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Corea del Sud, Romania, Siria (e anche Francia e Georgia): i 5 giorni che sconvolsero il mondo

Ottoliner, avrei voluto dirvi ben ritrovati; ma ben ritrovati una sega… Dopo aver passato 4 mesi ininterrotti incollato a quella seggiolina lì dietro, come diceva Vasco Rossi mi son distratto un attimo e, nell’arco di appena 5 giorni, nell’ordine avete dichiarato la legge marziale in una delle democrazie più vitali e dinamiche dell’Asia per provare a salvare il culo a un presidente zerbino che ha il 15% dei consensi, annullato con un golpe giudiziario il voto regolare in un Paese dell’Unione europea per salvare il culo a un altro presidente pupazzo che, a consensi, non arriva manco al 10 e, infine, nell’arco di 3 giorni, rovesciato definitivamente il governo siriano che era sopravvissuto a una guerra mondiale per procura, durata oltre 13 anni, attraverso il sostegno incondizionato a un tagliagole di Al Qaida che è magicamente diventato una popstar democratica nonostante continui a pendere sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari emessa direttamente da Washington. Se mi volevate comunicare che vi stavo mancando, bastava anche meno… Nel caso della celebre canzone dell’intramontabile Vasco, la questione era piuttosto semplice: era tutta colpa d’Alfredo. Nel nostro caso, però, le cose potrebbero essere leggermente più complesse e articolate e se vi dovessi dire che ho un’idea chiara di come si siano svolte queste vicende mentirei spudoratamente, come sinceramente credo stia facendo chiunque in queste ore, invece di porsi una lunga serie di domande, millanti qualche tesi di facile comprensione buona per acchiappare qualche like (compresi, forse, gli stessi protagonisti). Una cosa che però, ormai, mi sembra non possa più essere messa in discussione da chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale è che non si tratta di casi isolati: la guerra totale dell’impero contro il resto del mondo per rallentare il declino e ostacolare la transizione a un nuovo ordine multipolare è in pieno svolgimento, riguarda tutto il pianeta e prevede il ricorso ad ogni mezzo necessario; e quel poco che ancora rimaneva in piedi del vecchio ordine liberale – se mai è esistito – è stato definitivamente spazzato via dagli eventi. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questi 5 giorni che sconvolsero il mondo, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci anche oggi, in mezzo a tutto questo marasma, di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi al servizio della propaganda imperiale e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi la propaganda dell’impero a trasformare un tagliagole fondamentalista in un paladino della libertà, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a resistere in queste giornate turbolente, proprio mentre la stretta delle piattaforme al servizio della propaganda imperiale più sfacciata ci tratta così, con 6 degli ultimi 7 video pubblicati demonetizzati perché si permettono di contraddire il ministero della verità.

Partiamo con una breve cronistoria dei 5 giorni che sconvolsero il mondo. Martedì 3 dicembre, Seoul: con un annuncio che sembrava l’incipit di una serie Netflix di terza categoria, di punto in bianco il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol annuncia a reti unificate l’entrata in vigore della legge marziale (e, quindi, la sospensione di tutti i diritti democratici nel Paese); eletto nel 2022, il presidente ha visto nell’arco di pochi mesi crollare i suoi consensi fino a poco più del 15%. A pesare, in particolare, la scelta di andare contro l’interesse nazionale in totale ossequio all’agenda USA, a partire dall’adesione a una politica nei confronti della Cina letteralmente suicida: Seoul, infatti, ha un interscambio commerciale con la Cina gigantesco (che pesa per poco meno del 20% del PIL) ed è probabilmente l’unico Paese manifatturiero al mondo ad esportare a Pechino più di quanto non importi; a fare la parte del leone, in particolare, l’elettronica, che però Washington non vuole più venga esportata in Cina per provare ad ottenere – con un po’ di guerra commerciale senza esclusione di colpi – quello che l’Occidente in declino, dopo 50 anni di finanziarizzazione, non è più in grado di ottenere attraverso la competizione. Yoon Suk-Yeol ha giustificato la misura accusando gli oppositori di essere quinte colonne al servizio della Corea del Nord, che è un po’ come accusare Tabacci o Mastella di essere fiancheggiatori delle BR; molto più plausibilmente, il crimine degli oppositori potrebbe in realtà semplicemente essere quello di rispondere un pochino di più agli interessi nazionali generali, a partire da quelli delle famiglie della grande borghesia nazionale che sono alla guida di imperi economici enormi che però, più che di speculazione finanziaria, vivono di produzione industriale e hanno nella Cina il partner più importante, e nel mercato cinese il mercato più redditizio. Un blocco sociale potentissimo: la Corea del Sud, infatti, è uno dei pochissimi Paesi alleati dell’Occidente dove la proprietà dei principali gruppi economici è in mano alla borghesia nazionale e non ai monopoli finanziari statunitensi. Quello che invece non è in mano agli attori nazionali è l’esercito: secondo gli accordi bilaterali stipulati nel 1978, infatti, in caso di conflitto a prendere il comando di tutte le forze armate sudcoreane è il generale USA che guida il CFC (Combined Forces Command), il comando delle forze combinate USA e sudcoreane; questo, molto semplicemente, significa che le catene di comando sono necessariamente fortemente integrate. Insomma: che un tentato golpe come questo accada senza che gli USA ne siano al corrente è piuttosto inverosimile, tant’è che la reazione degli USA è arrivata tempestivamente e – guarda caso – non è stata esattamente la più irreprensibile delle condanne; il portavoce del Dipartimento di Stato Vedant Patel, infatti, si è limitato a esprimere grave preoccupazione, ribadendo comunque l’alleanza ferrea che, a prescindere da tutto, lega Stati Uniti e Corea del Sud. Il partito democratico che, invece, sta al governo di Taiwan e che è lo strumento degli USA per provocare la Cina con un po’ di retorica indipendentista, è stato decisamente più esplicito e, con un post su Thread, ha dichiarato che “Il parlamento sudcoreano è stato manipolate dalle forze nordcoreane” e quindi l’entrata in vigore della legge marziale era necessaria “per proteggere il sistema costituzionale libero”. Dopo l’annuncio, istantaneamente l’esercito si è schierato fuori dall’assemblea nazionale per impedire ai parlamentari di entrare nell’edifico e votare per annullare la misura; alcuni parlamentari però, col sostegno della folla che si è radunata spontaneamente alla velocità della luce, sono riusciti a entrare nel parlamento in modo rocambolesco, a partire dal capo dell’opposizione che si è filmato mentre scavalcava le recinzioni dopo essere riuscito a superare il blocco delle forze golpiste. Alla fine l’assemblea è riuscita a votare e ha respinto all’unanimità il tentato golpe. A quasi una settimana di distanza, se vi dovessi dire che c’ho capito qualcosa direi una bugia; quello che però ci tengo a sottolineare è che nelle ultime settimane, in diverse occasioni, abbiamo sottolineato come proprio la Corea del Sud, insieme alla Germania, proprio per le caratteristiche elencate più sopra rappresenti uno dei potenziali anelli deboli del blocco imperiale: per condurre la sua grande guerra contro la transizione al nuovo ordine multipolare, infatti, l’impero ha bisogno della capacità produttiva di entrambi i Paesi, che sono i veri campioni dell’industria dell’Occidente collettivo. La Corea del Sud, in particolare, è indispensabile proprio in virtù della sua industria navale, l’unica che può ambire a competere – seppur da una posizione di svantaggio – con quella cinese. Sia nel caso coreano che in quello tedesco però, proprio in virtù di un livello molto inferiore di finanziarizzazione dell’economia, gli interessi delle borghesie nazionali sono spesso in completo contrasto con quelli di Washington e Wall Street; ad essere totalmente allineate con il centro imperiale, però, rimangono le istituzioni, che i vincitori della seconda guerra mondiale hanno costruito a immagine e somiglianza delle loro ambizioni egemoniche. E quindi, mano a mano che i venti di guerra si intensificano e che gli interessi divergono, è piuttosto probabile che si debba assistere a qualche terremoto: ed ecco, così, che come non ci ha particolarmente sorpreso quando, dopo il trionfo di Trump, nell’arco di meno di 24 ore è crollato il governo tedesco, anche questa rocambolesca vicenda coreana ci ha trovati piuttosto attrezzati, anche se – ovviamente – le modalità e i dettagli della vicenda rimangono per noi un totale mistero, anche perché non c’è stato manco il tempo di provare ad approfondire che ecco scoppiare un altro evento epocale.

Venerdì 6 dicembre, Bucarest: con un provvedimento surreale, la Corte Costituzionale decide di annullare il voto di due settimane prima che aveva visto la clamorosa affermazione di un candidato diverso da quelli sostenuti da Washington e da Bruxelles. Si chiama Calin Georgescu: durante la campagna elettorale si era dichiarato contrario all’espansione della base aerea NATO di Costanza sul Mar Nero che, con 2,5 miliardi di nuovi investimenti, è destinata a diventare la più grande d’Europa; e (addirittura) aveva osato dichiarare che a suo avviso Putin sarebbe un uomo che ama il suo Paese. L’accusa mossa nei confronti di Georgescu è che la sua vittoria, del tutto inaspettata, sarebbe dovuta a una massiccia campagna su TikTok che – secondo le agenzie di intelligence rumene – assomiglierebbe ad altre campagne attribuite dai servizi occidentali al Cremlino (meno male che non hanno mai visto i Ferragnez e i Me contro te, sennò a quest’ora capace c’avevano lanciato come minimo una bomba nucleare tattica). Ad approfittare della situazione c’ha pensato l’attuale presidente Klaus Iohannis del Partito Nazionale Liberale; alla fine del suo secondo mandato, Iohannis aveva raggiunto una percentuale di approvazione inferiore al 10%, ancora meno del corrispettivo sudcoreano: a pesare, anche accuse piuttosto diffuse di autoritarismo e di scarso rispetto della libertà di stampa e di espressione, ma – soprattutto – il fatto che questa stretta autoritaria contro la libertà di stampa e di espressione fossero tese a troncare sul nascere le polemiche che stavano montando nel Paese riguardo al fatto che, come la Corea del Sud, anche la Romania aveva deciso di sacrificare completamente gli interessi nazionali per dare il suo contributo alla guerra per procura dell’impero contro la Russia in Ucraina. Una linea talmente malvista che il candidato del partito del presidente, Nicolae Ciuca, è riuscito a raccogliere appena l’8,7% dei consensi: di gran lunga il peggior risultato nella storia del partito liberale. Ovviamente, chiunque proponesse una narrazione radicalmente contrapposta a quella di regime, in particolare sulla questione ucraina, aveva il vento in poppa e siccome – proprio a causa della stretta autoritaria – questa narrazione radicalmente contrapposta non aveva diritto di cittadinanza nel circuito mediatico del regime, ovviamente non poteva che esplodere sulle piattaforme, a partire da quelle che non sono direttamente controllate da Washington (e, cioè, TikTok): l’egemonia totale dei sostenitori di Georgescu su TikTok, quindi, non solo non ha niente a che vedere con chissà quali interferenze straniere, ma (anzi) sono la prova provata del fatto che tutti gli altri mezzi di comunicazione – dai media mainstream alle piattaforme made in USA – sono semplicemente strumenti al servizio della propaganda imperialista e non hanno niente a che vedere con la rappresentazione dell’opinione pubblica e del senso comune; grazie al colpo di Stato della Corte Costituzionale, ora Iohannis, che sarebbe dovuto decadere dal suo incarico il prossimo 21 dicembre e che ha più sostenitori nell’edificio del Pentagono che in tutta la Romania, continuerà a rimanere al suo posto fino a nuove elezioni, nonostante la costituzione preveda espressamente che in questi casi dovrebbe subentrare il presidente del senato. Anche in questo caso – come per la Corea del Sud – l’episodio in se, la sua tempistica e le sue modalità, ovviamente, ci hanno colti completamente di sorpresa; la dinamica profonda che l’ha reso possibile, invece, è ormai scontatissima: il grosso dei popoli europei, di immolarsi per questa guerra per procura contro un vicino che (a parte gli analfoliberali) nessuno ha motivo di considerare un nemico o una minaccia, non ne vogliono sapere, e le istituzioni delle amministrazioni coloniali, contro l’ascesa del dissenso non hanno altri strumenti che sospendere lo stato di diritto e la retorica liberale, che è esattamente quello che vorrebbero fare anche i più talebani tra i filo-europeisti in Georgia.

Come sapete, anche qui lo scorso 26 ottobre dalle urne era uscito trionfante il partito di governo Sogno Georgiano, che dalla propaganda suprematista viene considerato filorusso, ma filorusso proprio non è: molto più semplicemente non è un partito disposto ad andare contro l’interesse nazionale pur di riaprire un altro fronte della guerra per procura dell’impero contro il vicino russo, dal quale la minuscola e poverissima Georgia ovviamente non può prescindere; nonostante Sogno Georgiano da solo abbia preso la maggioranza assoluta dei voti, alla presidenta Salomé Zourabichvili questo risultato non piaceva ed ha deciso di non riconoscerlo e di dichiarare che quando il 16 dicembre scadrà il suo mandato, lei rimarrà dov’è fino a quando non ci saranno elezioni dove a vincere sia chi ha deciso lei. Il caso della Zourabichvili è particolarmente eclatante perché, nel caso suo, si tratta di un agente straniero a tutti gli effetti: nata in Francia da georgiani esiliati, infatti, ha servito addirittura come ambasciatrice francese in Georgia fino al 2004 e solo dopo ha ottenuto la cittadinanza; un caso così eclatante di un agente straniero che annulla le istituzioni liberali di un Paese per azzerarne la sovranità e arruolarlo nella guerra per procura contro la Russia voluta da Washington può avvenire solo nell’estrema periferia dell’impero, in Paesi con istituzioni democratiche giovani e ancora estremamente deboli. Ma, in forme più edulcorate, è un processo che ormai ha raggiunto pienamente il cuore del vecchio continente; due giorni prima del golpe in Romania, infatti, un altro disastro epocale si era consumato in quel che rimane della Francia della Quinta Repubblica fondata nel 1958 da uno che di fare da zerbino a Washington non ne voleva sapere: il generale Charles de Gaulle.

Iniziamo con un brevissimo riassunto delle puntate precedenti: alle Europee di giugno, Macron aveva preso meno voti di quanti ne avrebbe presi il presidente sudcoreano, fermandosi a quota 14,6%, meno della metà della Le Pen; Macron, allora, ha scelto di fare il gesto teatrale e ha convocato le elezioni legislative per due settimane dopo. Per arginare l’ascesa della Le Pen, allora, Macron e la coalizione del Nuovo Fronte Popolare hanno fatto un accordo che – grazie alla ridicola e antidemocratica legge elettorale francese – ha effettivamente consegnato alla Marine nazionale meno di un terzo dei seggi; il primo gruppo parlamentare era risultato, invece, proprio quello del Nuovo Fronte Popolare, al quale sarebbe spettata la guida del governo. Macron (e alcuni venduti del Fronte stesso), però, di nominare la candidata proposta – la moderatissima e presentabilissima Lucie Castets – non ne volevano sapere e non perché fosse il corrispettivo femminile di Mao Zedong, ma semplicemente perché, come Sogno Georgiano in Georgia, non dava abbastanza garanzie di essere un fedele soldatino dell’impero e della finanza francese; alla fine, Macron ha fatto un altro piccolo golpe istituzionale e dopo due mesi di governo ad interim, dove a governare direttamente è stato Macron stesso a colpi di decreti presidenziali, ha nominato primo ministro Michel Barnier, l’esponente del Partito Repubblicano che, alle legislative, non solo aveva interrotto una tradizione pluridecennale e non aveva aderito al patto di desistenza contro la destra lepenista, ma si era proprio alleato direttamente con la Le Pen. Sono seguiti due mesi di governo di minoranza che per ogni misura doveva trovare il sostegno della stessa Le Pen e, quando non lo trovava, si continuava a governare a colpi di decreti presidenziali; fino a quando la Le Pen non ha capito che era arrivato il momento giusto per fare l’all in e mercoledì scorso ha sostenuto una mozione di sfiducia presentata dal Nuovo Fronte Popolare che ha messo fine, dopo appena 72 giorni, al governo più breve di tutta la Quinta repubblica. E, così, oggi la Francia si trova di nuovo senza governo, con un presidente totalmente delegittimato, una legge di bilancio in sospeso e in una crisi economica che, in confronto, quella tedesca sembra una gita di piacere – anche se non per la coalizione che era al governo fino al giorno prima del trionfo di Trump negli USA. Da allora, anche il governo tedesco è collassato e le elezioni (che erano previste per il prossimo settembre) sono state anticipate a febbraio, sempre che il 16 dicembre anche Scholz non venga definitivamente sfiduciato dal voto in aula e si proceda a nuove elezioni ancora prima. Nel frattempo – vale la pena ricordarlo – il premier britannico Keir Starmer non ha fatto in tempo a insediarsi che il suo sostegno è crollato sotto al 25% mentre, appunto, negli USA, pur di levarsi dai coglioni gli eredi di Biden, sono andati a votare il suprematista bianco e tamarro maschilista Trump pure le donne, i latinos e gli afro-discendenti. Insomma: la disfatta politica dell’establishment liberale occidentale è totale e, fino a pochi giorni fa, si riassumeva in questi storici meme, con la fiera dei leader occidentali che avevano detto che Assad doveva essere tolto di mezzo, ma – alla fine – erano stati tolti di mezzo prima loro e Assad se ne stava ancora lì.

Fino a domenica scorsa, e qui il tono della narrazione cambia: dalla spavalderia contro l’Occidente liberale che collassa allo sconforto per una sconfitta epocale e (devo ammetterlo) totalmente inattesa. Di Siria, negli ultimi giorni, abbiamo parlato continuamente cercando di sviscerare ogni singolo dettaglio; qui mi limiterò a qualche considerazione di carattere più generale. La prima è, per forza di cose, un bilancio alla luce della catastrofe siriana di questi 14 mesi di Medio Oriente in fiamme, 14 mesi durante i quali non ho fatto sostanzialmente altro che celebrare la cazzimma dell’asse della resistenza e sottolineare quanto l’entità sionista e i suoi sostenitori fossero ridotti a sterminare i bambini perché incapaci di raggiungere obiettivi militari; oggi mi sembra si debba ammettere che è stata probabilmente la più grossa cantonata – anche se ovviamente non l’unica – che ho preso da quando esiste Ottolina: dalla resistenza palestinese, ad Hezbollah, alla Siria, l’asse della resistenza per come lo abbiamo raccontato in questi 14 mesi è stato letteralmente spazzato via. Per fare un parallelo tra i vari fronti della grande guerra, la Siria sta alla Russia e all’Iran come l’Ucraina sta all’imperialismo a guida USA: una batosta colossale. I festeggiamenti che sono divampati nelle cancellerie dei sostenitori del genocidio sionista sono quindi, ahimè, del tutto giustificati, però potrebbero anche essere un po’ prematuri: asfaltato l’asse della resistenza per come era stato concepito e organizzato dal generale Soleimani, rimane da capire bene quanto tutti gli altri attori regionali che nella vicenda siriana hanno giocato un ruolo siano compatibili con le ambizioni egemoniche USA e con i piani di Israele, e questo vale per la Turchia e per i suoi alleati, a partire dal Qatar, ma anche per i qaidisti siriani, come al Golani, che sono stati spalleggiati dall’Occidente in chiave anti-Assad e anti-iraniana, ma che potrebbero avere piani non del tutto compatibili con la Grande Israele e, in generale, con Make America Great Again. In questo complicato equilibrio di potenze, poi, ci sono anche le altre petromonarchie del Golfo che per bilanciare l’ascesa della galassia della fratellanza musulmana (che fa capo, per farla semplice, proprio a Turchia e Qatar), stanno cercando da tempo un dialogo costruttivo con il mondo sciita e con l’Iran, a partire dalla riapertura delle relazioni diplomatiche tra sauditi e iraniani mediata dalla Cina; e poi ci sono Russia e Iran che hanno – senza alcun dubbio – preso una scoppola memorabile, ma che però hanno operato una ritirata strategica piuttosto ordinata e hanno subito cercato (soprattutto Mosca) di stabilire un dialogo con le forze siriane emergenti. Non è la prima volta che Mosca è costretta a una ritirata strategica in grande stile che puzza di disfatta: era già successo anche nella stessa Ucraina, prima a Kharkiv nel settembre 2022 e poi a Kherson un paio di mesi dopo: anche allora io ero stato preso completamente alla sprovvista, non c’avevo capito una seganiente e avevo fatto un harakiri pubblico. Nei mesi successivi, quella ritirata strategica si è rivelata il primo tassello che ha portato a una riorganizzazione complessiva che poi ha portato a un dominio militare incontrastato; sinceramente non credo sia questo il caso: quello che credo, molto semplicemente, è che la terza guerra mondiale è in pieno svolgimento e che ci saranno ancora molte altre Ucraine e molte altre Sirie e, soprattutto, molte altre elezioni negate, colpi di Stato militari, crisi economiche devastanti e qualche altro simpatico genocidio qua e là (che se commesso dagli amici dell’Occidente verrà spacciato come “diritto alla difesa”). Sarebbe il caso di organizzarsi affinché il tutto non avvenga beatamente sopra le nostre teste mentre assistiamo passivi: per farlo, prima di tutto ci serve un luogo sicuro dove ovviamente si fanno anche un sacco di errori, anche catastrofici, ma dove non c’è nessuno a dettare una linea che risponda agli interessi di una sparuta minoranza contro quelli del 99%. Insomma: oggi più che mai ci serve come il pane un media indipendente, ma di parte – quella del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanhyau

OttolinaTV

10 Dicembre 2024

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