): con loro abbiamo parlato di FIAT, Alfa Romeo e Stellantis, del settore automobilistico, della mancanza di investimenti e innovazione e di come l’azienda stia liquidando la produzione sul nostro territorio. Stellantis è solo sintomo di una tendenza più generale (calo della produzione industriale del 40% dal 2008) e al contempo avanguardia di quello che sarà l’Italia: un paese deindustrializzato e che pensa di vivere solo sul turismo low cost del mordi e fuggi. Alla faccia del governo sovranista…

LA GRANDE TRUFFA DELL’AUTO ITALIANA – Che fine hanno fatto i 220 miliardi regalati agli Agnelli?

“La famiglia miliardaria degli Agnelli, che con la sua casa automobilistica negli anni ‘70 impiegava oltre 170 mila persone” scrive il Financial Times “è stata una regalità industriale italiana per oltre un secolo, corteggiata da tutti i governi che si sono succeduti, attraverso incentivi e politiche di favore”; “adesso, non più”. Dopo la sfuriata contro gli extraprofitti delle banche, la Giorgiona nazionale, per la seconda volta, trova il coraggio di dire apertamente quello che ogni italiano che non abbia subito una lobotomia totale ha sempre pensato e – per la prima volta nella storia dei primi ministri di questo paese – si scaglia contro la stirpe più parassitaria della storia italiana contemporanea. Nel caso degli extraprofitti delle banche non finì proprio benissimo, diciamo: dopo una bella overdose di retorica da è finita la pacchia, giusto il tempo di far incassare qualche decina di milioni agli speculatori al ribasso ed ecco che la tassa veniva già abbondantemente ridimensionata fino a ridursi a una minchiata tale da non trovare neanche più spazio nella legge di bilancio; non c’è motivo di credere che, a questo giro, possa andare meglio. Ciononostante, inveire contro gli eredi di una stirpe che, da oltre un secolo, viene sommersa da aiuti e incentivi pubblici di ogni genere senza restituire mai una seganiente è sempre un esercizio benefico e liberatorio e quindi, con grande gioia, ci uniamo a gran voce al coro: GLI AGNELLI CI HANNO ROTTO IL CAZZO. Stellantis aveva promesso il ritorno a 1 milione di veicoli prodotti in Italia: sono fermi a 750 mila. Nel 2022 ha registrato profitti record e nei primi sei mesi del 2023 ancora un altro record: li hanno distribuiti come dividendi e c’hanno ricomprato le azioni, e non hanno investito un euro – manco per la carta igienica; a maggio a Pomigliano i lavoratori si sono dovuti fermare due ore perché, come riportava addirittura Bloomberg, “Lo stabilimento è sporco, i bagni puzzano e mancano pure le tute da lavoro: i lavoratori devono aspettare mesi per sostituire quelle vecchie e logore”. Nel frattempo non hanno fatto altro che elemosinare altri incentivi e altri favori e quando la nostra Giorgiona, giustamente, li ha mandati a cagare, Tavares su Bloomberg ha risposto con le minacce: “Se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mette a rischio il mercato italiano e i nostri impianti, a partire da Pomigliano e Mirafiori”. Detto fatto: a marzo 2260 operai di Mirafiori se ne andranno in cassa integrazione e potrebbe non essere una cosa passeggera; erano impiegati nelle linee della Maserati e dell’unico veicolo elettrico del gruppo costruito in Italia, la 500e. Per i nuovi modelli Maserati bisognerà aspettare anni e la 500e non è competitiva; senza un altro modello di grande consumo – è l’opinione unanime di tutti gli analisti – Mirafiori è spacciata.

Gli Agnelli

Però, in realtà, un investimento in Italia gli Agnelli l’hanno fatto: si sono comprati il gruppo GEDI. A differenza di Stellantis non produce profitti, ma ne vale la pena: tra Repubblica e La Stampa dell’addio all’Italia di Stellantis non c’è traccia. Al suo posto, questa roba vergognosa qua: “La nuova Lancia riparte dall’Italia”; “I nostri valori sono la storia, il design e una visione ambiziosa per il futuro”: è l’informazione mainstream ai tempi dell’editoria in mano agli oligarchi, una fabbrica di armi di distrazione di massa, opuscoli promozionali al posto delle notizie. Di fronte alla rivoluzione dell’elettrico l’automotive europeo si è fatto trovare completamente impreparato e, inevitabilmente, il primo anello a saltare è quello più debole: ci accontenteremo delle sparate inconcludenti della Meloni come per gli extraprofitti delle banche o, a questo giro, ci diamo finalmente una svegliata e ci prepariamo a vendere cara la pelle?
Nel 2023 produzione ferma a 750 mila veicoli titolava in prima pagina ieri Il Sole 24 Ore: “L’obiettivo del milione rischia di essere archiviato”. Lo smantellamento dell’automotive italiano, programmato scientificamente da Stellantis con la copertura dei media comprati ad hoc dalla famiglia Agnelli, procede inesorabile: la quota del milione di veicoli prodotti, infatti, non è stata fissata a caso; è la massa critica minima necessaria per tenere in piedi tutto il settore che, con poco oltre 160 mila persone impiegate in oltre 3 mila aziende, è il cuore di quel poco che rimane del nostro manifatturiero. “Siamo nati al fianco della FIAT nel 1980” ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato della Promax Spa Nicola Pino al Sole “e grazie a loro ci siamo internazionalizzati, ma questi volumi produttivi ci mettono in ginocchio”: tra Melfi e il Piemonte, la Promax, che produce sedili, occupa circa 1000 persone; erano 1.600 giusto una quindicina di anni fa. Tutto merito di Stellantis che copre il 60% delle commesse: “Un milione di veicoli è la cifra minima per provare almeno a risalire la china, anche se i buoi sono già scappati, e il terreno perso è difficilmente recuperabile”; “La questione” sottolinea Il Sole 24 Ore “è emersa con drammaticità a Melfi, dove le aziende della componentistica e le imprese dei servizi sono nate intorno allo stabilimento ex FIAT, e che ora si trovano a corto di commesse”.
A fare una bella e utile cronologia del massacro, sempre su Il Sole 24 Ore, ci pensa il sempre ottimo e puntualissimo Paolo Bricco; la sua ricostruzione parte dal 2004: all’epoca, ricorda Bricco, “la FIAT era tecnicamente decotta. E quando arriva Sergio Marchionne, il gruppo perde due milioni al giorno”. Dopo 5 anni arriva l’acquisizione di Chrysler, la più malconcia delle Big Three di Detroit: “L’operazione funziona” sostiene Bricco “ma il nuovo gruppo, FCA, è frastagliato, sconnesso, disomogeneo. E di sicuro il baricentro non è più italiano”; d’altronde, come sottolineava Marchionne, è “la fusione di due società povere”e, per risalire la china, non trova di meglio che cominciare a staccare dei pezzi che si spostano “a Londra per la migliore fiscalità” e “ad Amsterdam per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”. Questo è un aspetto fondamentale che molto spesso non viene citato: il codice civile olandese, infatti, stabilisce che una società per azioni può stabilire liberamente il numero di voti per ogni azione detenuta da determinati soci che, ovviamente, rappresenta un vantaggio gigantesco per gli azionisti più forti perché gli permette di controllare la società anche senza maggioranza, un altro dei dispositivi tecnici che, negli ultimi decenni, ha favorito la concentrazione del potere economico nelle mani di pochissimissimi. “IVECO – CNH, che fa trattori e macchine movimento terra” ricorda Bricco “è la prima”; seguiranno poi FCA, Exor, Ferrari e Magneti Marelli, il gioiello della componentistica che poi sarà ceduto al fondo KKR, quello che recentemente s’è comprato pure la rete digitale di Telecom grazie al lavoro diplomatico dell’ex direttore della CIA David Peatraues. Nel frattempo, ricorda Bricco, “in Italia accadono due cose”: la prima risale al 2010, quando viene annunciato il piano Fabbrica Italia – mica pizze e fichi, ma, come scrivevano nero su bianco Marchionne e John Elkann in una lettera agli azionisti, “Il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”, così straordinario che dopo poco più di un anno, senza che nel frattempo si fosse mossa foglia, veniva ritirato. Per la seconda tappa bisognerà poi aspettare il 2016 quando, sempre in pompa magna, viene annunciato il fantomatico Polo del lusso che, a partire dalla sinergia tra Alfa Romeo e Maserati, doveva attirare altri marchi internazionali di prestigio come Audi e Mercedes e proiettare nel futuro l’Italia dell’auto, ma – ricorda Bricco – “anche il polo del lusso non va bene. E un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”.

Gli italiani

Poi, appunto, c’è la vendita di Magneti Marelli: è il 2018 e FCA incassa la bellezza di 6,2 miliardi; i fondi speculativi sono predatori, ma a volte pagano bene. Sarebbero stati dei bei soldini per provare a rilanciare la produzione in Italia, ma è troppa fatica; gli azionisti di maggioranza di FCA, grazie anche proprio al voto multiplo permesso in Olanda, impongono una scelta lungimirante: i quattrini vengono spartiti come super dividendi, e dall’automotive finiscono chissà dove. Di fronte a questa cronologia impietosa, sostiene Bricco, quelli che oggi si scandalizzano per l’indifferenza degli Agnelli rispetto alle sorti dell’Italia (e che sono rimasti muti negli ultimi 15 anni) fanno abbastanza ridere; la storia degli Agnelli, da decenni, è – come titola il suo prezzo Bricco – una storia alla Prendi i soldi e vendi. Ma quanti soldi hanno preso? Una stima che circola spesso sono 220 miliardi, ma “probabilmente” sottolinea Bricco “sono molti di più”; nessuno, però, lo saprà mai perché, continua Bricco, “è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (e non solo la FIAT) si è più volte ristrutturata a spese del bilancio dell’INPS”. Di sicuro, conclude Bricco, c’è “che il Paese ha dato molto. E il bilancio è del tutto a favore della fu FIAT”. Con la fusione con PSA, ovviamente, le cose non potevano che peggiorare: mentre la Francia diventava un socio forte direttamente con le azioni detenute dallo Stato, a rappresentare gli interessi dell’Italia rimanevano, appunto, solo gli Agnelli; non esattamente una botte di ferro, diciamo, e in una fase che per il decotto automotive europeo – totalmente incapace di reggere la concorrenza cinese dove, nella transizione e nell’elettrificazione, si investono cifre spropositate da anni e anni e dove si sono raggiunte un’economia di scala e un’efficienza ineguagliabili – è di per se un discreto bordello. Risultato: quel poco che si mette sul tavolo per difendere gli insediamenti produttivi tradizionali va a tutelare la produzione francese, e quella italiana viene abbandonata. La nuova 600 elettrica si produce in Polonia, la Panda elettrica in Serbia, ma l’assemblaggio finale – per provare a reagire alla concorrenza cinese – non basta, ed ecco così che arriva la goccia che fa traboccare il vaso: come riporta Bloomberg, Stellantis avrebbe inviato una lettera ai suoi fornitori italiani nella quale segnalava le straordinarie opportunità di investimento in Marocco.
Non è un paese a caso; 11 novembre, South China Morning Post: “La Cina punta sul Marocco mentre la nazione nordafricana diventa il centro della rivoluzione dei veicoli elettrici”; “La vicinanza del Marocco all’Europa, l’abbondanza di minerali essenziali e gli incentivi fiscali” scrive la testata di Hong Kong “hanno posto il Marocco al centro del settore dei veicoli elettrici”. “Nell’ambito della tendenza globale al nearshoring” continua “per accorciare le catene di approvvigionamento le aziende cinesi si stanno ora schierando nel Paese nordafricano”: come vi abbiamo raccontato svariate volte negli ultimi mesi – al di là delle tesi strampalate di chi avversa l’elettrico perché gli piace il rombo del motore e altre segate varie – l’automotive del prossimissimo futuro è elettrico e l’unica speranza che ha l’Europa di non venire completamente esclusa dai giochi – come avvenuto con i microchip e le piattaforme digitali e come sta avvenendo di nuovo, in modo ancora più preoccupante, con l’intelligenza artificiale – è trovare il modo di integrare le catene del valore con l’unica superpotenza manifatturiera mondiale, e cioè la Cina; il resto sono chiacchiere, soprattutto da quando gli USA hanno deciso che per giocarsi la loro partita era tornato il tempo del protezionismo più feroce, e se le istituzioni e la politica europea non fanno i conti con questo dato materiale incontrovertibile, vorrà dire che i produttori europei l’integrazione coi cinesi la faranno fuori da casa nostra. E in questo processo l’Italia, che è l’anello debole del vecchio continente, non poteva che fare da apripista.

El Kann

Ingaggiare qualche dissing contro gli Agnelli, che ormai l’Italia l’hanno abbandonata da mo’, sicuramente fa sempre piacere e sicuramente – giustamente – esalta un pezzo di elettorato, ma se continui a fare lo zerbino di Bruxelles e di Washington nella loro guerra ideologica contro Pechino, finito il piacere per l’industria italiana, a casa, comunque, non hai portato nulla, esattamente come per la tassa sugli extraprofitti delle banche. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce: da una parte, al netto di tutte le contraddizioni, ci sono pace, investimenti e sviluppo; dall’altra, oligarchie predatorie e venti di guerra e, al di là di qualche battuta anche simpatica, la Giorgiona nazionale da che parte sta l’ha sempre fatto capire piuttosto chiaramente. Contro la sua propaganda abbiamo bisogno di un vero e proprio media che perculi gli Agnelli come Giorgia e più di Giorgia, ma che al contrario di Giorgia stia dalla parte del mondo nuovo che avanza e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

LA MORTE DELL’AUTO ITALIANA – Stellantis: profitti record, licenziamenti e capannoni in svendita

Ciao ciao Mirafiori!
Dopo gli ultimi sviluppi, la dichiarazione di morte dell’automotive italiano è sostanzialmente ufficiale: “Costruisci il tuo futuro” l’ha chiamato Stellantis, con una bella dose di sano masochismo. E’ il progetto che ha previsto l’invio di una mail a 15 mila dipendenti, dove venivano invitati a mettersi in tasca qualche euro e levarsi definitivamente dai coglioni: il futuro che si dovrebbero costruire è da disoccupati. Vista l’aria che tira – e la possibilità concreta che se non se ne vanno oggi con una bella dose di incentivi in tasca, se ne dovranno andare comunque domani con in mano un pugno di mosche – in 500 avrebbero già accettato; a convincerli, in particolare, un annuncio apparso l’altra settimana su Immobiliare.it: capannone in vendita, Grugliasco, 115 mila metri quadrati, prezzo su richiesta.

Sergio Marchionne

Neanche 10 anni fa, il venditore di pentole in cachemire Sergio Marchionne lo aveva definito il fiore all’occhiello dell’automotive italiano: doveva essere il cuore pulsante di un fantomatico “polo del lusso” specializzato nella produzione di due modelli Maserati: la Ghibli e la Quattroporte, roba da 150/200 mila euro a botta. “Questi sono giorni cruciali per riposizionare il marchio e avviare una fase di espansione senza precedenti” aveva declamato enfaticamente Marchionne il giorno dell’inaugurazione, e a un certo punto avevano cominciato a macinare così tanto che, nel 2016, il sindacato s’era dovuto mobilitare perché “i carichi e i ritmi di lavoro sono troppo sostenuti, e questo mette a rischio la salute dei lavoratori” (Fiom-Cgil, 2016).
E’ durato come un gatto in tangenziale: “A pieno regime” ricorda Davide Depascale su Il Domani “l’impianto Maserati impiegava duemila operai. Nell’ultimo anno ne erano rimasti un centinaio.” Li hanno spremuti come limoni per qualche anno e poi gli hanno dato una pedata nel culo, e ora l’intero capannone te lo porti a casa con un click: “Lo stabilimento” si legge nell’annuncio “si presenta in buone condizioni manutentive a seguito di recenti e rilevanti interventi di ristrutturazione”. Si divertono pure a girare il dito nella piaga. D’altronde, però, quando è crisi è crisi, insomma. “Stellantis, record di utili nel 2022” titolava entusiasta Milano Finanza già nel febbraio scorso, e il banchetto era solo all’inizio: giusto pochi giorni fa sono stati pubblicati i risultati del terzo trimestre e Stellantis registra un altro risultato record: +7% di ricavi netti rispetto all’anno prima. Ottimo! Nella guerra mondiale dell’automotive in corso, per finanziare la transizione all’elettrico e mantenere la quota di mercato, un po’ di quattrini da investire sono proprio quello che ci vuole.
Macché: sapete cosa ci hanno fatto? Ci hanno ricomprato le loro azioni, l’ennesimo caso di buyback selvaggio che non serve ad altro che a continuare a gonfiare la bolla speculativa sui titoli azionari e a far intascare al management premi multimilionari a suon di stock option e altri meccanismi simili; nel 2022, il solo CDA si è messo in tasca oltre 31 milioni, 3 in più dell’anno precedente. Quando la FIAT sfornava milioni di auto e dava da lavorare a 200 mila persone, lo storico amministratore delegato Vittorio Valletta non guadagnava più di 500 mila euro: riusciremo mai a mettere fine a questo saccheggio?
A rimettere in fila due numeri su Il Domani ci pensa Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino: “A Mirafiori dal 2007, ultimo anno senza cassa integrazione” ricorda “la produzione è calata dell’89%, e la cassa integrazione ha raggiunto picchi del 70”. Nel 2022 gli occupati complessivi sono arrivati alla quota miserrima di 12 mila; erano 20 mila solo 8 anni prima. Mille in meno l’anno, “come se ogni anno chiudesse una fabbrica di medie dimensioni” sottolinea Depascale su Il Domani. “Nei prossimi anni” rilancia Lazzi “il 70 per cento dei lavoratori va in pensione. Senza nuove assunzioni Mirafiori si fermerà”, e pensare che a Mirafiori sarebbero dovuti finire anche i lavoratori della Maserati di Grugliasco dove, nel frattempo, a ritrovarsi con le pezze al culo ovviamente è anche tutto l’indotto “con tutta la componentistica” sottolinea Depascale “a rischio chiusura”. Un esempio su tutti la Lear Corporation: è una multinazionale americana con oltre 160 mila dipendenti in 37 paesi, la 147esima azienda al mondo per fatturato, stando alla classifica di Fortune 500; è specializzata di sistemi elettrici e di interni per auto – in particolare sedili – e fare i sedili in pelle umana per le auto da 200 mila euro della Maserati era un ottimo business, ma ora che la Ghibli e la Quattroporte nello stabilimento accanto non le producono più, ecco che – dei 420 dipendenti che hanno – la bellezza di 300, a breve, si ritroveranno in mezzo a una strada senza grosse alternative. Stellantis, infatti, tra un buyback e l’altro qualche investimento – in realtà – in giro per il mondo lo fa anche, a partire dalle famose gigafactory, solo che non li fa coi soldi suoi e non in Italia. Negli Stati Uniti, da pochissimo, ha annunciato il secondo impianto: entrambi si troveranno a Kokomo, in Indiana; 6,3 miliardi di investimento per 2.800 posti di lavoro previsti, oltre 2 milioni di dollari l’uno che, in buona parte, ricadranno sulle casse dello Stato sottoforma di credito d’imposta. Esattamente come in Europa, dove Stellantis ha incassato una quantità spropositata di incentivi per completare il suo primo impianto a Douvrin, nel nord della Francia, e ora sta procedendo con il cantiere di Kaiserslautern in Germania. Dopo – e soltanto dopo – arriverà, forse, il contentino anche per l’Italia: anche l’ex FIAT di Termoli, infatti, dovrebbe diventare una gigafactory. Per convincere Tavares a farci la grazia gli abbiamo dovuto promettere la bellezza di 600 milioni del PNRR, ma le condizioni che abbiamo chiesto in cambio non convincono proprio tutti: la fabbrica, infatti, dovrebbe riassorbire i vecchi operai FIAT ma il management ha già fatto sapere – riporta l’Ansa – che “l’azienda avrà la necessità di disporre di professionalità totalmente diverse da quelle tuttora presenti nel vecchio stabilimento”.
Cosa significa? Che a una bella fetta dei vecchi operai che, grazie all’anzianità, hanno raggiunto finalmente stipendi quasi dignitosi, si darà il benservito con qualche ammortizzatore sociale pagato con le nostre tasse e, al loro posto, se ne prenderanno di nuovi con trattamenti salariali e accessori peggiori possibile. D’altronde, dire che la morte dell’automotive italiano era annunciata è un eufemismo, e pensare che anche l’Italia possa avanzare qualche pretesa per le briciole che il protezionismo USA e il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea lasceranno cadere dal banchetto della transizione ecologica e dell’elettrificazione potrebbe rivelarsi del tutto velleitario; dentro alla gabbia delle compatibilità con l’agenda geopolitica USA, da un lato, e il culto dell’austerità dell’Unione Europea dall’altro, il nostro destino è segnato. Non deve essere necessariamente così e, per dimostrarvelo, ora vi racconto una bella storiella. L’articolo è ormai un po’ datato; siamo nel 9 agosto scorso e Bloomberg titola : “La chiusura della Ford dopo 100 anni in Brasile cede il territorio degli Stati Uniti alla Cina”. La location è uno dei luoghi più iconici della lunga storia dell’automotive globale: siamo nella cittadina di Camacari, una trentina di chilometri a nord di Salvador, la capitale dello stato di Bahia; qui, in uno spazio sterminato più grande del Central park di New York, sorgeva una delle principali fabbriche della Ford del gigantesco paese sudamericano che, da un paio di anni, è stata totalmente smantellata pezzo per pezzo. Ma nell’aria non c’è segno né di sconfitta, né di rassegnazione: a breve qui si tornerà a lavorare a pieno ritmo. L’ex Ford di Camacari, infatti, è stata acquisita da BYD, il colosso dell’automotive elettrico che vanta tra i suoi principali investitori anche la Bearkshire Hathway di Warren Buffett; qui sorgerà la sua fabbrica più grande fuori dall’Asia.

Lula, Hugo Chavez e Néstor Kirchner

Per Lula, che di fabbriche se ne intende – visto che c’ha passato mezza vita e c’ha perso pure un dito -, è una vittoria di portata storica: convincere gli investitori cinesi a riaprire quella fabbrica è sempre stato un suo pallino. Per questo, quando s’è recato a Pechino appena due mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha voluto in tutti i modi incontrare di persona l’amministratore delegato di BYD. Durante il mandato del suo predecessore, i rapporti con la Cina erano precipitati ai minimi storici: puntava a un rapporto privilegiato con l’America di Trump mentre l’America di Trump chiudeva le fabbriche. La Ford, ad esempio, non si è ritirata in fretta e furia solo dallo stato di Bahia, ma tutto il paese – dal giorno alla notte – dopo 100 anni di attività; è l’epilogo di un lungo declino, un po’ come quello italiano. La produzione industriale pesava per quasi metà PIL fino alla fine degli anni ‘80; ora pesa per meno di un quarto.
La deindustrializzazione, in questi anni, ha riguardato anche i paesi del Nord globale; la differenza però è che – grazie alle logiche neo – coloniali – il Nord globale mantiene comunque il controllo delle catene del valore. Il Brasile e l’Italia, no. Lula non è il solo protagonista della rinascita dell’ex sito Ford di Camacari; un ruolo chiave l’ha svolto anche il governatore dello stato di Bahia, il primo – nella storia dello Stato – appartenente alle popolazioni indigene: si chiama Jeronimo Rodrigues e si aspetta che i cinesi portino nella regione almeno 10 mila nuovi posti di lavoro, e non solo quelli. BYD prevede di aprire una nuova miniera nello Stato per estrarre localmente il litio che servirà alla fabbrica, e ha già investito 700 milioni solo per la parte di ricerca e sviluppo per una nuova monorotaia che permetterà di liberare Salvador dal traffico. Se è questa la giungla selvaggia che minaccia il nostro giardino ordinato, forse varrebbe la pena farci un pensierino.
C’è un intero mondo, là fuori, che è alla ricerca di opportunità per tornare a far crescere l’economia reale, e non si chiama Carlos Tavares o John Elkann, che se ancora possono scendere per strada senza essere rincorsi da una folla inferocita è perché i soldi che non reinvestono per rilanciare l’industria automobilistica italiana li spendono per far dire alla propaganda che – tutto sommato – va bene così e che “there is no alternative”, quando invece l’alternativa c’è eccome. Solo che per raccontarla per bene abbiamo bisogno di un media tutto nostro, che dia voce al Sud globale e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann