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Tag: dollaro

Palestina nei BRICS – Come il Sud globale costruisce concretamente un mondo più democratico

Mentre il comandante in capo del mondo libero e democratico Genocide Joe approvava l’ennesimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari per permettere a Israele di continuare a sterminare pacificamente i bambini palestinesi, il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino optava per una strategia decisamente meno rispettosa dei diritti umani: invitava ufficialmente il Presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas a partecipare al prossimo summit dei BRICS che si terrà nella cittadina russa di Kazan il prossimo ottobre, un summit potenzialmente di portata storica: la Russia, infatti, che in quanto sporca e cattiva è giustamente sanzionata dai difensori del diritto internazionale e dei diritti umani a stelle e strisce, è forse in assoluto il Paese al mondo che sente con maggiore urgenza la necessità di emanciparsi dalla dittatura globale del dollaro e quindi, con ogni probabilità, approfitterà della sua presidenza di turno dei BRICS per provare in ogni modo ad accelerare il più possibile il complicatissimo ma rivoluzionario processo verso l’emancipazione dalla dittatura globale del dollaro, che rappresenta il vero pilastro fondamentale dell’imperialismo – e quindi di un sistema di relazioni internazionali ancora oggi intollerabilmente antidemocratico che ricorda molto da vicino il vecchio colonialismo. Insomma: anche a questo giro, mentre l’Occidente collettivo a guida USA si riempie la bocca di slogan vuoti su democrazia, diritto e progresso mentre commette ogni sorta di crimine possibile immaginabile, i Paesi del Sud globale – a partire proprio da quelli più sporchi e cattivi che tanto sdegno generano nei salotti buoni della sinistra progressista de noantri– al netto di tutte le contraddizioni lavorano concretamente giorno e notte alla costruzione di un mondo più pacifico e democratico. E voi, da che parte state?

Vladimir Putin

La contrapposizione non potrebbe essere più chiara ed evidente: di fronte al primo genocidio della storia in diretta streaming, il mondo si divide nettamente in buoni e cattivi, con i buoni che però accolgono tra innumerevoli standing ovation i carnefici e i cattivi, invece, che si schierano dalla parte della resistenza. L’ufficializzazione dell’invito da parte di Mosca all’autorità palestinese a partecipare al prossimo Summit dei BRICS, che si terrà in ottobre nella prestigiosa capitale del Tartastan, rischia di creare l’ennesimo irrisolvibile cortocircuito cognitivo nella mente delle anime belle della sinistra progressista occidentale; i benpensanti dell’Occidente collettivo, infatti, fino ad oggi hanno sempre cercato disperatamente di giustificare il sostegno incondizionato dei loro Paesi e delle loro forze politiche di riferimento allo sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi, trincerandosi dietro la formula dei due popoli, due Stati che, ancora oggi, viene indicata come l’unica soluzione possibile per soddisfare contemporaneamente due principi che ritengono (almeno a parole) inviolabili: il diritto di Israele a difendersi, da un lato, e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al rispetto dei diritti umani fondamentali. Purtroppo però – recita la formula giustificazionista più in voga – la costruzione dei due Stati è un processo incredibilmente complesso e, ovviamente, è reso ancora più complesso dagli opposti estremismi che la sinistra benpensante vuole sempre necessariamente vedere ovunque: c’è un regime di apartheid? No, macché: lo Stato democratico di Israele rispetta i diritti di tutti, solo che poi gli estremisti palestinesi ne approfittano per terrorizzare i giovani che vanno ai rave e ai pride e, dall’altra parte, alcuni estremisti israeliani, nell’esercitare il loro sacrosanto diritto all’autodifesa, si lasciano andare a qualche eccesso di troppo. E’ in corso un genocidio? Ma figurati! E’ solo che gli estremisti palestinesi usano la popolazione civile come scudi umani e, dall’altra parte, qualche estremista israeliano si fa un po’ troppo pochi scrupoli a massacrare una trentina di civili per colpire ogni presunto miliziano. Se già, invece di 30, fossero 25, ci si potrebbe stare.
D’altronde si sa, appunto: gli estremisti son da tutte le parti; l’importante però è che si continui ad affermare che l’obiettivo rimane quello di creare due Stati per due popoli anche se, nel frattempo, si continua ad armare e a sostenere economicamente una delle due parti in causa come se non ci fosse un domani. E continuare ad affermare che l’obiettivo è creare due Stati costa abbastanza poco; anzi, si può fare anche molto di più: si potrebbero anche proprio riconoscere davvero due Stati, tanto – alle condizioni attuali – anche se formalmente arrivi a riconoscerlo sul serio uno Stato palestinese, un vero Stato palestinese, in realtà non può esistere. Il punto è che affinché uno Stato possa esistere, non basta scriverlo su un foglio di carta: uno Stato esiste sul serio se e solo se ha gli strumenti concreti per esercitare una qualche forma di sovranità; non voglio dire esercitare piena sovranità in tutti gli ambiti di sua competenza perché, dopo 40 anni di globalizzazione neoliberista, questo significherebbe sostanzialmente dire che non possono esistere gli Stati tout court, ma almeno qualche forma sostanziale di sovranità sì. Ora, che forma di sovranità potrebbe mai esercitare uno Stato che si ritrovasse a governare la Palestina per come è stata ridotta? Il cibo dovrebbe comunque arrivare dall’esterno sotto forma di aiuti alimentari, l’acqua dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani, che negli anni si sono impossessati manu militari di ogni singola fonte di approvvigionamento; anche l’energia elettrica dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani e anche per la sicurezza una vera sovranità sarebbe palesemente impensabile, soprattutto in quello spezzatino privo di ogni continuità territoriale nel quale centinaia di insediamenti totalmente illegali da parte dei coloni sionisti hanno trasformato la Cisgiordania. Ciononostante, un pezzo consistente della politica dell’impero ritiene comunque troppo rischioso fare qualche passo avanti nel riconoscimento di uno Stato formalmente indipendente per i palestinesi e quindi, da decenni, lavora senza sosta per fare in modo che anche all’interno della Palestina stessa non vi siano le condizioni politiche minime necessarie per garantire in prospettiva una qualche forma di governo minimamente sostenibile.
Lo strumento è quello classico: divide et impera, dividere la popolazione tra fazioni politiche e riconoscerne una come interlocutore più o meno affidabile e l’altra come capro espiatorio di ogni male possibile immaginabile. La fazione individuata come interlocutore – che, nel caso specifico, è l’OLP di Mahmoud Abas – a questo punto viene sottoposta a un semplice ricatto: visto che sei totalmente dipendente da noi per qualsiasi cosa, per ricevere un po’ di elemosina devi soddisfare supinamente ogni nostra richiesta. Ovviamente, questa sottomissione totale ai voleri della forza occupante viene vista di cattivo occhio dal grosso della popolazione dal momento che, da che mondo è mondo, ai popoli – chissà poi perché – essere sottomessi alle occupazioni straniere gli sta leggerissimamente sui coglioni; questa cosa, ovviamente, non fa che alimentare la fazione di quelli che nel progetto di divide et impera dell’occupante sono finiti nel team cattivi. Allora nel contratto di ricatto stipulato col team buoni diventa sempre più grande la parte che prevede che gli interlocutori debbano consegnare agli occupanti la testa dei membri del team cattivi e così ovviamente, giustamente, il team buoni diventa sempre più minoritario e isolato all’interno della sua stessa popolazione, fino a che gli occupanti non hanno tutti gli elementi per sostenere (con qualche ragione) che la creazione dello Stato indipendente degli occupati non si può fare perché la fazione individuata come unico interlocutore possibile è troppo debole e non sarebbe in grado di governarlo. E per i progressisti da apericena e gli analfoliberali, a questo punto, il ragionamento non fa un piega: insomma, gli imperialisti e i coloni sono criminali, ma non sono mica scemi. Ora, l’invito da parte di quel perfido tiranno di Putin a partecipare al summit dei BRICS stravolge totalmente questo intero paradigma, soprattutto alla luce di quanto è stato fatto nei mesi precedenti nei confronti della Palestina in particolare proprio da Cina e Russia. L’ingresso dello Stato palestinese nel salotto buono del nuovo ordine multipolare, infatti, ha un obiettivo molto evidente: aiutare lo Stato palestinese a ottenere gli strumenti concreti che gli garantiscano in prospettiva di esercitare, almeno da alcuni punti di vista, proprio quella sovranità che la pantomima dell’imperialismo occidentale vuole negare alla radice; d’altronde, i BRICS e le altre istituzioni del nuovo ordine multipolare sono nate tendenzialmente proprio per questo.
L’imperialismo – e, in particolare, quello che definiamo spesso il superimperialismo (e cioè l’imperialismo nella forma specifica che ha assunto nell’era della globalizzazione neoliberista) – può essere definito come quel sistema mondo che aspira a minare alla radice la capacità di tutti gli Stati di esercitare la loro sovranità tranne che per lo Stato del centro imperiale (e, cioè, gli USA) e questa è esattamente la condizione che hanno accettato passivamente tutti gli Stati che oggi definiamo liberi e democratici: la cessione della loro sovranità alle oligarchie finanziarie e alla macchina bellica del centro imperiale. Per emanciparsi da questa condizione di sottomissione strutturale, però, a un certo punto i Paesi del Sud globale si sono cominciati a dotare di istituzioni multilaterali che, in mezzo a mille contraddizioni, potessero permettergli di provare a tornare a conquistare un po’ di sovranità; e di queste istituzioni multilaterali, i BRICS sono probabilmente la più importante in assoluto, soprattutto dal momento che è proprio in questa sede che si dovrebbe discutere il singolo aspetto che – probabilmente più di ogni altro – negli ultimi 40 anni ha limitato la sovranità dei singoli Stati, e cioè la dittatura del dollaro.
L’emancipazione dal dollaro come valuta di riserva globale è una sfida titanica: in 5 secoli di vita, il capitalismo globale ha sempre avuto una valuta di riserva di ultima istanza che veniva utilizzata per il grosso delle transazioni commerciali internazionali e questa valuta è sempre stata la valuta emessa dal Paese che, in quella fase storica, stava in cima alla gerarchia dei Paesi capitalistici: la potenza egemone, come è stato l’impero britannico per buona parte del XIX secolo e quello a stelle e strisce per buona parte del XX fino ad oggi. Il fatto è che al sistema, per come ha funzionato fino ad oggi, per gli scambi internazionali serve una moneta stabile e sicura, universalmente accettata da tutti e che possa circolare liberamente attraverso i confini (in particolare, attraverso i confini del Paese che la emette), ma permettere ai capitali di fluire liberamente attraverso i propri confini significa, in soldoni, rinunciare agli strumenti di controllo del flusso dei capitali che sono indispensabili per rendere efficaci le politiche economiche scelte dal governo e questo, a sua volta, significa solo due cose: o che rinunci anche tu ad esercitare una parte fondamentale della tua sovranità, oppure che di default la tua politica economica coincide perfettamente con gli interessi dei detentori del grosso di quei capitali che attraversano i tuoi confini; e questa condizione è soddisfatta solo ed esclusivamente dalla potenza egemone. Emanciparsi dalla dittatura del dollaro quindi, stando così le cose, significherebbe necessariamente trovare un degno sostituto e, quindi, anche riconoscere a un’altra potenza – che non potrebbe (per ovvie ragioni) che essere la Cina – lo status di nuova potenza egemone del capitalismo globale, ma a quel punto si sarebbe di nuovo punto e a capo perché i problemi che derivano dall’avere una superpotenza che gerarchicamente sta sopra a tutti gli altri, limitandone considerevolmente la sovranità, si ripresenterebbero più o meno uguali spiaccicati, solo con un altro nome. Fortunatamente, però, questo rischio non sembra tutto sommato molto realistico: la totale simbiosi che si è verificata nei precedenti imperi tra detentori del capitale e macchina statale, infatti, nella Repubblica Popolare cinese che – piaccia o non piaccia – continua ad essere uno Stato socialista (eccome), molto semplicemente non c’è, proprio manco lontanamente; e lo Stato cinese non ha nessunissima intenzione di rinunciare al controllo del flusso dei capitali che le garantisce di potersi dare obiettivi di politica economica che non coincidono con gli interessi particolari di chi detiene il capitale. Per superare la dittatura del dollaro, allora, l’unica possibilità è superare tout court l’idea stessa dell’esistenza di una valuta di riserva di ultima istanza, il che – in soldoni – equivale a dire che l’unica possibilità è superare l’imperialismo in quanto tale e, cioè, la forma specifica che si è data il capitalismo per tentare di superare le sue contraddizioni intrinseche pur di continuare a garantire il dominio dell’1% sul resto della popolazione; insomma: non esattamente un giochetto da ragazzi.
L’ultima volta che qualcuno c’aveva provato era il 1944, quando a Bretton Woods John Maynard Keynes aveva cercato di approfittare di un momento politico contingente particolarmente favorevole – dove le storture intrinseche dell’imperialismo, dopo l’ascesa del nazifascismo e due guerre mondiali, erano evidenti anche alle capre di montagna – per proporre un’architettura finanziaria globale rivoluzionaria che al posto di una valuta di riserva di ultima istanza, prevedeva l’istituzione di uno strumento monetario ad hoc chiamato Bancor che sarebbe dovuto servire per regolare le transazioni internazionali e che avrebbe dovuto permettere di intervenire per correggere le asimmetrie nelle bilance commerciali dei vari Paesi ed evitare così il riemergere delle tensioni strutturali che avevano portato al disastro dei decenni precedenti. I BRICS oggi, sostanzialmente, stanno lavorando proprio in quella direzione e, per quanto la gestazione sia troppo lunga e tortuosa per i tempi dettati dall’era dell’iper-informazione, stanno facendo importanti passi avanti: il primo step consiste nel favorire gli scambi bilaterali tra i diversi Paesi nelle valute locali e qui, a mostrare la strada, sono indubbiamente Cina e Russia. E il bello è che sono proprio gli USA stessi ad aver accelerato in maniera esponenziale il processo: come conseguenza della guerra per procura degli USA in Ucraina e della montagna di sanzioni anti-russe che l’hanno accompagnata sin dagli esordi, nel 2023 l’interscambio commerciale tra i due Paesi leader del nuovo ordine multipolare è cresciuto di circa il 25% e per il 90% è avvenuto in rubli e yuan. Anche una bella fetta dell’interscambio tra Russia e India ormai avviene nelle rispettive valute e nel 2024, per la prima volta, la maggioranza dei pagamenti internazionali che hanno coinvolto la Cina sono avvenuti in yuan invece che in dollari; e calcolando che la Cina è di gran lunga la prima potenza commerciale al mondo e l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del pianeta, non è proprio pochissimo. Anche il commercio internazionale del petrolio, che fino al 2022 avveniva in dollari per poco meno del 100%, nel 2023 è avvenuto per almeno un quarto del suo valore complessivo in valute locali. Ovviamente tutto questo è ben lontano da mettere in discussione il predominio del dollaro, soprattutto dal momento che le transazioni commerciali internazionali rappresentano soltanto una piccola frazione dei movimenti valutari globali che, ovviamente, per la stragrande maggioranza dei volumi hanno a che vedere con transazioni di carattere meramente finanziario, totalmente scollegate dall’economia reale; ciononostante, la fine della dittatura del dollaro potrebbe essere più vicina di quanto si possa pensare perché – come a ogni dittatura – per stare in piedi anche a quella del dollaro non basta essere semplicemente maggioranza: deve essere totalizzante, come dimostrano plasticamente i fallimenti che lo strumento delle sanzioni unilaterali sta accumulando uno dietro l’altro. Affinché le sanzioni funzionino, infatti, non è necessario che le alternative al dollaro siano chissà quante e chissà quanto diffuse: basta che ci siano delle alternative, anche marginali; ora quindi si tratta – mentre, da un lato, si continua ad allargare il ricorso all’utilizzo delle valute locali per le transazioni bilaterali – di cominciare a ragionare su un’architettura più complessiva (sulla falsariga di quella proposta da Keynes a Bretton Woods) che permetta di regolare le transazioni internazionali di tutti quei Paesi del Sud globale – ma non solo – che si sono stufati di pagare dazio all’egemonia USA.
Uno degli ostacoli principali fino ad oggi è stato rappresentato proprio dall’India, che se da un lato persegue una sua agenda nazionale incompatibile con il dominio incontrastato del superimperialismo finanziario USA, dall’altro teme di favorire troppo l’ascesa della Cina; ed ecco così che quando nel 2023, al summit di Johannesburg, il tema dell’utilizzo delle valute locali per l’interscambio tra i BRICS era stato posto sul tavolo, l’India si era dichiarata non favorevole, ma – a quanto pare – le cose sono cambiate. E’ quanto rivela la pagina economica di The Hindu in vista del vertice di Kazan: L’India potrebbe prendere in considerazione la proposta di utilizzare le valute nazionali titola, anche se a condizione però, continua il titolo, che non sia vincolante; “Nuova Delhi”, avrebbe dichiarato a The Hindu una fonte governativa di primo livello che avrebbe voluto però mantenere l’anonimato, “sta esaminando una risposta adeguata in base alla misura in cui trarrebbe beneficio economicamente e diplomaticamente dalle proposte senza aumentare le sue vulnerabilità nei confronti della Cina”. Il compromesso, avrebbe affermato la fonte anonima, consisterebbe nel fatto che “All’interno dei BRICS anche se sei d’accordo per il regolamento valutario, puoi comunque scegliere di non applicarlo con alcuni Paesi, mentre lo applichi con altri. Se l’India sceglie di non trattare con la Cina in yuan e rupie, va bene. Ma potrebbe riguardare altri Paesi, ad esempio il rublo o il rand”; “Il regolamento valutario all’interno del blocco BRICS” commenta l’articolo “darà ai membri la flessibilità di utilizzare una particolare valuta accumulata in un Paese per commerciare con un altro. Ad esempio, la Russia potrebbe spedire la rupia in eccedenza raccolta nei suoi conti in India e convertirla in pesos brasiliani per pagare il Brasile per alcune transazioni. Oppure in rand sudafricani per effettuare pagamenti in Sudafrica”.
Ovviamente, da qui alla creazione della famigerata valuta dei BRICS ce ne corre, ma l’idea sostanzialmente è che una volta rodato questo meccanismo si possa dare vita – appunto – a una valuta fittizia simile al Bancor di Keynes con la quale regolare l’interscambio commerciale e il cui valore è determinato da un paniere contenente tutte le valute dei Paesi coinvolti. Insomma: al di là della propaganda, i BRICS continuano a lavorare per restituire concretamente spazi di sovranità ai diversi Paesi e, invece della strategia del divide et impera, lavorano per la riconciliazione e il dialogo, anche sul fronte interno, anche se costa una fatica enorme e una pazienza certosina; già in marzo Putin aveva organizzato un importante incontro con le varie fazioni palestinesi – dall’OLP ad Hamas, passando per la Jihad Islamica Palestinese e il Fronte Popolare di Liberazione – nel tentativo di promuovere un governo di unità nazionale. Dopo aver ottenuto una dichiarazione congiunta, il dialogo era completamente naufragato a causa dell’ennesimo infame atto di tradimento da parte dell’OLP di Abu Mazen. Ma la storia si fa con quel che c’è, non quello che ci piacerebbe ci fosse, ed ecco così che grazie anche ai veri e propri deliri delle fazioni più dichiaratamente razziste e fascistoidi del governo israeliano – che sono riuscite a far passare alla Knesset una risoluzione che rifiuta categoricamente ogni ipotesi di Stato palestinese, minando così alla radice il ruolo dell’OLP di interlocutore e, quindi, costringendolo a venire a più miti consigli – a luglio a riprovarci è stata la Cina, che ha portato a casa la ratifica da parte di 14 fazioni palestinesi di un accordo che prevede l’istituzione “di un governo di unità nazionale che gestisca gli affari del popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania, supervisioni la ricostruzione e prepari le condizioni per le elezioni”.
Che strano mondo che è un mondo dove i buoni firmano i missili diretti contro i bambini e ci scrivono sopra Uccidili tutti e i cattivi sono l’unica speranza che i diseredati della terra hanno per un futuro un po’ più pacifico e democratico… Contro il mondo al contrario della propaganda di fine impero, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che dia voce agli interessi e ai diritti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

La crisi sta arrivando: crolla la borsa, sfiducia nel dollaro, debito USA – ft. Vadim Bottoni

Oggi il nostro Gabriele Germani ha intervistato Vadim Bottoni (economista) con cui ha analizzato la situazione economica e finanziaria odierna. Cosa denota la recente crisi borsistica del 5 agosto? Siamo davanti a un cigno nero o a un qualcosa di più grande e strutturale? Cosa aspettarsi dal futuro? E in che modo i fondi speculativi e la politica USA reagiranno alla situazione odierna? Buona visione!

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Mercati nel caos: imperialismo finanziario USA e dittatura del dollaro sull’orlo del baratro – ft. Alessandro Volpi

Il crollo delle borse asiatiche, con il conseguente effetto domino su quelle occidentali, potrebbe avere molteplici chiavi di lettura. Abbiamo chiesto al nostro Alessandro Volpi di aiutarci a mettere a fuoco possibili cause e conseguenze.

Crollo NVIDIA: l’intelligenza artificiale tra speculazione e monopolio – ft. Alessandro Volpi

Oggi il nostro Gabriele intervista Alessandro Volpi attorno alla caduta del titolo NVIDIA: dopo settimane e mesi di salita impetuosa, da record, il titolo legato al settore dell’intelligenza artificiale sembra in brusca frenata; le cifre andate perse fanno anche capire il livello di finanziarizzazione raggiunto dal settore. Sullo sfondo incombe il rialzo dei tassi che dopo i dati sull’inflazione australiana sembra inevitabile, con i suoi effetti depressivi sulla crescita. Il capitalismo USA sembra dunque muoversi per salvare il primato del dollaro e ricreare un proprio settore produttivo in grado di tenere testa ai paesi emergenti. Buona visione!

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Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

La guerra commerciale degli USA contro la Cina accelera la fine della dittatura del dollaro

Rimbambiden ormai ha lanciato la rincorsa alle boutade trumpiane sui dazi stellari su qualsiasi cosa prodotta in Cina, a partire ovviamente dall’auto elettrica dove i produttori occidentali sono indietro di decenni rispetto a Pechino. Ma potrebbe essere una mossa avventata: costretta a rinunciare al mercato USA, infatti, la Cina sarebbe incentivata ad accelerare il processo di dedollarizzazione e, visto il suo peso nel commercio globale, questo comporterebbe necessariamente un crollo dell’egemonia globale del dollaro stesso. L’attivismo di Macron che ha recentemente rafforzato la sua narrazione sulla creazione di una sorta di autonomia strategica finanziaria europea invocando la nascita di campioni bancari continentali grazie a processi di fusione e acquisizione, potrebbe essere quindi spinta anche dalla consapevolezza dell’imminente crollo dell’egemonia del dollaro. Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi, il cicerone preferito di Ottolina Tv quando si tratta di seguire il denaro e cercare di capire cosa aspettarci dalla grande rivoluzione dell’architettura finanziaria globale. Buona visione!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

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“L’Europa potrebbe morire”: se Macron fomenta la guerra per far arricchire le oligarchie francesi

L’Europa può morire: con questa affermazione, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron la settimana scorsa aveva cercato di riconquistare il centro del dibattito politico in Europa dopo che l’effetto shock delle dichiarazioni sulle truppe europee in Ucraina del febbraio scorso aveva già abbondantemente perso gran parte del suo hype. Un’operazione riuscita: venerdì scorso, infatti, l’Economist, la bibbia delle oligarchie suprematiste occidentali, dedicava la sua homepage interamente al wannabe novello Napoleone; nella lunga intervista, corredata da svariati commenti e approfondimenti, il sempre pimpantissimo Manuelino spiega che la sua provocazione era una citazione colta e, cioè, quando nientepopodimeno che Paul Valery, dopo la prima guerra mondiale, aveva affermato che “Oggi sappiamo che una civilizzazione può anche morire”. Più prosaicamente, il pimpantissimo Manuelino si accontenta di sottolineare che l’Europa, negli ultimi decenni, ha investito sensibilmente meno nella sua sicurezza di quanto non abbiano fatto Stati Uniti e Cina che poi – in termini di percentuale del PIL e, ancora meno, in termini assoluti – manco è vero, visto che la Cina è probabilmente la superpotenza mondiale che spende meno in armamenti di tutti i tempi (ad esempio meno della metà di Polonia e Grecia, giusto per fare un esempio), ma, comunque, diciamo che è una licenza poetica. Il succo del discorso invece, appunto, è che “L’Europa non è il posto più sicuro del mondo” e questo “significa che l’Europa deve legittimamente porsi la questione della propria protezione militare” e visto che “deve prepararsi a non godere più della stessa protezione da parte degli Stati Uniti d’America”, “Dobbiamo prepararci a proteggerci da soli”.
Non si può certo dire sia un fulmine a ciel sereno: come ricorda il pimpantissimo Manuelino Macaron in persona personalmente, già nel 2019 si era intrattenuto con i ligi funzionari delle oligarchie dell’Economist per denunciare che la NATO stava diventando “cerebralmente morta”, che “L’America sta voltando le spalle al progetto europeo” e che “è arrivato il momento di svegliarci”. Ma la sfera della sicurezza non è l’unica che preoccupa il sempre pimpantissimo Manuelino: “La sfida per l’Europa” sottolinea, è anche, se non soprattutto “economica e tecnologica” perché “Non può esistere una grande potenza senza prosperità economica, né senza sovranità energetica e tecnologica” e, quindi, dobbiamo costruire la nostra autonomia strategica anche “in termini di energia, di materiali e di risorse rare, ma anche in termini di competenze e tecnologie chiave”; il pimpantissimo Manuelino ricorda inoltre che, rispetto alle altre potenze maggiori, non produciamo abbastanza ricchezza pro capite e che la “nostra grande ambizione, in un’era nella quale i fattori produttivi vengono riallocati, sia nel campo delle tecnologie pulite che dell’intelligenza artificiale, deve essere di diventare un continente in grado di attrarre i grandi investimenti in questi settori”.

Emmanuel Macron

Ma c’è anche un terzo aspetto che tormenta il sempre pimpantissimo Manuelino: “L’Europa” denuncia accorato “è colpita da questa crisi delle democrazie”; noi abbiamo inventato la democrazia liberale, ricorda, e “il nostro sistema sociale è fondato su queste regole”, ma ciononostante “siamo stati colpiti dalle vulnerabilità create dai social network e dalla digitalizzazione delle nostre società”, che “alimentano questo impulso illiberale”. Tradotto: con il sistema mediatico e culturale tradizionale avevamo in mano tutti i mezzi di produzione del consenso, grazie ai quali eravamo addirittura riusciti a convincere le masse popolari che la lotta di classe dall’alto contro il basso che abbiamo portato avanti in modo feroce negli ultimi 40 anni fosse cosa buona e giusta; poi quando dai media tradizionali, che sono alla portata esclusivamente delle oligarchie, siamo passati a un sistema ancora più oligarchico come quello delle piattaforme digitali monopolistiche, pensavamo di limitare ancora di più l’espressione democratica di ogni forma di dissenso e, invece, abbiamo lasciato la porta aperta e tutti i mal di pancia; per il sistema brutale e demenziale che avevamo creato hanno trovato il modo di farsi spazio. E, quindi, oggi alle oligarchie serve un bel bagno di realtà e bisogna che capiscano che vale la pena rinunciare a qualche euro di fatturato per salvaguardare la dittatura del pensiero unico; altrimenti, sottolinea il sempre pimpantissimo Manuelino, il combinato disposto di questi tre fattori di destabilizzazione del giardino ordinato – la sicurezza, l’arretratezza tecnologica e la fine dell’egemonia neoliberale – rischia di far andare tutto in pezzi “molto rapidamente”. “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo” ribadisce il pimpantissimo Manuelino “ e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”; per invertire questa deriva, insiste, ci vuole un possente scatto di reni.
Ed ecco così che il pimpantissimo Manuelino rivendica con forza la sua dichiarazione del 26 febbraio scorso quando, appunto, mise a soqquadro il dibattito pubblico di tutto l’Occidente collettivo affermando che i paesi europei non potevamo escludere l’invio di truppe direttamente in Ucraina: “Non escludo nulla” dichiara di nuovo all’Economist “perché siamo di fronte a qualcuno che non esclude nulla. E senza dubbio siamo stati troppo titubanti nel definire i limiti della nostra azione nei confronti di un avversario che non ne ha più e che è l’aggressore!”; d’altronde, sottolinea il sempre autorevolissimo Manuelino, “La nostra credibilità dipende anche dalla capacità di deterrenza”, che significa anche non dare “piena visibilità a ciò che faremo o non faremo. Altrimenti ci indeboliamo, ed è questo il quadro nel quale abbiamo operato finora”. “Il nostro obiettivo strategico deve essere molto chiaro” continua: “La Russia non può vincere in Ucraina”; è lo stesso concetto sottolineato da un altro fenomeno da baraccone delle classi dirigente europee, il dandy Boris Johnson che, con l’orgoglio colonialista che si addice a un erede diretto della casa reale britannica, ha detto fuori dai denti che in ballo c’è “l’egemonia dell’Occidente” e, cioè, il diritto dell’uomo bianco di sottomettere gli altri popoli del pianeta agli interessi della sue ristrettissime oligarchie. Il pimpantissimo Manuelino che, con tutti i limiti rispetto a questa imbarazzante aristocrazia parassitaria, è comunque figlio della rivoluzione francese – e quindi, antropologicamente, un’evoluzione della specie – la mette in termini più digeribili e parla più semplicemente di “sicurezza dell’Europa” e anche di credibilità: “Che credibilità avrebbero gli europei” si chiede “se dopo aver speso miliardi, e affermato che era in gioco la sopravvivenza del continente, non si dotano dei mezzi necessari per fermare la Russia?”.
Ma la differenza non è solo nella forma: per il pimpantissimo Manuelino, che è a capo dell’unico grande paese europeo che, nonostante l’appartenenza senza se e senza ma all’internazionale imperialista, ha mantenuto – nonostante tutto – un qualche residuo di sovranità, la minaccia russa sembra essere più che altro una scusa; Manuelino sottolinea come, dal 1990, “L’Europa ha pensato alla propria sicurezza essenzialmente in termini dello scudo americano e della NATO” e questo ha impedito all’Europa di sviluppare un’idea condivisa di “sicurezza comune, perché ci ha messo nella condizione di pensare alla nostra sicurezza solo attraverso un alleato al quale abbiamo chiesto di pensarci al posto nostro, e di accollarsene anche il peso”. Difficile capire se il pimpantissimo Manuelino è semplicemente mosso da opportunistica piaggeria o se crede davvero alle puttanate che dice: ovviamente gli USA non si sono accollati nessunissimo peso; piuttosto, gli USA, d’amore e d’accordo con le nostre classi dirigenti equamente divise tra svendipatria volontari e semplici ebeti sprovveduti, hanno letteralmente impedito all’Europa di sviluppare una sua difesa autonoma perché temevano che a un’Europa unita e sufficientemente armata – magari dopo un ricambio di classe dirigente che, nonostante tutto, non può mai essere totalmente escluso a priori – sarebbe potuta venire la tentazione di cominciare a ritagliarsi qualche spazio di autonomia e di sovranità. E il bello, ovviamente, è che – alla fine – agli USA questo giochino sostanzialmente costava anche pochino perché grazie all’esorbitante privilegio del dollaro come valuta di riserva globale, una bella fetta del debito crescente USA (necessario proprio a finanziare la sua supremazia bellica) alla fine del giro la pagavamo noi e, cioè, i paesi che – al contrario degli USA – per campare sono costretti a lavorare e quindi accumulano dollari derivanti dal surplus commerciale, che poi non sanno dove mettere se non nell’acquisto di titoli del tesoro a stelle e strisce; un meccanismo che, tra l’altro, i francesi (come il sempre pimpantissimo Manuelino) dovrebbero conoscere piuttosto bene visto che il primo grande dirigente europeo a parlare espressamente di esorbitante privilegio del dollaro fu il più volte ministro delle finanze Valery Giscard d’Estaing. Al di là di questa valutazione, comunque, il punto è che secondo il pimpantissimo Manuelino l’AGGRESSIONEH RUSSAH ha comportato per l’Europa una sorta di risveglio strategico: “Lo vediamo oggi” insiste Manuelino “con la proposta tedesca dello scudo antimissile europeo. O con la Polonia, che si dice pronta a ospitare le armi nucleari della NATO”; ora, continua Manuelino, si tratta di sedersi attorno a un tavolo e concordare per bene quello che è necessario fare per garantire in modo credibile e sostenibile la difesa del nostro spazio vitale. “La NATO” precisa “fornisce già una risposta, e non è il caso di metterla da parte. Ma questo quadro è molto più ampio di quello che viene attualmente fatto all’interno della NATO”.
Ma perché mai gli USA dovrebbero permettere ora quello che hanno sistematicamente impedito in passato? Beh, molto semplice: perché, nel frattempo, l’idea stessa di un’Europa in cerca di un suo spazio di autonomia si è dissolta completamente nel niente; non che sia mai stata particolarmente in auge, ma in passato qualche accenno, anche se probabilmente del tutto velleitario, comunque c’era stato. Basta tornare con la memoria al 2003, quando Francia e Germania ebbero addirittura il coraggio di dire no alla guerra illegale di aggressione fondata sulle fake news di Bush junior contro l’Iraq, con tanto di sterminio feroce e gratuito di decine e decine di migliaia di bambini iracheni: oggi, ai tempi della Germania che si fa bombardare (dopo essere stata abbondantemente avvisata) un’infrastruttura strategica come il Nord Stream 2 senza battere ciglio e dell’Europa tutta che accetta passivamente una recessione senza fine per permettere a Washington di pompare la sua economia sulla nostra pelle, sembra fantascienza. Il fatto è che, nel frattempo, la gerarchia all’interno del blocco suprematista e imperialista tra il centro USA e le periferie dell’Atlantico e del Pacifico (che prima, per essere mantenuta, aveva bisogno di fondarsi sul monopolio della forza e, quindi, su una supremazia militare USA indiscutibile), a ormai oltre 15 anni dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008, si fonda saldamente su ben altri presupposti molto più strutturali e, cioè, sul dominio incontrastato dei grandi monopoli finanziari privati USA – a partire dai colossi dell’asset management come BlackRock e Vanguard – dove le borghesie nazionali europee, nel frattempo, sono corse a far affluire tutti i soldi estratti dall’economia europea e che oggi hanno un potere quasi assoluto all’interno dell’Occidente collettivo di decidere dove vanno i soldi e per fare cosa: grazie a questo rapporto gerarchico strutturale, gli alleati vassalli degli USA, dall’Europa al Giappone, oggi sostanzialmente non possono nemmeno essere più considerati veri e propri Stati nazione, ma molto semplicemente – appunto – appendici di un sistema imperiale che ha il suo unico centro decisionale a Washington e a Wall Street.
E’ il Wall Street Consensus, come lo chiama Daniela Gabor: in questo contesto, il riarmo dell’Europa invocato da Macron non rappresenta più il rischio di favorire la costruzione di una qualche forma di autonomia strategica, ma è semplicemente il rafforzamento di uno dei bracci armati dell’imperialismo, sempre più necessario mano a mano che procede la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo; e il comparto militare – industriale USA che, fino a ieri, gli ha garantito il dominio non è più in grado di garantire da solo all’imperialismo un vantaggio sostanziale sull’asse che si sta formando tra i paesi che si sono ribellati al dominio imperialista, a partire, in particolare, da Cina, Russia, Iran e Corea del nord. Ciononostante, Macron sembra sforzarsi, anche con un po’ di piaggeria (come, ad esempio, quando sottolinea il fardello del quale si sarebbero fatti carico i poveri americani per garantire la sicurezza a noi sfaticati europei) per rassicurare gli USA: il punto è che il riarmo dell’Europa è un’esigenza vitale dell’imperialismo e, quindi, è fuori discussione; quello che, invece, è ancora in discussione è chi lo guiderà e come: quando, ad esempio, la Germania, subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, aveva annunciato un megapacchetto da 100 miliardi per riarmarsi, il grosso era destinato all’acquisto di sistemi d’arma made in USA; oggi anche la Germania, proprio per il discorso che facevamo prima sulla necessità dell’imperialismo di estendere anche alla periferia la crescita esponenziale del suo comparto militare – industriale, rivendica un ruolo per la sua industria bellica, ma – appunto – si tratta della Germania che è, sotto molti punti di vista, un vero e proprio protettorato USA quanto, se non più, dell’Italia. E per garantire che i suoi piani di rilancio industriale nel settore bellico non hanno niente a che vedere con la rivendicazione di maggiori spazi di autonomia, ha scelto il portavoce che, agli occhi di Washington, è in assoluto il più affidabile di tutti: San MarioPio da Goldman Sachs, a tutti gli effetti un funzionario delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce.
La Francia del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron invece, appunto, sembra più che altro impegnata a percorrere tutte le strade percorribili per provare a trasformare la nuova realtà della guerra totale dell’imperialismo unitario contro il resto del mondo nell’ultima opportunità per riproporsi come l’unica guida possibile di un’Europa subalterna sì agli USA, ma – ciononostante – con un piccolo margine di autonomia strategica rispetto a Washington (che, astrattamente, non suona nemmeno poi malissimo). Sostanzialmente, si tratterebbe di approfittare del vincolo esterno imposto dalla nuova guerra mondiale ibrida per accelerare un processo di trasformazione politica che in tempo di pace è stato ostacolato dall’inerzia del sistema vigente, sulla falsariga di quanto già fatto dalle grandi potenze mondiali: Putin ha sfruttato la guerra per fare i conti con le oligarchie, centralizzare il potere riducendo l’influenza dei vari feudi che hanno sempre parassitato il sistema di potere del Cremlino e impossessarsi, così, degli strumenti necessari per portare avanti il suo ambizioso new deal; Rimbambiden ha sfruttato la guerra per provare a rimettere al loro posto alcune oligarchie parassitarie che continuano a estrarre valore dall’economia statunitense sottoforma di rendita parassitaria (a partire da Big Pharma) e ostacolano così il tentativo di reindustrializzazione del Paese. Xi Jinping, da parte sua, sta cercando di sfruttare una guerra commerciale di cui farebbe volentieri a meno per cercare di sostituire i vecchi motori della crescita economica – dalla speculazione immobiliare alle esportazioni di prodotti a medio – basso valore aggiunto – a un nuovo motore fondato sulle nuove forze produttive e il raggiungimento dell’indipendenza tecnologica; ora il sempre pimpantissimo Manuelino sembra voler approfittare della guerra per raggiungere quell’unità politica (ostacolata fino ad oggi dall’architettura stessa delle istituzioni ordoliberiste dell’Unione europea) facendo leva sull’inderogabile necessità, appunto, di dotarsi di una difesa comune e di creare un mercato unico sufficientemente ampio ed omogeneo da riuscire ad attrarre investimenti in grado di farci recuperare il gap tecnologico.
Ma il sempre pimpantissimo Manuelino potrebbe fare i conti senza l’oste: a differenza delle altre potenze, infatti, il problema di fondo è che questa Unione europea è stata creata proprio dalle fondamenta in modo e maniera da impedire ogni forma di vera sovranità, a partire da una moneta monca e da una Banca Centrale che non può fare il mestiere di una vera banca centrale, e che sono state pensate per fare da satelliti al sistema fondato sul dollaro; tant’è vero che, proprio mentre le altre potenze non pongono limiti al ricorso al debito pubblico per finanziare gli obiettivi politici che vogliono imporre ai loro sistemi economici, l’Unione europea si ritrova a reintrodurre un patto di stabilità che, per quanto riformato, reintroduce l’austerity e i vincoli esterni e ci porta nella direzione esattamente opposta e, cioè, proprio a rinunciare a priori a imporre obiettivi politici al cosiddetto mercato (che poi, ovviamente, non sono altro che le oligarchie e quindi, in ultima istanza, stringi stringi, Wall Street).

Enrico Letta con Rowan Atkinson

Un limite strutturale invalicabile che, tutto sommato, conosce benissimo anche il pimpantissimo Manuelino che, infatt,i sta lavorando a un piano B: è il famoso rapporto sul mercato unico di Enrico Mitraglietta, che sta alle oligarchie finanziarie francesi esattamente come San MarioPio da Goldman Sachs sta a quelle d’oltreoceano. La formula di Mitraglietta e delle oligarchie finanziarie che lo sostengono – a partire da Credit Agricole e, quindi, Amundi, che è il più grande fondo di gestione patrimoniale d’Europa e l’unico a fare capolino nella top 10 mondiale interamente occupata, appunto, dagli americani – è quella, appunto, di copiare il modello di finanziarizzazione USA e creare intorno ad Amundi un monopolio finanziario privato europeo in tutto e per tutto simile ai vari BlackRock, Vanguard o State Street che però, a differenza di Amundi, fondano il loro dominio sulla collaborazione con le istituzioni che gestiscono la valuta di riserva globale. Amundi si dovrebbe accontentare di lavorare in tandem con una Banca Centrale che non solo non emette una moneta che gode dell’esorbitante privilegio di essere la valuta di riserva globale, ma che non può nemmeno essere considerata una valuta sovrana a tutti gli effetti; questo, in soldoni, significa una cosa sola: Amundi, o chi per lei, non potranno mai essere la BlackRock o la Vanguard europei, ma soltanto un altro fondo, magari anche più intimamente legato ai risparmi e alle corporation europee, ma che – alla fine – non è altro che un pezzettino di un unico mercato finanziario dell’Occidente collettivo diretto da Washington e da Wall Street.
La ricetta Mitraglietta, quindi, strutturalmente non è minimamente in grado di garantire alla nuova Unione europea (sognata dal pimpantissimo Manuelino) maggiori margini di autonomia strategica nell’ambito dell’impero, anzi! Nel frattempo, però, per costruire questo polo finanziario che, più che alternativo, è aggiuntivo e perfettamente organico a quelli già esistenti, ecco che torna in auge l’austerity e, con lei, i tagli al welfare che costringeranno i lavoratori europei a destinare una quota sempre maggiore dei loro redditi a investimenti nei vari fondi integrativi per garantirsi quei diritti essenziali – dalla sanità alla pensione – che fino ad oggi, anche se sempre meno, erano considerati ancora in buona parte diritti universali essenziali. La Francia, quindi, e le altisonanti boutade del pimpantissimo Manuelino non ambiscono ad altro che a ritagliare per le oligarchie nazionali un posto, se non proprio al sole, almeno – diciamo – alla penombra, in questa nuova stagione dell’ormai trentennale rapina dall’altro contro il basso; ed in questo contesto, quindi, è del tutto comprensibile e razionale che il pimpantissimo Manuelino ponga il tema della concentrazione del potere politico in seno alle istituzioni antidemocratiche comunitarie, in modo da sopprimere sul nascere i già limitatissimi spazi di democrazia residui a livello di stati nazionali che, nonostante tutto, ancora a tratti permettono ai popoli – se non altro – di testimoniare la loro opposizione al partito unico della guerra e degli affari che la propaganda suprematista, finanziata dalle oligarchie, definisce fake news e disinformazione russa.
La buona notizia è che anche se – per ora – solo a livello molto superficiale e decisamente confuso, che questo meccanismo non stia più in piedi ormai lo cominciano a pensare in parecchi: lo stiamo toccando con mano anche noi in prima persona da quando abbiamo messo in piedi MULTIPOPOLARE e, in tutti i posti dove siamo andati, abbiamo riscontrato sistematicamente una consapevolezza e anche una combattività che va ben oltre ogni nostra aspettativa; e, da questo punto di vista, non possiamo che dare ragione al pimpantissimo Manuelino quando ricorda, appunto, che “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo, e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”. Carissimo Manuelino, stai pur certo che faremo tutto quello che è in nostro potere affinché la tua profezia si avveri, a partire dalla costruzione di un vero e proprio media in grado di squarciare il velo di Maya della propaganda del partito unico della guerra e degli affari e che ci aiuti a vedere il mondo dal punto di vista degli interessi concreti del 99%. Per farlo, ovviamente, non possiamo sperare nel sostegno delle oligarchie che vogliamo abbattere e, quindi, dobbiamo contare su di te: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Enrico Letta

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Sanzioni alle banche cinesi: gli USA preparano la “sanzione definitiva”?

video a cura di Davide Martinotti

Il segretario di stato statunitense Blinken è in Cina e alla vigilia del suo viaggio il Wall Street Journal ha rivelato che gli Stati Uniti stanno elaborando sanzioni che minacciano di tagliare fuori le principali banche cinesi dal sistema finanziario globale. Si tratta di uno dei più potenti strumenti di coercizione finanziaria che Washington possiede, che permette tagliar via l’accesso al dollaro per queste banche, e il dollaro è la denominazione della maggior parte del commercio globale… Insomma, pare che gli Stati Uniti vogliano usare l’ultima risorsa che hanno a disposizione, ma qual è lo scopo?
L’articolo del WSJ: https://www.wsj.com/politics/national…

Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

Come la Russia di Putin ha vinto la guerra economica contro l’Occidente collettivo. Un’altra volta.

“L’economia russa ancora una volta sfida i profeti di sventura”: ad affermarlo non è qualche nostro compagno di qualche lista di proscrizione, ma nientepopodimeno che l’Economist, la testata controllata dalla più filoatlantista delle grandi famiglie del capitalismo italiano: gli Agnelli/Elkann; dopo aver clamorosamente smentito le previsioni sul crollo del suo PIL innumerevoli volte, gli ultimi cavalli di battaglia della propaganda analfoliberale e russofoba sono stati a lungo la fantomatica inarrestabile ascesa dell’inflazione e, di pari passo, l’ancor più inarrestabile declino del rublo. Lo spettro dell’iperinflazione incombe su Putin mentre l’economia russa crolla titolava, già nell’agosto scorso, il sempre attendibilissimo Telegraph; “Il rublo russo è destinato a scendere costantemente oltre quota 100 rispetto al dollaro nel 2024” rilanciava ancora, nel novembre scorso, Reuters e per mesi, sulle nostre bacheche, siamo stati bombardati da analfoliberali – che, rispetto ai giornalisti di Telegraph e Reuters, c’hanno pure l’aggravante di farlo a gratis per pura passione – che si postavano i grafici dell’andamento del rublo e dell’inflazione annunciando l’ennesimo imminente catastrofico crollo del sanguinario regime putiniano; ora l’Economist certifica che è andata un po’ diversamente: siamo ormai al terzo mese del 2024, ma invece che oltre 100 rubli per comprare un dollaro, ne bastano 90 (prima del conflitto ne servivano 75).

Dopo tutto questo sciabolare di spade, la situazione si è conclusa semplicemente con una piccola svalutazione competitiva in perfetto stile italiano, almeno fino a quando la finalità era far crescere l’economia e non, esclusivamente, arricchire le banche e le oligarchie finanziarie; discorso simile anche per l’inflazione che, dal minimo del 3% nell’aprile del 2023, era cresciuta costantemente fino ad arrivare il picco del 7,5 nel novembre scorso e sembrava destinata a non fermarsi più, ma “Ancora una volta” sottolinea l’Economist “l’economia russa sembra aver smentito clamorosamente i pessimisti”: “I dati che saranno pubblicati il 13 marzo” e cioè oggi, scrive l’Economist, “ci si aspetta che dimostrino che i prezzi a febbraio sono saliti dello 0,6%, contro l’1,1% degli ultimi mesi dell’anno scorso”. “Molti previsori” ora, continua l’Economist, “prevedono che il tasso annuale scenderà presto al 4%, e anche le preoccupazioni delle famiglie sull’inflazione futura sono rientrate”. E graziarcazzo, aggiungerei: contro inflazione e svalutazione del rublo, infatti, la Banca Centrale era entrata a gamba tesa che più tesa non si può, innalzando i tassi di interesse fino al 16%.
Ma come, Marru, per amore di zio Vlad, dopo aver infamato per una vita i banchieri dell’austerity, ora ti metti a esaltarli? Non esattamente: il punto, molto banalmente, è che c’è inflazione e inflazione e quella russa, con quella che abbiamo vissuto noi, non c’azzecca proprio niente. Intendiamoci: anche da noi i banchieri centrali dicevano che bisognava alzare i tassi perché i salari stavano crescendo troppo; il problema è che, molto semplicemente, era una bugia e i nostri salari sono costantemente aumentati incredibilmente meno dell’inflazione arrivando, nell’arco di un anno, a fregarci sostanzialmente un intero stipendio. In Russia, invece, nell’autunno scorso l’aumento nominale dei salari – ricorda l’Economist – aveva raggiunto il 18% e, cioè, 10 punti in più dell’inflazione. Insomma: una volta tanto l’inflazione era trainata davvero dalla spinta dei salari e quindi, in quel caso, la risposta standard dell’aumento dei tassi di interesse non dico sia giusta, ma sicuramente è ragionevole; l’inflazione, infatti, in buona parte era dovuta al fatto che il maggiore potere d’acquisto dei lavoratori si era trasformato in maggiori consumi e, come spiega l’Economist, “La domanda di beni e servizi era cresciuta oltre la capacità dell’economia di fornirli, portando i venditori ad aumentare i prezzi”. “Tassi più alti” invece, continua l’Economist, “hanno incoraggiato i russi a mettere i soldi nei conti di risparmio invece di spenderli”.
Per capire invece se, oltre che ragionevole, la scelta di alzare i tassi sia stata anche giusta, va fatto un passettino oltre perché il punto, ovviamente, è se – oltre a contenere l’inflazione – l’aumento dei tassi innesca anche una recessione e, se innesca una recessione, chi la paga; e in Russia, molto semplicemente, la recessione non è arrivata, anzi! “La Russia” infatti, scrive l’Economist, “sembra avviata verso un atterraggio morbido, in cui l’inflazione rallenta senza deprimere l’economia. L’andamento dell’economia è ora in linea con il trend pre – invasione, e lo scorso anno il PIL è cresciuto in termini reali di oltre il 3%. La disoccupazione nel frattempo resta ai minimi storici. E non ci sono segni di difficoltà da parte delle aziende. Anzi: il tasso di chiusura delle imprese ha recentemente raggiunto il livello più basso degli ultimi otto anni” e siamo solo all’inizio: il Fondo Monetario Internazionale s’è dovuto adeguare all’evidenza e ha raddoppiato le previsioni di crescita per il 2024 al 2,6%; l’area euro e il Giappone, per intenderci, è previsto che cresceranno soltanto dello 0,9, l’Italia dello 0,7, la Gran Bretagna dello 0,6 e la Germania dello 0,5.
Ma come ha fatto il paese più sanzionato della storia dell’umanità a reggere botta? E cosa comporta la tenuta della Russia per le magnifiche sorti e progressive di quella che, come lamenta La Verità, nonostante tutte le evidenze i dittatori del politically correct ci continuano a vietare di dire che è una civiltà superiore? A suonare l’ennesimo campanello d’allarme, a fine febbraio, c’aveva pensato sempre l’Economist: Le sanzioni, titolava, non sono il modo per combattere Vladimir Putin. La prima enorme ondata di sanzioni aveva mostrato tutta la sua debolezza da tempo: subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina “La serie di sanzioni rivolte a una delle più grandi economie del mondo” ricorda l’Economist “era stata salutata come senza precedenti; e all’Economist stesso avevamo ipotizzato che lo shock che ne sarebbe derivato avrebbe potuto portare a una crisi di liquidità insostenibile e addirittura a un cambio di regime”. “La realtà” ammette onestamente l’Economist “si è rivelata drasticamente diversa”; “L’economia russa si è rivelata enormemente più resiliente del previsto, e il tentativo di imporre sanzioni molto meno efficace di quanto si sperasse”; “Subito dopo l’inizio della guerra, il FMI prevedeva che il PIL russo si sarebbe ridotto di oltre un decimo tra il 2021 e il 2023. Nell’ottobre dello scorso anno ha calcolato che in realtà in quel periodo al contrario la produzione è addirittura aumentata”, ma ancora più significativamente, continua l’Economist “La guerra ha dimostrato quanto velocemente il commercio globale e i flussi finanziari trovino un percorso per aggirare le barriere poste sul loro cammino”.
E’ un caso da manuale di come si diventa facilmente vittime della propria stessa propaganda: da anni ci prendiamo pesci in faccia perché sosteniamo che il mondo è già multipolare e che continuare a ragionare come se fossimo ancora nel mondo unipolare a trazione USA, per quanto sia ancora ampiamente la principale potenza esistente, sia ormai sostanzialmente irrealistico e velleitario; la propaganda suprematista del partito unico della guerra e degli affari continua a spacciare fake news e ad arrampicarsi sugli specchi per contestare questo semplice assunto e alla fine, a forza di ripeterselo tra di loro, va a finire che ci credono e ci fanno credere anche un pezzo consistente di classe dirigente, che fa scelte che non stanno né in cielo, né in terra. “L’Occidente” sottolinea l’Economist “aggiunge instancabilmente aziende e individui russi alle sue blacklist. Ma gran parte della popolazione mondiale vive in paesi che molto semplicemente le sanzioni occidentali non ha nessuna intenzione di applicarle, e c’è poco che possa impedire a nuove aziende di nascere e fare affari lì”; ed ecco così che se “anche le esportazioni dall’UE verso la Russia sono crollate, luoghi come Armenia, Kazakistan e Kirghizistan hanno iniziato a importare di più dall’Europa e sono misteriosamente diventati importanti fornitori di beni critici per la Russia” e questo, diciamo, è il primo episodio della saga e il finale, ormai, l’hanno dovuto accettare anche i propagandisti più spregiudicati, da Maurizio sambuca Molinari a Federico bretella Rampini.
Il secondo episodio della saga, allora, si apre con i guardiani della galassia analfoliberale che tentano di rilanciare: sono le cosiddette sanzioni secondarie, l’arma di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA attraverso le quali l’impero in declino cerca, da sempre, di imporre ai paesi più recalcitranti di allinearsi alla sua agenda geopolitica; con le sanzioni secondarie, infatti, gli USA non si limitano a perseguire direttamente il paese sanzionato, ma anche tutte le terze parti che continuano a intrattenerci rapporti violando la volontà del wannabe padrone del globo, uno strumento molto potente ed efficace che sta comportando un cambio di atteggiamento in diversi paesi, dall’Uzbekistan alla Turchia, passando anche per la Cina. “Ma anche queste pongono un altro problema” scrive l’Economist, perché “sebbene siano potenti, hanno effetti collaterali proibitivi”; l’efficacia delle sanzioni secondarie, infatti, si basa fondamentalmente su un elemento: il ruolo del dollaro come valuta di riserva globale e come valuta preferita per il commercio internazionale. Ogni istituto che opera con i dollari, infatti, deve avere un conto in una banca americana e con le sanzioni secondarie, se svolgono un qualsiasi ruolo in uno scambio commerciale sottoposto a sanzioni USA, questo conto – e quello che c’è sopra – possono essere bloccati: ed ecco così che, lo scorso febbraio, alcune delle principali banche turche e tre banche cinesi hanno annunciato ufficialmente ai propri clienti l’interruzione di ogni rapporto con Mosca; secondo alcuni scettici si tratta, più che altro, di operazioni di public relation. Come scrive il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, ad esempio, “Già a settembre il presidente del Kazakistan aveva rassicurato il cancelliere tedesco che il suo paese avrebbe attuato le sanzioni contro la Russia. Il giorno successivo, ha dichiarato che avrebbe sviluppato le relazioni commerciali con la Russia”.
Il punto è che ricostruire l’intera filiera delle transazioni commerciali, infatti, è più facile da dire che da fare; d’altronde, sono 30 anni che gli USA, per primi, incentivano il sistema finanziario globale a diventare sempre più opaco in modo da favorire la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali e, infine, verso le bolle speculative a stelle e strisce, e quella stessa opacità, ora, gli si ritorce contro: “Funzionari europei” riporta l’Economist “affermano che spesso sono necessari 30 passaggi lungo la catena finanziaria per risalire al proprietario di un conto bancario estero, dieci volte di più rispetto anche soltanto a dieci anni fa”. “Molti governi di paesi terzi” continua l’Economist “hanno un atteggiamento da laissez-faire nei confronti della violazione delle sanzioni, o addirittura la approvano tacitamente. L’Indonesia e gli Emirati Arabi Uniti sono nella lista grigia della Financial Action Task Force, un regolatore internazionale, in parte perché sono accusati di essere a conoscenza del cattivo comportamento delle banche locali. Alla domanda se gli Emirati Arabi Uniti ritengono che alcune delle sue 500 nuove aziende potrebbero eludere le sanzioni, un funzionario europeo alza le spalle: Lo sanno, eccome se lo sanno. Semplicemente, non gli importa”; in un mondo che, ormai, va ben oltre il giardino ordinato delle ex potenze coloniali e dove i 120 membri del movimenti dei paesi non allineati ormai pesano per il 38% del PIL globale, rispetto al 15% di 30 anni fa, le sanzioni occidentali, decreta l’Economist, “hanno costi sempre maggiori e benefici sempre inferiori”.
Ma ammesso e non concesso che, al di là degli slogan, le sanzioni secondarie siano davvero ancora implementabili, c’è un altro effetto collaterale che spinge a una certa cautela, perché se il nocciolo di tutto è il fatto che si usano i dollari per gli scambi commerciali, una soluzione possibile – appunto – è, molto semplicemente, smetterla di usare il dollaro. C’è già chi si è portato un bel pezzo avanti: lo scorso marzo, la Cina annunciava che – passando dai 434 miliardi di dollari di febbraio ai 549 miliardi di marzo – per la prima volta in tutta la storia gli scambi commerciali internazionali della Cina in yuan avevano superato quelli in dollari; una parte sempre più consistente riguarda, appunto, gli scambi commerciali con la Russia che, dopo la fuga delle aziende occidentali – per fare un esempio – è diventata il più grande importatore di auto cinesi al mondo: oltre 325 mila unità solo nel 2023, per un valore di oltre 4,5 miliardi di dollari – +543% in un anno.

Conor Gallagher

L’altro grande partner commerciale della Russia è l’India: come ricorda sempre Gallagher su Naked Capitalism “Nei primi otto mesi dell’anno fiscale 2023/24 terminato a marzo, le esportazioni totali dell’India verso la Russia sono aumentate del 46,2%. Le importazioni del 54,8%”. Alla base di tutto ci sono le esportazioni di petrolio russo in India che vengono pagate, in buona parte, in rupie; siccome la rupia non è una valuta convertibile, i russi si sono ritrovati con montagne di rupie che non sapevano come usare: la soluzione? Importare più merci dall’India e pagarle con le rupie accumulate; già a fine 2022, così, la Russia ha condiviso con l’India un elenco di centinaia di articoli che desiderava importare, tra cui – elenca Gallagher – “pistoni, paraurti, cuscinetti e materiali di saldatura”. Gli indiani hanno colto la palla al balzo ed ecco così che, riporta Gallagher “Le esportazioni indiane di articoli tecnici verso la Russia sono cresciute dell’88% a dicembre, mentre nel periodo aprile – dicembre sono aumentate del 130%”; ora Russia e India stanno trattando per cominciare a usare, in parte delle transazioni, direttamente lo yuan. Insomma, le sanzioni secondarie stanno incredibilmente accelerando quello che è, in assoluto, il più grande degli incubi USA: la nascita di un sistema di scambi commerciali parallelo che non si fondi sul dollaro.
Ma la spinta definitiva verso la fine del dominio del dollaro e per la costruzione di un nuovo ordine monetario multilaterale non è l’unico risultato controproducente per l’agenda ideologica, ancor più che economica e militare, del neoliberismo made in USA; la guerra delle sanzioni, infatti, ha evidenziato anche un altro aspetto fondamentale: il socialismo e la pianificazione economica guidata dallo Stato funzionano, parecchio. E’ la conclusione alla quale arriva Martin Sandbu del Financial Times in un lungo e, a tratti, delirante articolo: Ci sono lezioni dalla crescita del PIL russo si intitola, ma non quelle che pensa Putin; “E’ un errore” scrive Sandbu, compiendo un’acrobazia logica veramente encomiabile, “derivare dalla crescita del PIL russo l’idea che le sanzioni abbiano fallito. Il ragionamento contro – fattuale corretto da fare sarebbe immaginare quanto male si sarebbe comportata l’economia russa in queste circostanze se fosse rimasta nella sua configurazione passata. In tal caso le conseguenze delle sanzioni sul PIL sarebbero state senz’altro maggiori”; e invece – te guarda alle volte il caso – la Russia, invece che lasciarsi asfaltare per tenere fede ai feticci ideologici del neoliberismo, una volta sotto attacco ha reagito trasformandosi radicalmente: “Mosca” scrive Sandbu “sta sfruttando una possibilità che le democrazie di mercato liberali ignorano: se si ignorano le ortodossie della politica economica, è possibile mobilitare risorse per obiettivi politici e, nel processo, spremere più attività reale da un’economia”. Quindi, in soldoni, le sanzioni avrebbero funzionato se la religione neoliberista avesse un qualche fondamento razionale, ma essendo una gigantesca puttanata creata ad arte solo per giustificare la gigantesca rapina effettuata dalle oligarchie nei confronti di chi lavora, purtroppo erano destinate al fallimento, soprattutto se – dall’altra parte – c’è una sorta di moderno principe machiavellico che, al contrario di quello che sborbotta confusa la sinistra delle ZTL (ormai completamente incapace di ragionare in termini di struttura economica) sarà cinico e feroce quanto vi pare, ma da quando è salito al potere ha avuto come suo obiettivo principale proprio quello di ridimensionare le oligarchie e accentrare il potere per modernizzare il paese e ridare alla Russia il ruolo che le spetta nella storia, un obiettivo che, come abbiamo sottolineato a suo tempo in questo video dal titolo “Il new deal di Putin”, non era riuscito a perseguire fino ad oggi e che è tornato ad essere alla sua portata proprio grazie all’entrata in vigore delle sanzioni. E’ abbastanza paradossale che tocchi a lui il compito di ricordarci una cosa che un tempo, quando da noi c’era la democrazia moderna – prima della controrivoluzione liberista e l’era della dittatura delle oligarchie finanziarie – davamo per scontata, e cioè che, come sottolinea lo stesso Sandbu, “mobilitare e destinare ingenti risorse a investimenti proficui è perfettamente fattibile”; ovviamente, sottolinea Sandbu, Putin è cattivo, mentre noi occidentali che – per Sandbu come per La Verità – siamo una civiltà superiore, invece siamo buoni e quindi, mentre lui pensa alla guerra, noi potremmo pensare a fini più nobili: dalla transizione ecologica alla lotta alle disuguaglianze. Ma, a parte questi distinguo, dovremmo comunque prendere coscienza della “sua capacità di raggiungere obiettivi economici indirizzati politicamente” perché “Come disse Keynes” conclude Sandbu “tutto ciò che possiamo effettivamente fare, possiamo permettercelo”; d’altronde era un limite di Keynes: non possiamo certo pretendere che non sia un limite di uno dei più importanti commentatori economici del Financial Times. Quello che a Sandbu – come a Keynes – sembra mancare, infatti, è un’idea realistica di chi detiene il potere per farci cosa, come se fossimo tutti riuniti democraticamente in un bel simposio dove vince chi ha l’idea migliore e non esistono i rapporti di forza; l’idea tutto sommato semplice e decisamente condivisibile che esprime Sandbu non fa più parte del dibattito pubblico perché le oligarchie, a partire da quelle che finanziano il suo giornale, ci hanno fatto la guerra e l’hanno vinta, e ci hanno imposto la loro religione alla quale, come tutti i sacerdoti che si rispettano, sono i primi a non credere, ma alla quale hanno costretto a credere tutti quelli che ne subiscono le conseguenze sulla loro pelle.
Per sperare di tornare ad imporla, bisogna mettere in conto un’altra guerra contro le oligarchie, e come vincerla: fa un po’ ridere che chi non ha idea non solo di come combattere questa guerra, ma della necessità stessa di combatterla, descriva con tono paternalistico chi – per sua stessa ammissione – la sta vincendo; noi un’ideina di cosa serve per combattere le oligarchie, in questi due anni, ce la siamo fatta e siamo convinti che, prima di tutto, serva un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

HOLLYWOOD È FALLITA (e anche la Cina se la passa malino)

Svolta storica: sì all’Ucraina in Europa”; Zelensky: “una vittoria per tutti”; dopo una lunga sequenza di pessime notizie, venerdì mattina le redazioni di tutti i principali quotidiani italiani si sono svegliate con l’oro in bocca. Ma quale fallimento dell’Ucraina? Popo’ di gufacci maledetti!
A ringalluzzire i sogni bagnati di una propaganda alla disperata ricerca di uno spillo di buone notizie in un pagliaio di schiaffi a doppia mano, è il sì definitivo all’inizio dei negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea: “E’ molto semplice” scrive gasatissimo l’impareggiabile Iacoboni sul suo profilo Twitter; “L’Ucraina sta combattendo per le democrazie, e dunque il suo posto è nel consesso più alto delle democrazie, l’Europa”. “Il vero sconfitto è Putin” scrive Il Giornale; “politicamente distrutto” e, fra poco, anche militarmente: “Sul campo” infatti, ammette Il Giornale, “la storia sarà ancora lunga e complessa. Ma il vento è cambiato per davvero.”
Mi sa che hanno cantato vittoria un po’ troppo presto: mentre i nostri giornalai, infatti, erano a fare bisboccia dopo aver chiuso queste edizioni trionfalistiche, a Bruxelles la festa si trasformava repentinamente nel solito vecchio corteo funebre. E così, quando venerdì mattina ci siamo messi a fare la solita rassegna stampa quotidiana, ci siamo trovati di fronte a questo scenario schizofrenico: da un alto la propaganda italica che stappava lo spumante per l’Europa che finalmente risollevava definitivamente le sorti ucraine; dall’altro, sui media internazionali: “L’UE non sostiene gli aiuti all’Ucraina” (Bloomberg); “L’Ungheria blocca gli aiuti all’Ucraina” (New York Times); “L’UE non riesce ad approvare un pacchetto di finanziamenti da 50 miliardi di euro per l’Ucraina” (Financial Times).
Quasi a presa di culo, infatti, immediatamente dopo la chiusura degli inutili giornali italiani Orban si era preso la sua rivincita e aveva messo il veto all’approvazione del bilancio, pacchetto di aiuti all’Ucraina compreso; insomma, nell’arco di poche ore l’Unione Europea aveva salvato il culo all’Ucraina a chiacchiere, per poi lasciarla precipitare nell’abisso nei fatti e quello che pochi minuti prima Iacoboni – nel suo solito italiano non esattamente brillantissimo, diciamo – aveva definito il consesso più alto delle democrazie ecco che, nel suo stesso profilo, diventa magicamente un’organizzazione disfunzionale con un bisogno disperato di cambiare radicalmente le sue regole. Dai, coerente!

Lucio Caracciolo

Ora, avremmo potuto decidere di ricamarci sopra per una settimana, anche perché la bocciatura del pacchetto di aiuti europei arriva poche ore quella degli aiuti USA e rischia veramente di mettere fine a tutti i giochi in modo ancora più drastico e drammatico di quanto non andiamo sostenendo su questo canale da un po’ di tempo a questa parte: per tutti questi aspetti vi rimando all’intervista di martedì (19 dicembre 2023 n.d.r) alle 18.30 con Lucio Caracciolo, uno dei pochissimi che, pur ostinandosi – per lo meno – a non vivere nell’universo parallelo della propaganda più surreale, continua ancora ad essere accolto nei salotti buoni dei media che contano e che, sempre venerdì, ancora prima che si sapesse del blocco del pacchetto di aiuti della UE, aveva invitato dalle pagine de La Stampa a una doccia di realismo. “Kiev è uno stato fallito” aveva dichiarato; “Zelensky ha perso e non recupererà i territori. E a pagare il conto saranno gli europei”. Ecco: con grande gioia degli analfoliberali tutto questo, per adesso, lo rimandiamo e – invece – ci concentriamo su un altro aspetto, e cioè l’annosa domanda “quanto a lungo ancora e fino a che punto siamo ancora disposti a farci prendere così sfacciatamente per il culo?”. E non intendo in particolare sull’Ucraina, o sulle beghe dell’Unione Europea… No, no: intendo proprio in generale, cioè quanto distaccata dalla realtà deve diventare la narrazione che cercano di rifilarci prima che – non dico io o gli ottoliner – ma, in generale, il grosso della gente comune si rompa definitivamente i coglioni? E dopo mezzo secolo di colonialismo culturale a stelle e strisce e di involuzione antropologica dettata dalla controrivoluzione neoliberista, è ancora possibile immaginarsi un’alternativa radicale? E da dove potrebbe nascere?
In questa incredibile fase storica nella quale il declino relativo dell’Occidente globale e dell’egemonia USA sta attraversando un’accelerazione spaventosa al di là di ogni previsione e da sostanzialmente tutti i punti di vista, c’è un aspetto in particolare dove, invece, si fa fatica a vedere anche solo il barlume di una possibile alternativa: quello che c’abbiamo nella capoccia. Nei meandri delle reti neuronali che c’abbiamo nel cervello, l’uomo nuovo partorito da 50 anni di controrivoluzione neoliberista continua a regnare incontrastato nonostante i segnali che arrivano continuamente dal mondo empirico non facciano altro che indicargli che, proseguendo in questa direzione, va contro i suoi stessi interessi, compreso quello primario di conservazione della specie; la propaganda e il lavaggio del cervello hanno sconfitto addirittura la biologia. D’altronde non dovrebbe sorprendere più di tanto.
A mettere a repentaglio l’ordine costituito in campo militare, politico ed economico – infatti – non è qualche movimento di massa o qualche partito politico nato nel cuore delle nostre società, ma l’ascesa inarrestabile degli stati sovrani del Sud globale che rivendicano con forza il loro posto nel mondo e che sempre di più hanno la forza materiale per farlo, a partire dalla Cina che però, nonostante gli incredibili successi su ogni fronte – diplomatico, economico, tecnologico -, dal punto di vista del soft power dire che arranca è un eufemismo. Intendiamoci: nelle ristrettissime cerchie delle persone più politicizzate sono stati fatti passi avanti considerevoli; quando ho cominciato ad appassionarmi alla Cina io, ad esempio (ormai un po’ più di una quindicina di anni fa), in Italia a non considerarla un inferno turbocapitalista – patria mondiale dello sfruttamento e dell’abbrutimento più distopico – eravamo veramente una manciata di persone. 15 anni dopo, tra le persone dotate di qualche neurone e che non sono proprio spudoratamente razziste e suprematiste, quella visione caricaturale degna della peggiore propaganda maccartista è diventata piuttosto minoritaria, e si è fatta strada – per lo meno – una qualche forma di rispetto e anche di curiosità ma, ciononostante, la Cina rimane ancora ben lontana dall’insinuare nei cuori delle popolazioni del Nord globale qualcosa di comparabile al sogno americano ma con caratteristiche cinesi. Certo, a pesare c’è sicuramente anche un dato materiale macroscopico: per quanto la Cina sia già oggi di gran lunga la prima potenza economica mondiale, tutta questa ricchezza è comunque distribuita in una popolazione che è oltre 4 volte superiore a quella USA che, tradotto, significa che la Cina – da tanti punti di vista – è ancora oggi un paese in via di sviluppo con un tenore di vita medio ancora lontano dagli standard più elevati del Nord globale, anche se con sempre più eccezioni. Il sogno americano, in buona parte, altro non è che l’ambizione di avere un posto a tavola nel posto più ricco dell’Occidente, ma ridurre tutto a questo aspetto potrebbe essere fuorviante; un ruolo rilevante, senza dubbio, ricopre – infatti – proprio la capacità di conquistare il nostro immaginario e, da quel punto di vista, i fallimenti della Cina sono talmente ampi ed evidenti da non poter essere liquidati con un’alzata di spalle – e non certo perché, anche su questo fronte, la secolare egemonia USA e del suo modello non presenti sempre più crepe.

Il logo di Netflix

Ne abbiamo parlato in dettaglio in un video giusto l’altra settimana: partendo da un’analisi dell’incredibile popolarità che stanno riscuotendo i contenuti di ogni genere a sostegno della causa palestinese sulle piattaforme social – o, per lo meno, su quelle che come TikTok non cercano di reprimere il fenomeno con varie forme di censura più o meno esplicite – abbiamo sottolineato come la spietata logica capitalistica applicata all’industria dell’intrattenimento abbia comportato un processo di concentrazione talmente feroce da ridurre gli attori veramente significativi addirittura appena a un paio. Risultato? Stiamo sempre più incollati davanti a qualche forma di schermo ma le cose che vediamo sono sempre più uguali tra loro: le migliaia di serie che Netflix sforna senza soluzione di continuità sono sostanzialmente indistinguibili tra loro, e il 50% degli incassi al botteghino ormai sono destinati ad appena una decina di film l’anno – e sono tutti sequel di storie inventate decenni fa; per continuare a colonizzare con successo il nostro immaginario, un po’ pochino. La forza prorompente che ha permesso agli USA di colonizzare culturalmente il grosso del pianeta, infatti, si è sempre fondata anche sulla capacità di riassorbire al suo interno una gigantesca varietà di messaggi, compresi quelli più critici; banalizzando, è un po’ la logica espressa magistralmente da due grandissimi intellettuali italiani che, come pochi altri, incarnano alla perfezione lo spirito dei tempi: Nathalie Tocci e David Parenzo. Ve li ricordate?
Di fronte a chi gli ricordava gli innumerevoli crimini di guerra commessi dal mondo liberale e democratico negli ultimi decenni, la risposta – a suo modo geniale – era che “almeno noi poi ne discutiamo, e facciamo autocritica”. Ecco; la forza della narrazione hollywoodiana è, in buona parte, sempre stata esattamente questa: anche gli USA e il mondo democratico in generale è attraversato da terribili ingiustizie, ma la forza del modello liberaldemocratico è proprio che queste, immancabilmente, a un certo punto vengono sempre alla luce e alla fine il bene vince sempre, come Sylvester Stallone in Rocky IV. E’ esattamente la stessa logica che oggi guida tutta la retorica woke che permea ogni singola serie di un certo livello di Netflix o ogni produzione della Disney: certo, la nostra società è attraversata da mille tipi di discriminazione, ma a differenza dei regimi oscurantisti e totalitari noi ne parliamo apertamente e, alla fine, il processo democratico ci permette sempre di superarle. Perché, allora, parliamo di una crisi di questo potentissimo schema narrativo? Il punto è che la narrazione mainstream è sì in grado di riassorbire anche le voci più critiche, ma solo fino a quando queste critiche, ovviamente, non mettono in discussione alcuni principi fondamentali: la libertà, la democrazia – ovviamente sempre tutti rigorosamente declinati in chiave neoliberale. La versione annacquata dei diritti civili che vediamo nella propaganda di Netflix ha esattamente questa caratteristica: non solo non mette in discussione gli assi portanti del sistema neoliberista e imperiale, ma anzi, da un certo punto di vista, li rafforza; il problema, sembrano spesso suggerire, non è che ci sono troppo neoliberismo e troppo imperialismo, anzi! Paradossalmente, è che ce ne sono troppo pochi. Per mero interesse economico, le nostre classi dirigenti corrotte scendono a compromessi con la peggio feccia del pianeta: i dittatori cinesi, i tagliagole iraniani, i petrolieri, i trumpiani, ma le democrazie liberali – è il pensiero di fondo – hanno tutti gli anticorpi per reagire a questo declino morale; basta ridare agli individui la possibilità di farsi gli stracazzi loro e tornare a mostrare i muscoli contro l’asse del male ed ecco che la giustizia tornerà a trionfare.
Il problema però, a questo punto, è che di fronte alle plateali distorsioni che caratterizzano l’impero in declino e i suoi vassalli, aumentano le critiche che non sono più compatibili con questo schema pigliatutto distopico: con sempre più frequenza emergono critiche radicali al pensiero unico neoliberista che – per quanto in modo disarticolato e spesso anche sguaiato e inconcludente, se non addirittura all’insegna di ricette che sono anche peggio del male stesso – mettono comunque in discussione le fondamenta stesse dell’intera impalcatura e violano, così, le linee rosse dell’industria dell’intrattenimento. Queste critiche, invece di essere riassorbite, vengono escluse sistematicamente: ed ecco così che c’è un pezzo sempre più grande di società e di idee che nelle 25 mila milioni di serie sfornate da Netflix non trova nessunissima forma di rappresentazione; e se questo accade in modo consistente sotto i nostri occhi nelle nostre società che sono, ormai da decenni, totalmente colonizzate culturalmente, immaginiamoci quale possa essere la dimensione del fenomeno in quello che definiamo il Sud globale. E – mi pare evidente – non si tratta di qualcosa di passeggero legato a una singola crisi. Certo, il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini arabi a Gaza è senz’altro un evento a suo modo eccezionale che amplifica a dismisura questa frattura, ma il disallineamento tra la narrazione dell’impero egemone e pezzi sempre più consistenti di società va ben oltre, e sembra essere destinato ad aumentare in modo inesorabile.

Marcello Lippi quando allenava la nazionale cinese

Ora, questa condizione strutturale mi pare evidente che, potenzialmente, rappresenti un’occasione straordinaria proprio per la crescita del soft power cinese che però, incredibilmente, rimane al palo: perché? Sicuramente le ragioni sono molteplici. In alcuni casi, dei tentativi sono stati fatti: il caso più eclatante, probabilmente, è stato quello del pallone; Xi Jinping credeva talmente tanto nel ruolo del calcio come veicolo per aumentare il soft power cinese da averlo trasformato in un ambizioso progetto di portata nazionale, con soldi a profusione riversati in impianti all’avanguardia, accademie di ogni genere, ingaggi miliardari e chi più ne ha più ne metta, ma – a quasi 10 anni di distanza – il fallimento è plateale e universalmente riconosciuto, a partire dai cinesi stessi. E “Mentre la Cina pasticcia con le sue ambizioni calcistiche” riflette Han Feizi su Asia Times “ha anche lasciato cadere la palla sui suoi sogni di avere un impatto su altre arene culturali globali: film, musica, media. Dopo un decennio di massicci investimenti e supporto normativo” continua Feizi “la Cina non ha ancora né un suo K-Pop, né i suoi Pokemon, né i suoi K-drama, né la sua CNN. E certamente nessun universo cinematografico Marvel da esportare”. Alcuni attribuiscono questi fallimenti a un non meglio precisato torpore della creatività cinese che deriverebbe dalle restrizioni alla libera circolazione delle idee e al contrasto all’insorgere di ogni forma di pensiero critico tipico di ogni regime autoritario; nonostante si tratti di un aspetto non del tutto peregrino, sinceramente rimango un po’ scettico: per 10 anni ho sentito ripetere questo tipo di argomentazioni a supporto dell’idea che la Cina era sì bravissima a copiare, ma negata a inventare e a innovare; oggi i tassi di innovazione tecnologica cinese fanno letteralmente impallidire il resto del mondo e quelle argomentazioni si sono rivelate essere fondate più sul nostro suprematismo che non su un’analisi equilibrata e razionale della realtà. Inoltre, se è vero che l’industria dell’intrattenimento cinese non ha fatto breccia nei cuori dei consumatori globali, un discorso completamente diverso va fatto per il mercato interno: il mercato domestico dell’intrattenimento ha raggiunto dimensioni gigantesche e, in grandissima parte, è completamente in mano a produttori cinesi; secondo alcuni, in realtà, questo non sarebbe altro che il frutto del protezionismo cinese e sicuramente questo aspetto ha giocato un ruolo non marginale, ma – anche a questo giro – sono argomentazioni che ho già risentito.
Per giustificare l’affermazione dei giganti cinesi del web 2.0, appunto, il pensiero suprematista è sempre ricorso al tema del protezionismo che – intendiamoci, di nuovo – non è del tutto peregrino; la messa al bando, in Cina, dell’oligopolio delle piattaforme digitali USA è stata senz’altro una condizione fondamentale per la crescita e l’affermazione dei campioni nazionali, ma dopo 15 anni le piattaforme alternative cinesi non sono certo rimaste un fenomeno domestico: WeChat è la superapp all inclusive che tutti in Occidente vorrebbero imitare (senza successo) e TikTok è, senza dubbio, la piattaforma social tecnologicamente più avanzata di tutto il mercato. D’altronde – come sa benissimo qualsiasi storico dell’industria – il protezionismo è sempre una condizione necessaria per permettere a chi parte svantaggiato di affermare i suoi campioni nazionali: non esiste sostanzialmente al mondo grande gruppo industriale che non si sia affermato grazie a una prima fase di politiche protezionistiche. Nel caso del mondo digitale la realtà parla chiaro: chi non ha adottato misure protezionistiche, come l’Europa o l’India o il Giappone, molto banalmente è stato colonizzato dai giganti USA – tra l’altro tutti abbondantemente sostenuti direttamente da Washington; eppure quello che è successo con le piattaforme digitali cinesi non è successo con l’industria dell’intrattenimento. I campioni nazionali dell’entertainment che hanno avuto l’opportunità di crescere in un ambiente protetto non sono stati in grado di conquistare i mercati globali: ma il mercato locale invece sì, eccome, nonostante – in realtà – siano stati molto meno protetti che non le piattaforme digitali. “Sebbene la Cina non sia riuscita a penetrare nei mercati culturali globali” ricorda infatti sempre Feizi su Asia Times “i film nazionali hanno sovraperformato di gran lunga quelli di Hollywood, conquistando nel 2023 tutti i primi 10 posti negli incassi al botteghino”: in Italia, per dire, i primi 10 film sono TUTTI, e dico TUTTI, made in USA, e dei primi 25 tutti a parte 3.
Ma torniamo alla Cina: il punto, quindi, non è che c’è la dittatura e non c’è la concorrenza di Hollywood – anzi, per Hollywood il mercato cinese è diventato vitale -, ma di fronte alle grandi produzioni cinesi, per il mercato locale, semplicemente, è perdente; e quindi, ancora, perché mai i film cinesi che in casa sbancano i botteghini non conquistano i mercati globali come TikTok e WeChat? E qui entriamo nell’ambito delle speculazioni infondate del Marrucci: per risolvere questo mistero, infatti, a mio avviso può essere utile fare un parallelo tra il sistema globale dell’industria culturale e il sistema globale dei flussi di capitali, e anche provare a capire come questi due fenomeni siano intimamente interconnessi; come nei mercati finanziari, infatti, assistiamo al dominio incontrastato del dollaro, così nell’industria globale dell’intrattenimento assistiamo a un dominio incontrastato di Hollywood – inteso come simbolo dell’intero oligopolio dell’industria culturale made in USA. Ora, il dominio globale del dollaro si è affermato attraverso la globalizzazione neoliberista: questa, infatti, ha comportato lo smantellamento delle varie specificità nazionali nel tentativo di creare un mercato globale dei capitali il più omogeneo possibile, all’interno del quale far circolare liberamente i capitali; e in questo mondo piatto e privo di barriere la valuta che rappresentava i capitali più forti si è imposta come l’unica vera valuta globale. Allo stesso modo, in questo mondo piatto dove sono state scientemente cestinate tutte le specificità nazionali si è affermato anche un altro monopolio: quello della costruzione dell’immaginario; nel mondo piatto, cioè, si sono affermati dei linguaggi universali: il linguaggio universale dei capitali che si chiama dollaro e il linguaggio universale dei sogni che si chiama Hollywood. Il punto, però, è che non tutti sono caduti nel tranello: la Cina, in particolare, ha accettato – obbligatoriamente – di far parte del mondo unipolare fatto a immagine e somiglianza del dollaro, ma ha mantenuto il controllo sulla circolazione dei capitali e, in questo modo, è riuscita a finanziare il suo sviluppo e a consolidare la sua sovranità e la sua indipendenza. Allo stesso modo, la Cina ha deciso di proteggere la sua identità culturale nazionale ed è sfuggita così, almeno in parte, al colonialismo culturale a stelle e strisce: questa cosa, da un lato, oggi le permette di avere un’industria culturale nazionale fondata su alcuni campioni nazionali e di non essere una succursale di Hollywood ma, dall’altro, è probabilmente proprio il singolo aspetto che maggiormente le impedisce di conquistare i mercati globali, e questo proprio perché i mercati globali dell’immaginario parlano la lingua universale imposta da Hollywood – che è esattamente quella che la Cina ha deciso di non imparare per proteggere la sua identità culturale nazionale. L’industria culturale cinese, così, oggi parla una lingua diversa da quella che si è imposta nei mercati globali e quindi, sostanzialmente, ne è esclusa; e questa cosa, tutto sommato, dovrebbe rassicurare tutte le persone che sono affette da qualche forma di sinofobia: il chiodo fisso di ogni sincero sinofobo, infatti, è sempre “Eh, vabbeh, l’egemonia USA è cattiva. Ma, finita l’egemonia USA, ecco che arriva quella cinese, che è pure peggio”.
Ora, il timore che finita un’egemonia ne arrivi un’altra, potenzialmente anche peggiore, può anche essere astrattamente un timore giustificato; la buona notizia, però, è che quando dall’astrazione passiamo al mondo reale, il timore – in questo caso – si rivela piuttosto infondato: come abbiamo provato a spiegare diverse volte, infatti, non c’è nessuna possibilità che al declino dell’egemonia del dollaro segua l’ascesa dell’egemonia dello yuan. Una valuta, infatti, per diventare valuta di riserva globale deve essere emessa da uno stato che garantisce la libera circolazione dei capitali, il che significa necessariamente che quello stato si identifica totalmente con gli interessi delle oligarchie finanziarie che, in questo schema, sono i veri detentori del potere sia economico che politico: esattamente quello che la Cina vuole evitare a ogni costo; in Cina a comandare è il partito comunista cinese e non le oligarchie finanziarie che, tra l’altro, è esattamente il motivo per cui la Cina viene definita un regime autoritario. Nella neolingua del Nord globale finanziarizzato e rigorosamente neoliberista, un regime autoritario – come dice sempre Michael Hudson – “è qualsiasi regime dove lo stato mantenga potere a sufficienza da ostacolare le ambizioni politiche delle sue oligarchie finanziarie”. Ecco; un ragionamento, tutto sommato, piuttosto simile lo possiamo fare anche per il colonialismo culturale; anche nel caso di un eventuale collasso dell’egemonia culturale USA non c’è motivo di temere l’affermazione di una qualche forma di pensiero unico made in China: ammesso e concesso che gliene freghi qualcosa, molto banalmente non sono in grado e – appunto – non perché non sono creativi perché c’è la dittatura, ma molto semplicemente perché hanno un linguaggio completamente diverso dal nostro, che è quello del mondo piatto costruito a immagine e somiglianza delle ambizioni imperiali USA.
Il buon Han Feizi su Asia Times riporta un esempio piuttosto eclatante: il secondo film d’animazione campione d’incassi al botteghino in Cina nel 2023, ricorda, si intitola “30 mila miglia da Chang’an”; 170 minuti, sottolinea Feizi, “senza stratagemmi hollywoodiani a buon mercato, nessuna storia d’amore gratuita, e nessun osso gettato ai bambini”. “La storia” riassume Feizi “segue l’amicizia di una vita tra Gao Shi, un onorevole militare e poeta minore, e l’incandescente Li Bai, un poeta dal talento celestiale e dall’infinita dissolutezza. A collegare le storie, ci sono 48 poesie della dinastia Tang e innumerevoli cameo di poeti, generali, musicisti e calligrafi Tang”; “un film” continua Feizi “di portata tolstoiana: un inno all’amicizia, all’essere giovani, all’invecchiamento, all’ambizione, alla lealtà, alle scelte che facciamo, alle gioie dell’alcol, a ciò che dobbiamo al talento, alla seduzione del potere e al rimpianto”.

Fabio Volo

Che riesca a colonizzare culturalmente uno come me, che non è mai riuscito ad arrivare alla fine di un film sveglio in vita sua e che sbava dietro a Christian de Sica e a Checco Zalone, la vedo dura, diciamo. La domanda, allora, a questo punto è: ma se l’avversario strategico degli USA non è minimamente in grado di sostituirne l’egemonia culturale, chi o cosa potrebbe farlo? Margherita Buy? Fabio Volo? Il problema, infatti, non è solo che il monopolio USA sull’industria culturale globale – esattamente come il monopolio delle piattaforme digitali – ha totalmente raso al suolo le industrie nazionali; il problema è che, per come stiamo messi, è una fortuna che sia andata così: almeno i prodotti culturali made in USA son tutti uguali, ma sono tecnicamente e narrativamente ineccepibili. Per staccare il cervello vanno più che bene; i nostri, anche se stacchi il cervello, ti fanno comunque venire l’orchite, e anche qui il parallelo con il declino dell’egemonia del dollaro potrebbe esserci utile. Anche in quel caso, il declino del sistema valutario unipolare fondato sul dollaro – e l’impossibilità dello yuan di sostituirlo – apre potenzialità gigantesche, ma anche rischi e, quindi, responsabilità: in un eventuale nuovo ordine valutario multipolare starà anche ai singoli paesi sovrani, o alle federazioni regionali dei singoli paesi sovrani, sviluppare una politica economica e monetaria in grado di garantirgli un posto in un mondo sempre più complesso. In un nuovo eventuale ordine multipolare conviveranno paesi che adottano un modello simile a quello saudita con paesi che adottano un modello simile a quello norvegese, con paesi che adottano un modello simile a quello cubano, nel quadro di alcune regole condivise: saranno anche un po’ stracazzi nostri, insomma, e ci troveremo a comunque a doverci fare gli stracazzi nostri a partire da quello che abbiamo ereditato dai decenni precedenti, e cioè una devastazione sistematica del tessuto produttivo e della capacità di creare ricchezza; insomma, ci saremo liberati da una forma insostenibile di schiavitù, ma da lì a raggiungere una forma sostenibile di libertà ce ne passa, e ci dovremo mettere del nostro.
Per l’industria culturale e la ricerca di una nuova identità culturale nazionale le cose potrebbero essere ancora più complesse perché, in 50 di mondo piatto fatto a immagine e somiglianza del dollaro e di Hollywood, non è solo il nostro tessuto produttivo ad essere stato asfaltato ma, appunto, la nostra capoccia: una volta che ci saremo tolti Hollywood e Netflix dai coglioni, continueremo ad averceli dentro la testa e l’involuzione antropologica imposta da decenni di neoliberismo continuerà a farci compagnia a lungo; e magari, per darci un’identità, la condiremo con una bella dose di xenofobia, di omofobia e di tutte le sfumature di negazionismo che oggi vanno così di moda nel microcosmo dei cosiddetti anti-sistema.
Per capire su cosa fondare la gigantesca battaglia culturale che ci aspetta per sostituire la fuffa di Hollywood con un’autentica cultura nazionale in grado di sostenere la nostra emancipazione – invece che relegarci all’imbarbarimento – però io, sinceramente, grossi strumenti non ne ho, e allora vi rimando a domani, lunedì 18 dicembre, quando alle 18 e 30 pubblicheremo la straordinaria intervista al filosofo Vincenzo Costa che abbiamo registrato ieri mattina insieme al nostro socio Gabriele Germani. Nel frattempo, per prepararci adeguatamente alla battaglia culturale, di sicuro quello di cui abbiamo urgentemente bisogno è un nuovo media pronto a dare battaglia affinché il mondo nuovo che ci aspetta sia un passo avanti e non tre passi indietro. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Volo

[LIVE OTTOVOLANTE] Italia, Germania e il Patto d’Acciaio per servire Washington – ft. Giacomo Gabellini

Tra la reintroduzione del Patto di Stabilità, la Mega – Truffa del MES e il semi – Golpe dell’Unione Europea, Italia e Germania stringono un’alleanza dove a vincere è soltanto Washington. Berlino si accontenta delle briciole e noi delle pedate nelle gengive, e il bello è che – ciononostante – anche Washington non è che se la passi poi così bene: l’asta dello scorso 9 novembre, per allocare qualche decina di miliardi di titoli di Stato è stata una debacle e, tra BRICS e Nazioni Unite, il Sud Globale – che ha a lungo cercato di corteggiare per sottrarlo alla sfera d’influenza di Russia e Cina con i nostri quattrini – non fa altro che continuare a prenderlo ostentatamente a pesci in faccia. Ne parliamo in questa puntata di Ottovolante con il Marru, Jack Gabellini, Giamba Cadoppi e Alberto Gabriele.