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Tag: brics

Turchia e Azerbaigian contro il colonialismo francese – ft. Giacomo Gabellini

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano per il consueto appuntamento del sabato Giacomo Gabellini. Turchia e Azerbaigian si allineano per contrastare l’influenza storica e attuale della Francia nella loro regione e nelle ex e attuali colonie, ponendosi come punto di riferimento per i movimenti di indipendenza e anti-colonialisti di de-francesizzazione. Esploreremo le dinamiche di potere che stanno emergendo nel Caucaso, nel Mediterraneo orientale e in Sahel e come questi nazioni si rapportino a NATO e BRICS.

Palestina nei BRICS – Come il Sud globale costruisce concretamente un mondo più democratico

Mentre il comandante in capo del mondo libero e democratico Genocide Joe approvava l’ennesimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari per permettere a Israele di continuare a sterminare pacificamente i bambini palestinesi, il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino optava per una strategia decisamente meno rispettosa dei diritti umani: invitava ufficialmente il Presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas a partecipare al prossimo summit dei BRICS che si terrà nella cittadina russa di Kazan il prossimo ottobre, un summit potenzialmente di portata storica: la Russia, infatti, che in quanto sporca e cattiva è giustamente sanzionata dai difensori del diritto internazionale e dei diritti umani a stelle e strisce, è forse in assoluto il Paese al mondo che sente con maggiore urgenza la necessità di emanciparsi dalla dittatura globale del dollaro e quindi, con ogni probabilità, approfitterà della sua presidenza di turno dei BRICS per provare in ogni modo ad accelerare il più possibile il complicatissimo ma rivoluzionario processo verso l’emancipazione dalla dittatura globale del dollaro, che rappresenta il vero pilastro fondamentale dell’imperialismo – e quindi di un sistema di relazioni internazionali ancora oggi intollerabilmente antidemocratico che ricorda molto da vicino il vecchio colonialismo. Insomma: anche a questo giro, mentre l’Occidente collettivo a guida USA si riempie la bocca di slogan vuoti su democrazia, diritto e progresso mentre commette ogni sorta di crimine possibile immaginabile, i Paesi del Sud globale – a partire proprio da quelli più sporchi e cattivi che tanto sdegno generano nei salotti buoni della sinistra progressista de noantri– al netto di tutte le contraddizioni lavorano concretamente giorno e notte alla costruzione di un mondo più pacifico e democratico. E voi, da che parte state?

Vladimir Putin

La contrapposizione non potrebbe essere più chiara ed evidente: di fronte al primo genocidio della storia in diretta streaming, il mondo si divide nettamente in buoni e cattivi, con i buoni che però accolgono tra innumerevoli standing ovation i carnefici e i cattivi, invece, che si schierano dalla parte della resistenza. L’ufficializzazione dell’invito da parte di Mosca all’autorità palestinese a partecipare al prossimo Summit dei BRICS, che si terrà in ottobre nella prestigiosa capitale del Tartastan, rischia di creare l’ennesimo irrisolvibile cortocircuito cognitivo nella mente delle anime belle della sinistra progressista occidentale; i benpensanti dell’Occidente collettivo, infatti, fino ad oggi hanno sempre cercato disperatamente di giustificare il sostegno incondizionato dei loro Paesi e delle loro forze politiche di riferimento allo sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi, trincerandosi dietro la formula dei due popoli, due Stati che, ancora oggi, viene indicata come l’unica soluzione possibile per soddisfare contemporaneamente due principi che ritengono (almeno a parole) inviolabili: il diritto di Israele a difendersi, da un lato, e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al rispetto dei diritti umani fondamentali. Purtroppo però – recita la formula giustificazionista più in voga – la costruzione dei due Stati è un processo incredibilmente complesso e, ovviamente, è reso ancora più complesso dagli opposti estremismi che la sinistra benpensante vuole sempre necessariamente vedere ovunque: c’è un regime di apartheid? No, macché: lo Stato democratico di Israele rispetta i diritti di tutti, solo che poi gli estremisti palestinesi ne approfittano per terrorizzare i giovani che vanno ai rave e ai pride e, dall’altra parte, alcuni estremisti israeliani, nell’esercitare il loro sacrosanto diritto all’autodifesa, si lasciano andare a qualche eccesso di troppo. E’ in corso un genocidio? Ma figurati! E’ solo che gli estremisti palestinesi usano la popolazione civile come scudi umani e, dall’altra parte, qualche estremista israeliano si fa un po’ troppo pochi scrupoli a massacrare una trentina di civili per colpire ogni presunto miliziano. Se già, invece di 30, fossero 25, ci si potrebbe stare.
D’altronde si sa, appunto: gli estremisti son da tutte le parti; l’importante però è che si continui ad affermare che l’obiettivo rimane quello di creare due Stati per due popoli anche se, nel frattempo, si continua ad armare e a sostenere economicamente una delle due parti in causa come se non ci fosse un domani. E continuare ad affermare che l’obiettivo è creare due Stati costa abbastanza poco; anzi, si può fare anche molto di più: si potrebbero anche proprio riconoscere davvero due Stati, tanto – alle condizioni attuali – anche se formalmente arrivi a riconoscerlo sul serio uno Stato palestinese, un vero Stato palestinese, in realtà non può esistere. Il punto è che affinché uno Stato possa esistere, non basta scriverlo su un foglio di carta: uno Stato esiste sul serio se e solo se ha gli strumenti concreti per esercitare una qualche forma di sovranità; non voglio dire esercitare piena sovranità in tutti gli ambiti di sua competenza perché, dopo 40 anni di globalizzazione neoliberista, questo significherebbe sostanzialmente dire che non possono esistere gli Stati tout court, ma almeno qualche forma sostanziale di sovranità sì. Ora, che forma di sovranità potrebbe mai esercitare uno Stato che si ritrovasse a governare la Palestina per come è stata ridotta? Il cibo dovrebbe comunque arrivare dall’esterno sotto forma di aiuti alimentari, l’acqua dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani, che negli anni si sono impossessati manu militari di ogni singola fonte di approvvigionamento; anche l’energia elettrica dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani e anche per la sicurezza una vera sovranità sarebbe palesemente impensabile, soprattutto in quello spezzatino privo di ogni continuità territoriale nel quale centinaia di insediamenti totalmente illegali da parte dei coloni sionisti hanno trasformato la Cisgiordania. Ciononostante, un pezzo consistente della politica dell’impero ritiene comunque troppo rischioso fare qualche passo avanti nel riconoscimento di uno Stato formalmente indipendente per i palestinesi e quindi, da decenni, lavora senza sosta per fare in modo che anche all’interno della Palestina stessa non vi siano le condizioni politiche minime necessarie per garantire in prospettiva una qualche forma di governo minimamente sostenibile.
Lo strumento è quello classico: divide et impera, dividere la popolazione tra fazioni politiche e riconoscerne una come interlocutore più o meno affidabile e l’altra come capro espiatorio di ogni male possibile immaginabile. La fazione individuata come interlocutore – che, nel caso specifico, è l’OLP di Mahmoud Abas – a questo punto viene sottoposta a un semplice ricatto: visto che sei totalmente dipendente da noi per qualsiasi cosa, per ricevere un po’ di elemosina devi soddisfare supinamente ogni nostra richiesta. Ovviamente, questa sottomissione totale ai voleri della forza occupante viene vista di cattivo occhio dal grosso della popolazione dal momento che, da che mondo è mondo, ai popoli – chissà poi perché – essere sottomessi alle occupazioni straniere gli sta leggerissimamente sui coglioni; questa cosa, ovviamente, non fa che alimentare la fazione di quelli che nel progetto di divide et impera dell’occupante sono finiti nel team cattivi. Allora nel contratto di ricatto stipulato col team buoni diventa sempre più grande la parte che prevede che gli interlocutori debbano consegnare agli occupanti la testa dei membri del team cattivi e così ovviamente, giustamente, il team buoni diventa sempre più minoritario e isolato all’interno della sua stessa popolazione, fino a che gli occupanti non hanno tutti gli elementi per sostenere (con qualche ragione) che la creazione dello Stato indipendente degli occupati non si può fare perché la fazione individuata come unico interlocutore possibile è troppo debole e non sarebbe in grado di governarlo. E per i progressisti da apericena e gli analfoliberali, a questo punto, il ragionamento non fa un piega: insomma, gli imperialisti e i coloni sono criminali, ma non sono mica scemi. Ora, l’invito da parte di quel perfido tiranno di Putin a partecipare al summit dei BRICS stravolge totalmente questo intero paradigma, soprattutto alla luce di quanto è stato fatto nei mesi precedenti nei confronti della Palestina in particolare proprio da Cina e Russia. L’ingresso dello Stato palestinese nel salotto buono del nuovo ordine multipolare, infatti, ha un obiettivo molto evidente: aiutare lo Stato palestinese a ottenere gli strumenti concreti che gli garantiscano in prospettiva di esercitare, almeno da alcuni punti di vista, proprio quella sovranità che la pantomima dell’imperialismo occidentale vuole negare alla radice; d’altronde, i BRICS e le altre istituzioni del nuovo ordine multipolare sono nate tendenzialmente proprio per questo.
L’imperialismo – e, in particolare, quello che definiamo spesso il superimperialismo (e cioè l’imperialismo nella forma specifica che ha assunto nell’era della globalizzazione neoliberista) – può essere definito come quel sistema mondo che aspira a minare alla radice la capacità di tutti gli Stati di esercitare la loro sovranità tranne che per lo Stato del centro imperiale (e, cioè, gli USA) e questa è esattamente la condizione che hanno accettato passivamente tutti gli Stati che oggi definiamo liberi e democratici: la cessione della loro sovranità alle oligarchie finanziarie e alla macchina bellica del centro imperiale. Per emanciparsi da questa condizione di sottomissione strutturale, però, a un certo punto i Paesi del Sud globale si sono cominciati a dotare di istituzioni multilaterali che, in mezzo a mille contraddizioni, potessero permettergli di provare a tornare a conquistare un po’ di sovranità; e di queste istituzioni multilaterali, i BRICS sono probabilmente la più importante in assoluto, soprattutto dal momento che è proprio in questa sede che si dovrebbe discutere il singolo aspetto che – probabilmente più di ogni altro – negli ultimi 40 anni ha limitato la sovranità dei singoli Stati, e cioè la dittatura del dollaro.
L’emancipazione dal dollaro come valuta di riserva globale è una sfida titanica: in 5 secoli di vita, il capitalismo globale ha sempre avuto una valuta di riserva di ultima istanza che veniva utilizzata per il grosso delle transazioni commerciali internazionali e questa valuta è sempre stata la valuta emessa dal Paese che, in quella fase storica, stava in cima alla gerarchia dei Paesi capitalistici: la potenza egemone, come è stato l’impero britannico per buona parte del XIX secolo e quello a stelle e strisce per buona parte del XX fino ad oggi. Il fatto è che al sistema, per come ha funzionato fino ad oggi, per gli scambi internazionali serve una moneta stabile e sicura, universalmente accettata da tutti e che possa circolare liberamente attraverso i confini (in particolare, attraverso i confini del Paese che la emette), ma permettere ai capitali di fluire liberamente attraverso i propri confini significa, in soldoni, rinunciare agli strumenti di controllo del flusso dei capitali che sono indispensabili per rendere efficaci le politiche economiche scelte dal governo e questo, a sua volta, significa solo due cose: o che rinunci anche tu ad esercitare una parte fondamentale della tua sovranità, oppure che di default la tua politica economica coincide perfettamente con gli interessi dei detentori del grosso di quei capitali che attraversano i tuoi confini; e questa condizione è soddisfatta solo ed esclusivamente dalla potenza egemone. Emanciparsi dalla dittatura del dollaro quindi, stando così le cose, significherebbe necessariamente trovare un degno sostituto e, quindi, anche riconoscere a un’altra potenza – che non potrebbe (per ovvie ragioni) che essere la Cina – lo status di nuova potenza egemone del capitalismo globale, ma a quel punto si sarebbe di nuovo punto e a capo perché i problemi che derivano dall’avere una superpotenza che gerarchicamente sta sopra a tutti gli altri, limitandone considerevolmente la sovranità, si ripresenterebbero più o meno uguali spiaccicati, solo con un altro nome. Fortunatamente, però, questo rischio non sembra tutto sommato molto realistico: la totale simbiosi che si è verificata nei precedenti imperi tra detentori del capitale e macchina statale, infatti, nella Repubblica Popolare cinese che – piaccia o non piaccia – continua ad essere uno Stato socialista (eccome), molto semplicemente non c’è, proprio manco lontanamente; e lo Stato cinese non ha nessunissima intenzione di rinunciare al controllo del flusso dei capitali che le garantisce di potersi dare obiettivi di politica economica che non coincidono con gli interessi particolari di chi detiene il capitale. Per superare la dittatura del dollaro, allora, l’unica possibilità è superare tout court l’idea stessa dell’esistenza di una valuta di riserva di ultima istanza, il che – in soldoni – equivale a dire che l’unica possibilità è superare l’imperialismo in quanto tale e, cioè, la forma specifica che si è data il capitalismo per tentare di superare le sue contraddizioni intrinseche pur di continuare a garantire il dominio dell’1% sul resto della popolazione; insomma: non esattamente un giochetto da ragazzi.
L’ultima volta che qualcuno c’aveva provato era il 1944, quando a Bretton Woods John Maynard Keynes aveva cercato di approfittare di un momento politico contingente particolarmente favorevole – dove le storture intrinseche dell’imperialismo, dopo l’ascesa del nazifascismo e due guerre mondiali, erano evidenti anche alle capre di montagna – per proporre un’architettura finanziaria globale rivoluzionaria che al posto di una valuta di riserva di ultima istanza, prevedeva l’istituzione di uno strumento monetario ad hoc chiamato Bancor che sarebbe dovuto servire per regolare le transazioni internazionali e che avrebbe dovuto permettere di intervenire per correggere le asimmetrie nelle bilance commerciali dei vari Paesi ed evitare così il riemergere delle tensioni strutturali che avevano portato al disastro dei decenni precedenti. I BRICS oggi, sostanzialmente, stanno lavorando proprio in quella direzione e, per quanto la gestazione sia troppo lunga e tortuosa per i tempi dettati dall’era dell’iper-informazione, stanno facendo importanti passi avanti: il primo step consiste nel favorire gli scambi bilaterali tra i diversi Paesi nelle valute locali e qui, a mostrare la strada, sono indubbiamente Cina e Russia. E il bello è che sono proprio gli USA stessi ad aver accelerato in maniera esponenziale il processo: come conseguenza della guerra per procura degli USA in Ucraina e della montagna di sanzioni anti-russe che l’hanno accompagnata sin dagli esordi, nel 2023 l’interscambio commerciale tra i due Paesi leader del nuovo ordine multipolare è cresciuto di circa il 25% e per il 90% è avvenuto in rubli e yuan. Anche una bella fetta dell’interscambio tra Russia e India ormai avviene nelle rispettive valute e nel 2024, per la prima volta, la maggioranza dei pagamenti internazionali che hanno coinvolto la Cina sono avvenuti in yuan invece che in dollari; e calcolando che la Cina è di gran lunga la prima potenza commerciale al mondo e l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del pianeta, non è proprio pochissimo. Anche il commercio internazionale del petrolio, che fino al 2022 avveniva in dollari per poco meno del 100%, nel 2023 è avvenuto per almeno un quarto del suo valore complessivo in valute locali. Ovviamente tutto questo è ben lontano da mettere in discussione il predominio del dollaro, soprattutto dal momento che le transazioni commerciali internazionali rappresentano soltanto una piccola frazione dei movimenti valutari globali che, ovviamente, per la stragrande maggioranza dei volumi hanno a che vedere con transazioni di carattere meramente finanziario, totalmente scollegate dall’economia reale; ciononostante, la fine della dittatura del dollaro potrebbe essere più vicina di quanto si possa pensare perché – come a ogni dittatura – per stare in piedi anche a quella del dollaro non basta essere semplicemente maggioranza: deve essere totalizzante, come dimostrano plasticamente i fallimenti che lo strumento delle sanzioni unilaterali sta accumulando uno dietro l’altro. Affinché le sanzioni funzionino, infatti, non è necessario che le alternative al dollaro siano chissà quante e chissà quanto diffuse: basta che ci siano delle alternative, anche marginali; ora quindi si tratta – mentre, da un lato, si continua ad allargare il ricorso all’utilizzo delle valute locali per le transazioni bilaterali – di cominciare a ragionare su un’architettura più complessiva (sulla falsariga di quella proposta da Keynes a Bretton Woods) che permetta di regolare le transazioni internazionali di tutti quei Paesi del Sud globale – ma non solo – che si sono stufati di pagare dazio all’egemonia USA.
Uno degli ostacoli principali fino ad oggi è stato rappresentato proprio dall’India, che se da un lato persegue una sua agenda nazionale incompatibile con il dominio incontrastato del superimperialismo finanziario USA, dall’altro teme di favorire troppo l’ascesa della Cina; ed ecco così che quando nel 2023, al summit di Johannesburg, il tema dell’utilizzo delle valute locali per l’interscambio tra i BRICS era stato posto sul tavolo, l’India si era dichiarata non favorevole, ma – a quanto pare – le cose sono cambiate. E’ quanto rivela la pagina economica di The Hindu in vista del vertice di Kazan: L’India potrebbe prendere in considerazione la proposta di utilizzare le valute nazionali titola, anche se a condizione però, continua il titolo, che non sia vincolante; “Nuova Delhi”, avrebbe dichiarato a The Hindu una fonte governativa di primo livello che avrebbe voluto però mantenere l’anonimato, “sta esaminando una risposta adeguata in base alla misura in cui trarrebbe beneficio economicamente e diplomaticamente dalle proposte senza aumentare le sue vulnerabilità nei confronti della Cina”. Il compromesso, avrebbe affermato la fonte anonima, consisterebbe nel fatto che “All’interno dei BRICS anche se sei d’accordo per il regolamento valutario, puoi comunque scegliere di non applicarlo con alcuni Paesi, mentre lo applichi con altri. Se l’India sceglie di non trattare con la Cina in yuan e rupie, va bene. Ma potrebbe riguardare altri Paesi, ad esempio il rublo o il rand”; “Il regolamento valutario all’interno del blocco BRICS” commenta l’articolo “darà ai membri la flessibilità di utilizzare una particolare valuta accumulata in un Paese per commerciare con un altro. Ad esempio, la Russia potrebbe spedire la rupia in eccedenza raccolta nei suoi conti in India e convertirla in pesos brasiliani per pagare il Brasile per alcune transazioni. Oppure in rand sudafricani per effettuare pagamenti in Sudafrica”.
Ovviamente, da qui alla creazione della famigerata valuta dei BRICS ce ne corre, ma l’idea sostanzialmente è che una volta rodato questo meccanismo si possa dare vita – appunto – a una valuta fittizia simile al Bancor di Keynes con la quale regolare l’interscambio commerciale e il cui valore è determinato da un paniere contenente tutte le valute dei Paesi coinvolti. Insomma: al di là della propaganda, i BRICS continuano a lavorare per restituire concretamente spazi di sovranità ai diversi Paesi e, invece della strategia del divide et impera, lavorano per la riconciliazione e il dialogo, anche sul fronte interno, anche se costa una fatica enorme e una pazienza certosina; già in marzo Putin aveva organizzato un importante incontro con le varie fazioni palestinesi – dall’OLP ad Hamas, passando per la Jihad Islamica Palestinese e il Fronte Popolare di Liberazione – nel tentativo di promuovere un governo di unità nazionale. Dopo aver ottenuto una dichiarazione congiunta, il dialogo era completamente naufragato a causa dell’ennesimo infame atto di tradimento da parte dell’OLP di Abu Mazen. Ma la storia si fa con quel che c’è, non quello che ci piacerebbe ci fosse, ed ecco così che grazie anche ai veri e propri deliri delle fazioni più dichiaratamente razziste e fascistoidi del governo israeliano – che sono riuscite a far passare alla Knesset una risoluzione che rifiuta categoricamente ogni ipotesi di Stato palestinese, minando così alla radice il ruolo dell’OLP di interlocutore e, quindi, costringendolo a venire a più miti consigli – a luglio a riprovarci è stata la Cina, che ha portato a casa la ratifica da parte di 14 fazioni palestinesi di un accordo che prevede l’istituzione “di un governo di unità nazionale che gestisca gli affari del popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania, supervisioni la ricostruzione e prepari le condizioni per le elezioni”.
Che strano mondo che è un mondo dove i buoni firmano i missili diretti contro i bambini e ci scrivono sopra Uccidili tutti e i cattivi sono l’unica speranza che i diseredati della terra hanno per un futuro un po’ più pacifico e democratico… Contro il mondo al contrario della propaganda di fine impero, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che dia voce agli interessi e ai diritti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

La Francia dichiara guerra a Telegram: l’arresto di Pavel Durov – ft. Andrea Lucidi

L’arresto di Pavel Durov appare come uno schiaffo alla libertà di espressione sul web dopo i vari tentativi dell’Unione Europea di mettere le briglie a Telegram, l’unica piattaforma su cui si possono veicolare liberamente temi sotto restrizione sugli altri social. Con Andrea Lucidi, da poco rientrato a Mosca da Beirut, non solo abbiamo commentato la vicenda – ancora dai contorni molto opachi -, ma abbiamo parlato della situazione in Libano di fronte ad una guerra che appare ormai come inevitabile, del passo della Palestina verso il mondo multipolare e delle prospettive di pace in Europa dopo l’offensiva ucraina su Kursk.

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Socialismi latinoamericani – Cuba e Brasile: due casi a confronto

Vi presentiamo un panel a tema Socialismo latinoamericano ed esperienze bolivariane nel Sud America odierno. Gli ospiti ci presenteranno varie esperienze progressiste del continente, da sempre in prima linea nella lotta al capitalismo e all’imperialismo. Il caso più noto è chiaramente quello cubano, che dai tempi di Fidel ha segnalato un faro di speranza per i dannati della Terra. Non secondari i casi contemporanei di Bolivia, Venezuela e Brasile, che approfondiamo oggi. Il governo Lula, prima e dopo, ha rivoluzionato un paese, rendendolo membro fondatore dei BRICS e fautore del nuovo mondo multipolare. A cura di Associazione Para Principe Enano, Maddalena Celano), Comitato Lula Libre e Roberto Nannetti (Italia Cuba).
Buona visione

La cricca di Biden uccide l’economia reale occidentale per proteggere la dittatura del dollaro – ft. Giacomo Gabellini

Presentiamo oggi il panel attorno alla transizione dal mondo unipolare al mondo multipolare. Ne ha parlato Giacomo Gabellini (@IlContesto) con il nostro Gabriele Germani, una lunga sequela di analisi storiche, politiche ed economiche per mettere luce attorno ai cambiamenti in atto nel mondo. Cerchiamo di fare luce assieme. Buona visione!

BRICS #sco #Cina #Dollari

Il golpe militare in Israele – ft. Alberto Fazolo

In Israele arrivano i colonnelli? Oggi torna, per il consueto appuntamento del sabato mattina attorno al mondo, Alberto Fazolo intervistato dal nostro Gabriele Germani. Gli argomenti affrontanti sono il fallimento della conferenza di pace in Svizzera, la controproposta di pace presentata da Putin e quella in sei punti presentata da Brasile e Cina, la visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam, il processo di dedollarizzazione in atto nel mondo e simboleggiato dalle recenti azioni dell’Arabia Saudita e, infine, lo scontro istituzionale all’interno di Israele, dove l’esercito ha sconfessato le parole del governo. Uno scenario complesso e in cui tenteremo di fare maggiore chiarezza. Buona visione!

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Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’Europa si sta esponendo a un disastro geopolitico e geoeconomico enorme – ft. Giacomo Gabellini

Oggi il nostro Gabriele intervista Giacomo Gabellini per parlare di quanto sta accadendo in giro per il mondo. Si spazia dal G7 al fronte ucraino, dalle sanzioni europee verso le auto cinesi fino al vertice dei BRICS+ su cui troneggia la richiesta di adesione turca al gruppo. Intanto l’Europa prosegue la propria aggressività verso gli ex partner euroasiatici (Russia e Cina in primis) andando dritta verso una catastrofe geopolitica e geoeconomica che la danneggerà in prima persona, lasciando invece gli USA relativamente sicuri tra due mari e ricchi di risorse. Sulla stessa barca sembra trovarsi Israele, impantanato nella striscia di Gaza e ora rivolto – in modo problematico – verso nord, dove il Libano ed Hezbollah ribollono. Buona visione!

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Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Putin va in Corea del Nord e Vietnam: l’Asse della resistenza alla riscossa- ft. Giulio Chinappi

Oggi i nostri Clara e Gabriele hanno intervistato Giulio Chinappi dal Vietnam per parlare dell’odierna visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam. Il viaggio diplomatico è foriero di molti accordi: dal petrolio alle armi fino alla mutua difesa tra Russia e Corea del Nord in caso di conflitto militare. Sullo sfondo il gigante cinese e l’importanza strategica del Mar Cinese Meridionale per permettere a Pechino di aggirare un eventuale blocco navale nell’area organizzato dagli USA, con la complicità degli alleati locali (Filippine, Taiwan, Giappone e Corea del Sud). L’alternativa c’è ed esiste già: la Siberia, in cui Pechino e Mosca sono saldamente intenzionate a collaborare, e la costa siberiana che affaccia sull’Oceano Pacifico, fino alla rotta artica della Via della Seta sempre più favorita dallo scioglimento dei ghiacci. Buona visione!

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Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Contro Limes; il turbo-atlantismo è nel nostro interesse nazionale?

La rivista di geopolitica Limes ha recentemente ufficializzato una propria proposta strategica per l’Italia: nel numero “Una certa idea d’Italia”, il direttore Lucio Caracciolo e l’analista Federico Petroni, sicuramente mossi solo dal nobile intento di invertire il nostro declino geopolitico e tornare ad essere protagonisti nelle nostre potenziali aree di influenza, scrivono che l’Italia dovrebbe stipulare un nuovo accordo bilaterale con Gli Stati Uniti, dando vita da una sorta di rapporto speciale tra i due paesi che ci legherebbe ancora più saldamente all’agenda strategica e al comparto militare industriale americano in cambio di una loro maggiore copertura militare e al supporto ai nostri interessi nazionali nella regione mediterranea: “Un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti” si legge nell’editoriale “[…ri]costituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”. Il ragionamento è questo: visto che, volenti o nolenti, siamo provincie del loro impero e da Washington hanno deciso che la Russia e la Cina devono essere trattati come nemici dell’Occidente, l’unica cosa che possiamo fare noi per salvarci è invocare ancora maggiore dipendenza strategica dall’America in cambio di una maggiore copertura e di un po’ più di autonomia tattica nel Mediterraneo, una regione comunque secondaria nel conflitto tra USA, Russia e Cina che potrebbe permetterci di battere la concorrenza di nostri competitor regionali agguerriti come la Francia e la Turchia. L’idea è, insomma, che potremmo sfruttare meglio di quanto non stiamo facendo il nostro comunque inemendabile status di nazione occupata per portare avanti i nostri interessi nazionali nel nostro estero vicino; come vedremo in questa puntata, quella di Limes, per quanto ragionata e argomentata , appare una proposta miope da tanti punti di vista. E su La Fionda è uscito un interessantissimo articolo di Mimmo Porcaro, Il limite di Limes e il nostro, che analizza nel dettaglio la proposta della rivista del gruppo Gedi facendone emergere tutte le contraddizioni e avanzando un’altra possibile proposta strategica che si pone, invece, come chiaro obiettivo non la rassegnazione alla sudditanza – che è anche quanto di più lontano dal nostro interesse nazionale -, ma la lotta per la riconquista di una sovranità popolare e democratica e di una politica estera finalmente all’altezza della nostra storia e di questo compito.

Mimmo Porcaro

Come sottolinea giustamente Porcaro nell’articolo de La Fionda, Limes è un importante riferimento culturale per chi si occupa di geopolitica in Italia e per quanto riguarda gli articoli dedicati al nostro paese dà spesso voce ad interventi assai condivisibili che cercano di comprendere le cause strutturali del nostro declino e di indicare obiettivi politici realistici per invertire la tendenza: dalla ridiscussione dell’euro alla reindustrializzazione del paese, al rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, alle politiche demografiche, alla politica scolastica, alla gestione dell’immigrazione, ecc. Il pezzo forte dell’ultimo numero dedicato all’Italia, però, riguarda la politica estera e la collocazione del nostro paese nel grande conflitto geopolitico in atto – quella che a Limes piace chiamare La guerra grande – e sia nell’editoriale di Caracciolo che nell’articolo di Federico Petroni leggiamo, in sintesi, questo ragionamento: dato che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più controllare tutte le aree critiche del pianeta e dato che una difesa comune europea è una prospettiva più mitologica che politica, l’Italia, per non rimanere indifesa, dovrebbe operare in stretta connessione con gli Stati Uniti una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana. Insomma: in questo clima di guerra degli Usa nei confronti di Russia e Cina che vedrà come area di conflitto anche il Mediterraneo (anche se solo come area secondaria), l’Italia deve ribadire con ancora più forza il proprio allineamento e la propria fedeltà al blocco atlantico svolgendo il ruolo di unico vero campione degli interessi americani nel mare nostrum, così da sfruttare questo rapporto privilegiato con il padrone a scapito, magari, delle altre potenze regionali vicine. Come sottolinea giustamente Porcaro, nonostante venga presentata come unica opzione possibile per assicurarci un ruolo di maggiore autonomia e potenza del paese nel nostro estero vicino, questa tesi deve essere respinta con decisione: “Prima di tutto” scrive Porcaro, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime o, comunque, a confondersi con esse, soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali.”
Uno dei problemi fondamentali di questa proposta, insomma, è che non siamo agli inizi degli anni 2000 e nemmeno a 10 anni fa, quando la pax americana ancora grossomodo reggeva e la guerra grande non era ancora cominciata: “Se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo” continua Porcaro “non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti contro-effetti nel Mediterraneo stesso”. Auspicare di prendere parte ad un conflitto mondiale potenzialmente devastante schierandosi, senza se e senza ma, con una delle due parti in causa non sembra – a dirla tutta – una strategia granché lungimirante e spacciarla per mero realismo politico e interesse nazionale appare addirittura irrazionale e contraddittorio; come spiega Porcaro, infatti, la tendenza in America a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è molto più forte di quello che traspare dagli articoli di analisti statunitensi, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Come diciamo poi spesso ad Ottolina, più che politico-culturale, è una questione strutturale: il capitalismo finanziario americano può sopravvivere in questa forma e con questa costante crescita solo attraverso l’egemonia espansionistica militare degli USA a scapito del resto del mondo; un nuovo ordine multipolare o policentrico implicherebbe, invece, un’inevitabile implosione delle proprie bolle finanziarie, scenario molto più apocalittico per le oligarchie economiche americane rispetto ad una guerra, magari lontana dal proprio territorio, contro le altre superpotenze. “Il nodo essenziale è questo” scrive Porcaro: “per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso militare-industriale). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo”; indipendentemente da Clinton, Bush od Obama, sono stati questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’open door, ossia del libero mercato mondiale inteso come penetrazione economica degli USA nel resto del mondo, in prima istanza grazie agli investimenti, ma sempre sotto la tutela delle armi.
E anche il recente protezionismo di Trump e di Biden, con annessa maggiore aggressività economica e militare nei confronti dei paesi non allineati, non è che un aggiornamento della politica imperialista del capitale alla luce della ormai ingestibile capacità economico-industriale cinese: “Stando così le cose” conclude il ragionamento Porcaro “stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del popolo eletto) a comportamenti potenzialmente controproducenti”; affidarsi, insomma, completamente al popolo eletto – subordinando, oltretutto, ad esso in maniera quasi irreversibile la nostra industria militare – potrebbe non essere una scelta molto saggia in quanto non se ne ricaverebbe affatto una maggiore autonomia, sovranità e profondità strategica, ma soltanto un collaborazionismo ancora più servile e autolesionistico ad una potenza strutturalmente guerrafondaia pronta a sacrificarci senza troppi problemi qualora questo giovasse al loro interesse nazionale e magari, chissà, come estrema ratio a trascinarci negli inferi insieme a lei. Una proposta quindi paradossale, tanto che anche Petroni, nel suo articolo Per una relazione speciale con gli Stati Uniti, sottolinea come gli italiani non avrebbero alcun interesse a fare la guerra alla Russia e alla Cina e come la nostra idea di Occidente sostanzialmente fatto e finito e quella americana, in costante imperialistica espansione, non coincidano affatto: “A tutto voler concedere” scrive Porcaro “la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (segreto) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima” e cioè che, ripetiamo, è finita l’epoca in cui il massimo pericolo per l’Italia era la concorrenza nel Mediterraneo di altre potenze NATO, come Grecia o Francia e Turchia, e lo strapotere economico tedesco nell’area euro da cercare di bilanciare in qualche modo, ma siamo nell’epoca, come Limes riconosce, della guerra grande e, cioè, in una fase in cui la nostra potenza occupante e l’imperiale di riferimento si è resa conto che per mantenere la propria egemonia non può che fare la guerra ai propri nemici, a loro volta armati di bombe atomiche. La maggiore indipendenza ventilata da questo rapporto speciale sarebbe quindi solo un’illusione anche perché, come scrive Porcaro, “In guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.” Insomma: in questa impossibilità a staccarsi (forse sentimentalmente) dagli Stati Uniti sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale.
Pur senza fare i conti in tasca alla rivista e concedendo un’assoluta indipendenza e onestà intellettuale al progetto editoriale, è chiaro che, per qualche motivo, manca il coraggio di porre come prospettiva di medio-lungo periodo una ritrovata sovranità democratica del nostro paese, che pure è l’unica prospettiva che coincide veramente con il nostro interesse nazionale; come raggiungere questo obiettivo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare e su cui Limes dovrebbe maggiormente discutere: rispetto a questo obiettivo strategico di medio-lungo periodo, tutto il resto è tattica e strategia e, magari, anche stipulare dei nuovi accordi di vassallaggio con gli Stati Uniti in determinate circostanze potrebbe avere senso, ma queste circostanze oggi ci dicono l’esatto opposto e, quindi, di questo collaborazionismo implicito (spacciato per disincantato realismo) non abbiamo davvero più bisogno. “Per Limes infatti” scrive Porcaro (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) “l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi”. “Ma noi cosa proponiamo?” si chiede infine Porcaro, intendendo con “noi” tutti coloro che rivendicano il nesso tra sovranità nazionale e democrazia e non si fanno attrarre da qualche snobistica prospettiva pseudo-realista; quando si passa alle proposte alternative concrete, spesso tra questi “noi” ci si limita agli slogan – fuori dalla NATO, fuori dall’euro – e non sappiamo andare oltre la pur giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare. Ma quale posto spetterebbe all’Italia in questo nuovo equilibrio? E come fare a raggiungerlo? “Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un blocco BRICS?” si domanda Porcaro; “Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.”
Tra gli obiettivi di Ottolina Tv c’è senz’altro quello di stimolare un dibattito serio e ragionato che possa superare tanto il collaborazionismo implicito di Limes quanto gli slogan di protesta privi di contenuto e chiarire le possibili prospettive strategiche alternative per il nostro paese. Per prima cosa, ragiona Porcaro, i principi guida dovrebbero essere due: “1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente linea di tiro, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi, sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale.” Nelle condizioni attuali, un pur affascinante polo mediterraneo appare irrealizzabile o, quantomeno, non è più perseguibile come strategia principale: “Il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fatti assai più deboli, economicamente e politicamente (il piano Mattei senza la potenza dell’industria di Stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra”; cosa resta quindi, conclude Porcaro? “Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti”. Quello che rimane da chiarire in questa condivisibile suggestione strategica di Porcaro è, però, cosa si intende con alleanza europea e soprattutto quali Stati ne dovrebbero fare parte: si intende un un’improbabile nuova alleanza tra i 27 Stati membri dell’Unione europea? Oppure – cosa forse più verosimile e gestibile – un nucleo europeo composto dagli Stati occidentali? Rispetto a questa condivisibile proposta strategica, benché ancora tutta da definire, si pongono allora allora due questioni primarie: “Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed unitarie”. Quanto alla seconda questione, ricorda Porcaro, bisogna sempre ricordare che in politica e, soprattutto, in politica estera, si raggiunge lo scopo prefissato solo attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche; pertanto, per quanto riguarda questa nuova alleanza europea, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della NATO e dell’Unione europea “ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione”.
Insomma: la chiarezza negli obiettivi strategici di medio-lungo periodo, fondamentali per la sopravvivenza della Nazione e quindi per il recupero della sovranità democratica, deve essere la premessa fondamentale per orientare la nostra azione politica; i piani e le svolte tattiche che saremo costretti a valutare per raggiungerli sono, in parte, imprevedibili. Quello che è sicuro è che di alcune posizioni servili e, nella sostanza, antinazionali (anche quando fatte con buona fede) sono oggi, per tutto quello che abbiamo detto, francamente irricevibili. E se anche vuoi contribuire a costruire un media veramente libero e indipendente che si occupi di proposte strategiche nazionali e in vista dell’emancipazione del 99 per cento, aderisci alla campagna di sottoscrizioni di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

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I BRICS sfidano l’Iimpero – Ft. Davide Rossi

Oggi il nostro Gabriele intervista Davide Rossi, storico del Novecento che si occupa delle più recenti dinamiche mondiali e di sistema-mondo. Davide ci conduce in una lunga carrellata sulle ultime tendenze in atto in India, Cina, Russia, America Latina (con particolare attenzione al Brasile di Lula), Africa, Medio Oriente, Europa e Nord America. Il ruolo dei BRICS è ormai centrale per capire la crisi in cui annaspa l’Occidente collettivo, alla ricerca di una via di fuga dalla crisi presente. Questa lunga discussione non dimentica la lotta del popolo palestinese contro la colonizzazione israeliana e il sionismo. Buona visione!

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