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L’Italia si compra la Germania: cosa si nasconde dietro alla scalata di UniCredit a Commerzbank

Gli italiani si comprano le banche tedesche, di nuovo: Mercati in festa, tedeschi basiti titola Libero ostentando un po’ di sano orgoglio italico; il riferimento è all’operazione che mercoledì scorso, senza che nessuno se lo aspettasse, ha portato la milanese UniCredit ad acquisire il 9% di Commerzbank, la quinta banca tedesca per patrimonio gestito. UniCredit ha approfittato della svendita di una parte delle azioni della banca detenute dallo Stato tedesco, che aveva salvato l’istituto dal default durante la grande crisi finanziaria nel 2008 e che, a operazione finita, nella migliore delle ipotesi avrà perso 2,5 miliardi di euro dei contribuenti per metterli direttamente nelle tasche della grande finanza privata; e potrebbe essere solo l’inizio: lo Stato tedesco rimane infatti ad oggi il principale azionista, ma è intenzionato a liberarsi di tutto. D’altronde, dall’Italia alla Germania, funziona così: prima si socializzano le perdite e poi si privatizzano i profitti; lo Stato al servizio dei ricchi. L’amore di UniCredit per cruccolandia non è una novità: già nel 2005, in piena era Profumo, l’istituto milanese si era accattato Hypo Vereinsbank, HVB per gli amici. E gli amici sono tanti: era, ed è tutt’ora, la quinta banca del paese. Se UniCredit, come pare abbastanza probabile (anche se non scontato), portasse a termine l’acquisizione di Commerzbank, darebbe vita al primo polo bancario del paese in mano all’Italia, ma non certo nell’interesse degli italiani: la notizia shock dell’ascesa della finanza italiana nel cuore della principale potenza economica del vecchio continente, infatti, è il primo timido tentativo di dare vita concretamente ai propositi del Rapporto Draghi sulla Competitività dell’Europa, una competitività che – recita la sacra dottrina neoliberista – può essere raggiunta soltanto attraverso lo strapotere del capitalismo privato. La creazione di colossi bancari transcontinentali è la scorciatoia individuata per creare quel mercato unico dei capitali che non siamo riusciti a creare attraverso le istituzioni; e quel mercato unico dei capitali è il requisito minimo necessario di cui avremmo bisogno per dare vita a dei campioni continentali in grado di competere con i colossi globali (in particolare cinesi e statunitensi) nei settori più promettenti dell’economia del futuro, mentre tutto il resto dell’economia – quella che dà da mangiare e la speranza di una vita quasi dignitosa alla stragrande maggioranza dei cittadini europei – verrà gradualmente privata dell’accesso al credito (che solo una rete diffusa di banche locali fortemente vincolate al territorio può garantire) e se ne potrà andare beatamente affanculo. E visto che la Germania è il primo cliente dell’export italiano, alla fine a pagare il conto saremo, di nuovo, anche noi. Ma prima di addentrarci nei particolare di questa intricata vicenda che anticipa l’Europa che verrà nel prossimo futuro, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci anche oggi di combattere la nostra piccola guerra quotidiana con un monopolio che c’è già (quello degli algoritmi al servizio della propaganda dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino i monopoli finanziari a licenziare qualche decina di migliaia di bancari per far schizzare le azioni in borsa, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a far conoscere a sempre più persone il lato oscuro delle magnifiche sorti e progressive della grande concentrazione capitalistica.

L’Italia si compra la finanza tedesca a buon mercato: questa prima parte della scalata a Commerzbank è costata in tutto 1,5 miliardi; per UniCredit spiccioli. Con la corsa al rialzo dei tassi di interesse, le banche negli ultimi due anni hanno guadagnato cifre spropositate facendosi pagare una montagna di interessi dai debitori, senza riconoscere il becco d’un quattrino a chi, per pigrizia o per paura, lasciava i quattrini a svalutarsi sul conto corrente e con la complicità dei governi che, a un certo punto, per placare la rabbia popolare hanno annunciato tasse sugli extraprofitti, ma poi si sono scordati di applicarle sul serio perché c’avevano judo. E UniCredit è stata forse la banca che c’ha guadagnato di più in assoluto: oltre 20 miliardi di euro in due anni; per un’azienda che in borsa vale poco più di 55 miliardi, uno sproposito. Giusto per farsi un’idea, equivalgono ai profitti registrati da aziende come Pepsico, Cisco o Philip Morris o, per rimanere nel settore finanziario, a giganti come Allianz, Royal Bank of Canada o Morgan Stanley, tutte aziende ordini di grandezza più grandi e con capitalizzazioni di borsa che sono dalle tre alle quattro volte quella di UniCredit; ed ecco, così, che ora UniCredit si ritrova con una bella carta di credito illimitata per fare shopping in grande stile, tanto da presentarsi all’asta indetta dallo Stato tedesco con talmente tanta liquidità da sbaragliare la concorrenza di competitor del calibro di ING e BNP Paribas. D’altronde, Orcel, l’amministratore delegato della banca milanese, era in cerca di acquisizioni da tempo: prima aveva puntato gli occhi su MPS, ma aveva chiesto garanzie talmente pesanti che anche degli svendi-patria di professione come i meloniani di palazzo Chigi sono stati costretti a soprassedere. Poi era stato il turno di Banco BPM, un’operazione che però, evidentemente, a più di qualcuno non andava molto a genio: nel bel mezzo della trattativa c’è stata una fuga di notizie che ha fatto esplodere le quotazioni della banca che, a quel punto, non era più appetibile.
La svendita delle quote pubbliche della Commerzbank era l’occasione d’oro che stava aspettando e che aveva preparato da tempo: UniCredit, infatti, aveva già fatto una prima campagna acquisti in Germania nel 2005 con Alessandro Profumo, quando aveva scalato la proprietà di HVB che, in termini di asset, è la quinta banca del Paese, ma in termini di sportelli è la terza – che è anche il motivo per il quale ai sindacati tedeschi la scalata di UniCredit non piace manco un po’: a differenza dei concorrenti ING e BNP Paribas infatti, ovviamente (e giustamente) vedono all’orizzonte massicce sforbiciate di personale approfittando delle sinergie possibili tra Commerz e HVB. L’idea di una fusione tra UniCredit e Commerzbank, poi, era stata rispolverata da Orcel pochi mesi dopo la sua nomina, a fine 2021, ma poco dopo la guerra in Ucraina aveva fatto saltare il tavolo e non era manco la prima volta: già prima di Orcel “A provare ad affondare il colpo” ricorda Il Sole 24 Ore “era stato l’ex CEO Jean Pierre Mustler che, a più riprese, tra il 2015 e il 2019 aveva tentato di intavolare una trattativa con il governo tedesco che però era finita nel nulla anche proprio a causa della riottosità dei sindacati tedeschi”. Altri tempi. Ora però, dopo il Rapporto Draghi, l’idea è che le concentrazioni non possano più attendere e che quei conservatori dei sindacati si devono attaccare al tram. Il sindacato Ver.di (che non c’entra niente con i talebani dell’ecologismo imperiale in stile Anna Baerbock) comunque c’hanno provato e hanno “esortato il governo a interrompere la vendita e a bloccare qualsiasi potenziale acquisizione da parte di UniCredit”; la fusione tra Commerzbank e HVB darebbe vita al primo polo bancario del paese e a una ristrutturazione che pagherebbero i lavoratori: “Se i sogni di gloria di Orcel sono grandi” commenta il Sole, “la strada è in salita”.
Fortunatamente per Orcel, però, è una salita dorata: il titolo di Commerzbank mercoledì, infatti, ha guadagnato in una botta sola il 17%; anche se dovesse fallire la scalata, si sarebbe comunque trattato di un tentativo piuttosto redditizio pagato dai contribuenti tedeschi. Che uno dice: bene, ci godo, una volta tanto; peccato che i soldi non andranno in tasca di altri cittadini europei derubati dall’Europa ordoliberista a trazione tedesca. Indovinate un po’, invece, a chi andranno in tasca? Esatto, proprio a loro: le Big Three che, a questo giro, sono soltanto due; BlackRock e Vanguard, infatti, non sono solo i due azionisti principali di UniCredit, ma anche (subito dietro al governo tedesco) di Commerzbank. Almeno fino a ieri, quando – appunto – il secondo azionista è diventato UniCredit che però, a sua volta, significa principalmente BlackRock e Vanguard. Insomma: come la rigiri la rigiri, quel bel +17% di ieri guarda caso va in tasca ai grandi monopoli finanziari a stelle e strisce; come operazione per salutare la svolta eurosovranista annunciata dal Piano Draghi non c’è malaccio, diciamo. E quel +17% è solo la punta dell’iceberg: “Bene che andrà” ricorda infatti il Sole, “i contribuenti tedeschi subiranno una perdita secca di circa 2,5 miliardi di euro”; a tanto, infatti, ammonta la perdita per le casse tedesche che si registrerà quando sarà finita la svendita anche del restante 12% di Commerzbank che, per ora, è rimasto nelle casse del Fondo per la stabilizzazione del mercato finanziario, un eufemismo gentile per indicare un fondo pensato per rubare soldi ai contribuenti e metterli in tasca agli oligarchi. Per salvare la banca nel 2008 lo Stato, infatti, aveva sborsato oltre 5 miliardi; se rivendesse tutte le sue quote ai 13,20 euro per azione sborsati mercoledì da UniCredit, ne incasserebbe in tutto 2,5.
Nel 2008 l’operazione Commerzbank stava dentro a un operazione molto più grossa, dove lo Stato si comprava, a prezzi che non avevano niente a che vedere con i prezzi reali di mercato, il 25% dell’intera industria del credito tedesco “per evitare il contagio e proteggere così l’intero 100%” (Il Sole 24 Ore); subito dopo l’acquisto, le azioni pagate 26 euro sono crollate a un quinto del valore e non hanno mai ripreso il volo. Per questo sbarazzarsi delle sue quote per il governo si è sempre rivelata una mission impossible: come lo giustifichi il fatto di aver regalato qualche miliardo a degli oligarchi mentre la tua economia cade letteralmente a pezzi perché, in ossequio al rigore di bilancio, sono 20 anni che non fai un euro di investimenti? Ma non solo. Lo Stato tedesco con Commerzbank s’è comportato come il più intransigente dei padroni e ha portato avanti una cura da cavallo a forza di tagli e ridimensionamenti del personale; aggiungici il biennio d’oro per l’intero comparto bancario europeo innescato dalla corsa al rialzo dei tassi di interesse ed ecco che la ristrutturazione è avvenuta: Commerzbank è tornata ad essere redditizia e ha cominciato a portare un po’ di quattrini nelle casse dello Stato. E proprio adesso vuoi vendere? Ma sei scemo? Fortunatamente, però, adesso è arrivata l’occasione d’oro: per chiudere il budget statale del 2025 alla Germania gli mancano svariati miliardi; ovviamente, non è che mancano davvero, ma esclusivamente perché si continua a venerare il Dio dell’austerity senza nessuna motivazione razionale concreta. Ma il lavaggio del cervello sistematico della propaganda è riuscito a diffondere questa religione in buona parte del popolo tedesco, che ora è addirittura disposto a veder regalare qualche miliardo di soldi suoi ai finanzieri piuttosto che vedere infrangere il tabù del pareggio di bilancio; l’unica speranza è che il lavaggio del cervello non sia stato così profondo da impedire alle persone in carne ed ossa di battersi per difendere almeno i loro interessi concreti immediati.
In virtù del sistema di governance duale che vige in Germania, infatti, i rappresentanti dei lavoratori siedono direttamente nel consiglio di sorveglianza di Commerzbank, da dove qualche strumento per ostacolare l’operazione ce l’avrebbero pure. E i motivi per opporsi sono parecchi: basta guardarsi indietro. Quando UniCredit nel 2005 s’è comprata HPV, nel giro di poche settimane ha subito annunciato tagli per migliaia di posti di lavoro: “Non abbiamo bisogno di un altro disastro come quello che abbiamo visto con Hypo” ha dichiarato a Bloomberg uno dei sindacalisti che siede nel CdA di Commerzbank; “Non abbiamo bisogno che gli italiani vengano e facciano saltare le banche tedesche tradizionali”. E il problema non riguarda solo i posti di lavoro diretti: il processo di concentrazione bancaria infatti, al contrario delle vaccate spacciate dagli analfoliberali, non è solo e semplicemente un processo di efficientamento da affrontare come un problema tecnico; è un problema eminentemente politico. Le fusioni infatti, ovviamente, non rispondono tanto a criteri di carattere industriale, ma prevalentemente a criteri speculativi: sono solo i mega-gruppi, infatti, a spartirsi la torta della capitalizzazione in borsa. Peccato, però, che le banche non sono aziende come tutte le altre: sono il cuore di ogni sistema industriale moderno ed hanno il compito di iniettare nell’organismo il sangue e, cioè, la liquidità, i piccioli; ma mega-gruppi totalmente scollegati da qualsiasi forma di insediamento territoriale – e totalmente orientati alla rendita finanziaria e a pompare a dismisura e senza sosta il prezzo delle azioni attraverso la spartizione del mercato tra pochi colossi oligopolistici – non sono minimamente in grado di garantire al sistema produttivo di medie e piccole aziende di un territorio l’afflusso di sangue necessario. La battaglia dei sindacati contro le fusioni che creano la rendita in borsa, ma distruggono la capacità di creare valore reale, non è quindi solo una sacrosanta battaglia in difesa del loro lavoro e della loro dignità, ma una battaglia in difesa del lavoro e della dignità di tutti. Sarebbe importante ricordarselo: in Europa, infatti, spuntano come funghi forze politiche che si autodefiniscono sovraniste e si auto-rappresentano come in profondo conflitto con le oligarchie globaliste; e grazie a questa retorica, comprensibilmente, fanno il pieno di voti tra le fasce popolari. Peccato che poi, però, se minimamente ti prendi la briga di andare a vedere le loro proposte di politica economica, ti accorgi che sono più liberiste di Reagan, della Thatcher e di quel pagliaccio di Javier motosega Milei messi assieme; e che quando elencano le élite globaliste che vogliono radere al suolo, non ci sono i membri della nuova aristocrazia come Elon Musk o Jamie Dimon (che, nella loro fantasia, i soldi se li sono guadagnati col sudore, alla faccia dell’invidia di voi zecche comuniste), ma i sindacati. E non alcuni specifici sindacati, giustamente accusabili di essere troppo accondiscendenti nei confronti delle élite, ma proprio dei sindacati in quanto tali – che, quindi, vanno annientati tout court – ed eliminare così ogni ostacolo residuo ad operazioni come questa mega-fusione dove gli unici che possono eventualmente fare qualcosa, appunto, sono proprio i sindacati (che così si ritrovano a combattere da soli sia contro finto-sovranisti che contro veri analfoliberali).
La propaganda della sinistra ZTL, infatti, è spietata: La Repubblichina sottolinea come “Un’integrazione con Commerzbank creerebbe economie di scala e sinergie nel ramo imprese e Pmi in Germania, dove Commerz è già oggi leader, e l’Italia è il primo partner dei tedeschi nell’import-export”. Insomma: sempre la solita vecchia minestra riscaldata della contrapposizione tra lavoratori conservatori, che guardano solo al loro ombelico, e le magnifiche sorti e progressive della tecnocrazia turbo-liberista. La Repubblichina vuole spacciare fusioni che guardano esclusivamente alla borsa e alla rendita finanziaria come occasioni d’oro per lo sviluppo dell’economia reale, che poi però, guarda caso, non arriva mai (mentre i dividendi, quelli sì che arrivano sempre: puntuali come un orologio svizzero). Te guarda la sfortuna, alle volte…Lo sa bene il governo spagnolo che da mesi è messo sotto pressione dalle oligarchie atlantiche (e dalla propaganda che gli fa da portavoce) nel tentativo di convincerlo a mettere sul piatto della grande mangiatoia delle fusioni transfrontaliere europee fiori all’occhiello del sistema bancario spagnolo come BBVA : “La mossa di UniCredit” insiste quindi la Repubblichina “è importante proprio perché rilancia le fusioni transfrontaliere”.
Che il processo di fusione e di creazione di giganti bancari transfrontalieri presenti decisamente più rischi di quanto gli innamorati delle magnifiche sorti e progressive de La Repubblichina siano in grado di concepire, sembra essere un’idea che va ben oltre i confini del mondo Ottolino e anche di quello dei sindacati: secondo tutti i commenti dei grandi media finanziari, ad essere stati colti di sorpresa sarebbero stati per primi proprio gli stessi funzionari del governo che, scrive Bloomberg, “si aspettavano che un gran numero di diversi investitori avrebbero acquistato le azioni della Commerzbank, mantenendo la quota di ciascuno a livelli modesti”, cosa che – continua l’articolo – “avrebbe contribuito a garantire che la banca rimanesse indipendente e continuasse a concentrarsi sui prestiti alle imprese di medie dimensioni nel suo mercato interno”; “La Germania” avrebbe ribadito un funzionario al Financial Times “ha bisogno di banche nazionali per finanziare la propria economia, il Mittelstand” (e cioè, appunto, le piccole e medie aziende che rappresentano il cuore del tessuto produttivo tedesco) “e la Commerzbank da questo punto di vista è fondamentale. Questo accordo” avrebbe concluso “non è solo un accordo finanziario, è un accordo politico”. Fabio De Masi, membro del Parlamento europeo tra le fila del neonato partito di Sahra Wagenknecht e vecchio amico di Ottolina, ha sottolineato come “L’economia tedesca è attualmente esposta a grandi shock e quindi abbiamo bisogno più che mai di finanziatori affidabili per le piccole e medie imprese” ma, appunto, questa operazione va vista inquadrata in un contesto più ampio.
Il contesto più ampio dove inquadrare anche la scalata tedesca di UniCredit è, appunto, quello che è stato delineato dal rapporto sul futuro della competitività dell’Europa di SanMarioPio da Goldman Sachs: “Curiosamente” ricorda, ad esempio, Paul Davies su Bloomberg “proprio questa settimana, l’ex premier italiano ha aperto un potenziale percorso che consentirebbe finalmente a gruppi bancari realmente paneuropei di emergere”; l’idea sostanzialmente è – dopo che in 31 di Maastricht non s’è fatto mezzo passo in avanti verso una vera unione bancaria – provare a percorrere la scorciatoia di un’unione bancaria di fatto limitata ai grandi gruppi, che dovrebbero infrangere il tabù della fusione tra istituti di paesi diversi e usare il loro peso specifico per forzare i limiti che ancora oggi ostacolano la libera circolazione dei capitali. “UniCredit” scrive sempre Davis su Bloomberg “è un buon caso di studio per capire quali sono oggi gli ostacoli e perché questa forzatura è necessaria. La banca milanese è già presente oggi in Germania con HVB, ma la natura frammentata della finanza europea fa sì che i depositi e i capitali rimangano sostanzialmente intrappolati in Germania e non possano arrivare alla sede centrale di Milano per essere distribuiti tra i soci sotto forma di dividendi”; ovviamente, nell’ottica predatoria del capitale, questi ostacoli – benché non abbiano impedito ai soci di UniCredit, come delle altre banche, di accumulare una quantità spropositata di profitti – impediscono la nascita di gruppi continentali in grado di tenere il passo con i grandi concorrenti internazionali. “L’Europa” aveva sottolineato lo scorso novembre proprio dagli schermi di BloombergTV Orcel in persona “ha bisogno di banche con capitalizzazioni di mercato superiori a 100 miliardi di dollari se vogliamo che questo blocco economico regga nei confronti degli Stati Uniti o della Cina”, con una piccolissima differenza: in Cina, infatti, le grandi banche sono controllate dallo Stato e le politiche che adottano devono adeguarsi agli obiettivi politici dettati dal governo; che se quindi, per fare un esempio, decide che nella provincia soncazzoio spersa nel deserto del Gobi bisogna dare benzina alle aziende locali per ridurre il divario con le parti più sviluppate del Paese, le banche – di riffa o di raffa – sono costrette a muoversi. Insomma: l’economia reale e le finalità politiche che, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, si vogliono raggiungere, hanno la priorità assoluta. Nel caso delle mega-banche private, l’unica finalità rimane sempre e soltanto la massima remunerazione del capitale possibile immaginabile, che si ottiene concentrando sempre più quattrini laddove ce ne sono già in abbondanza (e quindi aumentando a dismisura le differenze, invece che ridurle). Che è, appunto, esattamente la logica del Piano Draghi: concentrare le risorse in mano a pochi campioni continentali in grado di competere sui mercati internazionali – e che siano quindi in grado di garantire anche alle nostre oligarchie i super-profitti che garantiscono i mercati speculativi d’oltreoceano – mentre il resto dell’economia (e quindi tutti noi) se ne possono – appunto -allegramente andare affanculo.
Quindi, riassumendo, grazie ai soldi che UniCredit ha fregato ai correntisti negli ultimi 2 anni (e che Giorgia la Madre Cristiana ha deciso di lasciargli in cassaforte senza chiedere niente in cambio), UniCredit fa un’operazione che distrugge direttamente posti di lavoro nel settore bancario in Germania e, in prospettiva, contribuisce a distruggerne molti di più nell’industria, che è il primo cliente dei produttori italiani che quindi, dopo essere stati scippati in banca, si troveranno pure senza lavoro. Mentre BlackRock, Vanguard e le oligarchie che rappresentano guadagnano una marea di quattrini per ognuno di questi passaggi. E quindi, insomma, per rispondere alla domanda iniziale: no, non è l’Italia che si compra la Germania, ma sono le oligarchie transatlantiche rappresentate da BlackRock e Vanguard che si comprano l’Europa e lasciano i cittadini europei, a partire da quelli italiani, in mutande. E meno male che il Piano Draghi ci doveva dare la sveglia… Qui ce l’ha data la sveglia: sui denti! Speriamo almeno mi colga bene, così magari me li raddrizza un po’… Mi sa che se ci vogliamo dare una sveglia, tocca pensarci da soli e, per farlo, ci serve come il pane un vero e proprio media che, invece che fare da megafono agli interessi delle oligarchie finanziarie, dia voce agli interessi di quegli zozzoni conservatori e ottusi dei lavoratori e del 99%. Aiutaci a a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elsa Fornero

OttolinaTV

13 Settembre 2024

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